mercoledì 30 settembre 2015

FRANCO FONTANA


Franco Fontana

Full color

Colori accesi, brillanti, talmente vibranti da apparire irreali. Composizioni ritmate da linee e piani sovrapposti, geometrie costruite sulla luce. Paesaggi iperreali, in cui non c’è spazio per l’uomo o al contrario surreali, sospesi e spesso impossibili. Figure umane svelate in negativo, sublimate in ombre lunghe, a suggerire contemporaneamente l’idea di presenza e di assenza. Corpi come paesaggi e pianure e colline dai contorni antropomorfi.

Questi sono i tratti distintivi delle 130 foto esposte nella grande retrospettiva dedicata a Franco Fontana a San Gimignano con il titolo Full color, presso la Galleria di Arte moderna e contemporanea “Raffaele De Grada”, aperta fino al 6 gennaio 2016, a cura di Danis Curti  (catalogo Marsilio).

Il percorso espositivo è articolato in diverse sezioni tematiche, a partire dai paesaggi degli esordi, passando per le diverse ricerche dedicate ai paesaggi urbani, al mare, alle geometrie delle ombre e alla luce americana.
Nato nel 1933 a Modena, città dove si riscontra già all’inizio del Novecento una tradizione fotografica piuttosto radicata, Franco Fontana si avvicina alla fotografia nei primi anni Sessanta, secondo un percorso comune a molti della sua generazione, ossia dell’esperienza della fotografia amatoriale, ma in una città che è culturalmente molto attiva, animata da un gruppo di artisti di matrice concettuale, seppure ancora agli esordi, tra cui Franco Vaccari, Claudio Parmeggiani, Luigi Ghiri e Franco Guerzoni.

Il lavoro di Franco Fontana condivide con questa corrente il bisogno di rinnovamento e di messa in discussione dei codici di rappresentazione ereditati in campo fotografico, dal Neorealismo, ma pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente estetica. Nel 1963 avviene il suo esordio internazionale, alla Terza Biennale Internazionale del Colore di Vienna.

Nelle fotografie di questo primo periodo si vedono in nuce alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo decisamente controcorrente rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi: è stato tra i primi in Italia a schierarsi con tanta convinzione e fermezza in favore del colore rendendolo protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto occidentale, ma come attore. È attratto dalla superficie materia del tessuto urbano, da porzioni di muri, stratificazioni della storia, dettagli di vita scolpiti dalla luce. Come Fosse un ritrattista, Fontana mette in posa il paesaggio.

Il suo occhio fotografico ne sceglie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversamente dall’occhio umano. Nel 1970 Franco Fontana scatta un’immagine-simbolo del suo repertorio, a Baia delle Zagare, in Puglia. “Questa foto rappresenta il mio modo di intendere la fotografia”, afferma Fontana.
Io credo infatti che questa non debba documentare la realtà, ma interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che decide cosa vuole esprimere.
La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo.”

Nel 1979 intraprende il primo di una lunga serie di viaggi negli Stati Uniti, dove applica il suo codice linguistico, ormai consolidato, a un nuovo ambiente urbano.
Qualche anno dopo, nel 1984, inizia la serie delle Piscine e nel 2000 inizia quella dei Paesaggi Immaginari, in cui la prevalenza dell’invenzione sul reale arriva ai massimi livelli. In questo caso, il fotografo, che non disdegna la tecnologia