domenica 5 luglio 2015

AGNESE DOLCI

Agnese Dolci (Firenze 1659-1731)


La mostra “Carlo Dolci 1616 – 1687” aperta a Palazzo Pitti, a Firenze fino al 15 novembre 2015, presenta un protagonista indiscusso della pittura del Seicento a Firenze.
Carlo Dolci è stato osannato dai critici e dai biografi del suo tempo per la realizzazione di opere uniche nel loro genere, eseguite con impeccabile diligenza e con un rigore descrittivo che si potrebbe definire “iperrealista”.
In questo contesto, grazie ad approfondimenti, in catalogo, di Silvia Benassai, si profila tra i numerosi figli dell’artista la figura di Agnese Dolci la più dotata artisticamente e quindi la più presente nella bottega del maestro.

“Furono suoi discepoli; in primo luogo Onorio Marinari, suo stretto parente, piuttosto diligentissimo e di tanto buon gusto, che, avendo fatte opere bellissime, e facendone tuttavia, darà a suo tempo gran materia a noi, o ad altri, di parlare di lui. Agnesa sua figlia, maritata a Stefano di Carlo Baci setajolo, la quale imitando la maniera del padre, e conducendo del continuo opere belle, si è guadagnata fin qui non poco nome….” Così Filippo Baldinucci (Firenze 1624 – Firenze 1 gennaio 1697) tratteggia in poche, efficaci righe i contorni della bottega di Carlo Dolci, elencando tutti gli allievi in scala gerarchica.
Non sono molte le notizie di Agnese, la figlia di Carlo, battezzata il 24 settembre 1659. Oscura finora, è stata la data della sua morte, già collocata tra il 1680 e il 1691 da profili biografici privi di basi documentarie e che hanno a lungo reso Agnese, talentuosa donna pittrice e figlia d’arte creduta morta prematuramente, una sorta di Elisabetta Sirani fiorentina. Ma la Dolci, ben più coriacea della collega bolognese, morì il 27 gennaio 1731 varcando la soglia dei settant’anni. Che non fosse scomparsa in giovane età è provato, oltre che dal testamento recentemente rinvenuto, anche dalle carte dell’Accademia del disegno, presso la quale la pittrice si era immatricolata nel 1706 e cui continuò a versare tassa almeno fino al 1719.
Il matrimonio con il setaiolo Stefano di Carlo Baci si era celebrato il 4 aprile 1682 nella basilica di Santa Maria Novella: la coppia ebbe almeno quattro figli, Filippo (1684 – 1741), Gaetano (1688 – 1691), Colomba (nata il 5 settembre 1691) e Caterina Chiara (1697 – 1699).

I termini cronologici dell’attività di Agnese, dunque, si dilatano notevolmente ma continua a languire il numero delle sue opere certe tra le quali si possono, infatti, considerare autografi soltanto il giovanile Autoritratto e alcuni dei commoventi fogli appartenenti al celebre taccuino del Fitwilliam Museum di Cambrindge, in cui si è creduto di poter ravvisare, piuttosto arbitrariamente, anche la mano di un’altra figlia di Carlo, Agata.
A questi fogli, acerbi ma non privi di qualità nella ingenua freschezza delle figure, spesso ispirate agli esempi di Jacques Caillot e Stefano della Bella, sono stati aggiunti altri eterogenei disegni: la Carità, dei Musei Civici di Padova, sul quale compare la scritta che la assegna alla pittrice, il Ritratto d’uomo, dalla forte matrice dolciana, passato sul mercato tedesco nel 2006, e la Diana e le Ninfe del Museo di Besançon, connotato da un vivace sapore cortonesco, la cui riproduzione fotografica è conservata sotto il nome di Dolci nella fototeca del Kunstistorisches Institut di Firenze. Appare, tuttavia, arduo rintracciare un filo conduttore stilistico che consenta di riferire convincentemente questi disegni ad un’unica mano.
Nella Pinacoteca Crociati di Montepulciano è conservato, inoltre, un quadretto con un giovanissimo santo gesuita (San Stanislao Kostka? San Luigi Gonzaga?) tradizionalmente attribuito alla pittrice. Le coordinate stilistiche di quest’opera non deragliano dai binari tracciati dai rodati prototipi di Dolci: l’evidente intento devozionale si concreta, infatti, in un’immaginetta tascabile, nella quale l’afflato sentimentale della semplicissima rappresentazione è sottolineato dagli adolescenziali lineamenti del santo, colto in un’espressione di inconsapevole ingenuità.

Per quanto riguarda, invece, i dipinti di Agnese ricordati nei documenti, un “Gesù fanciullo” si trovava nella celebre galleria Rinucci, un “Gesù Cristo che fa l’orazione nell’orto” è citato in un inventario settecentesco della collezione Buondelmonti, una “Testa di monaca” figurava nel 1806 nel palazzo dei marchesi Riccardi in via Larga e, infine, “un’immagine di Signora Addolorata di mano di Agnese Dolci Baci” faceva parte nel 1765 della quadreria del conte Luigi Bartolini Balzelli.
Allontanadosi dall’ambito fiorentino un “Nazzareno che posa la mano sul costato” di Agnese si trovava, alla metà dell’Ottocento, nella collezione romana del principe Giulio Cesare Rospigliosi Pallavicini, mentre una “Madonna” su rame di “Maria” Dolci (plausibilmente Agnese) apparteneva negli anni sessanta dell’Ottocento al conte torinese Luigi Cibrario, senatore del Regno d’Italia, storico e uomo politico vicino a Carlo Alberto di Savoia.
La menzione di un’Allegoria della Musica, riferita alla pittrice nel catalogo di vendita della collezione di Lord Northwick (Londra, 1859), unita alle molte notizie di emigrazione di molti dipinti di Agnese in Inghilterra, ha suggerito il vaglio dei cataloghi delle aste inglesi dell’Ottocento, da cui è emerso il dato della massiccia presenza di quadri assegnati ad Agnese: dal 1824 al !847 furono battuti all’asta sotto il suo nome oltre quaranta dipinti dai soggetti per lo più religiosi. Un documento rivela l’esecuzione da parte della pittrice di una pala d’altare, al momento non identificata, raffigurante la Vergine, dipinta nel 1693 su commissione di Maria Maddalena Baci per il convento di San Baldassare a Covernciano, dove quest’ultima, cognata di Agnese, era monaca.
All’interno della caledoscoipa entropia creata attorno all’ineffabile nome di Agnese, oggetto di complesse revisioni critiche, si segnalano, a titolo d’esempio, le assegnazioni alla pittrice della Madonna col Bambino del Museo del Besançon, che pare dimostrare caratteri stilistici emiliani, e della Sacra Famiglia della Pinacoteca Nazionale di Siena,
opera, invece, correttamente ricondotta a Francesco Curradi. Recentemente sono stati a lei attribuiti anche il bel San Michele Arcangelo della raccolta Amata e il ben più modesto San Sebastiano del Museo Horme, copie, rispettivamente, degli originali di Carlo di collezione privata e della Galleria Corsini, il cui differente livello qualitativo ne rende improbabile il riferimento alla medesima mano.

Il quadro della collezione Amata, è stato oggetto di studi critici condotti nel corso dell’ultimo decennio. L’opera presenta la figura di un giovinetto a mezzo busto, dai lineamenti regolari e quasi androgini, rivestito con una lucidissima corazza di ferro grigio antracite, sulla quale è drappeggiato, elegantemente, un morbido panno di raso color lapislazzuli. La lancia sorretta tra le mani, l’armatura e l’accenno di un’ala dietro le spalle inducono a riconoscere nel personaggio effigiato Michele Arcangelo, santo tra i più venerati nel culto popolare, sinonimo del buon cristiano militante, adottato con frequenza dalla Chiesa. Nata sicuramente all’interno della bottega del grande artista Carlo Dolci, l’opera ebbe varie attribuzioni tra la cerchia del maestro, per poi essere riferita in via propositiva al catalogo, oggi interamente ricostruito, della tuttora enigmatica Agnese Dolci, secondogenita di Carlo.

Pertinente questa assegnazione alla pittrice per l’efficace confronto con l’unica opera certa riferibile alla stessa, ovvero l’Autoritratto di ubicazione attuale sconosciuta.
Affine all’opera del san Michele Arcangelo nella conduzione pittorica delle stoffe, nell’intonazione luministica sulle epidermidi e nella resa vivida delle chiome definite con pennellate pastose e vibranti, il dipinto accentra, indubbiamente, l’attenzione sulla vena ritrattistica della pittrice, testimoniata già nel primo tempo di attività, come documenta una memoria d’archivio finora sconosciuta, dalla quale apprendiamo l’esistenza del disegno a matita, raffigurante un ritratto, eseguito da Agnese Dolci nel 1675 e conservato ab antiquo in casa Salvini a Firenze, insieme ad altri fogli e miniature realizzate dal patrizio Giovanni Francesco Salvini.

Eseguito da Agnese all’età di sedici anni, il disegno, il più antico tra le opere oggi conosciute legate al nome della pittrice, sottolinea come suggerisce il soggetto, come nel caso dell’esemplare della galleria Amata, una spiccata predilezione per il ritratto, raramente riconoscibile tra gli allievi di Carlo Dolci, assai meno dotati della giovane pittrice. I particolari caratteri descrittivi dell’opera appaiono individuabili in un altro dipinto di bella qualità raffigurante una figura maschile allusiva al Furor Poetico, anche in questo caso derivato da un originale di Carlo, imputabile anch’esso, in via propositiva, al pennello della stessa artista.




Maria Paola Forlani  

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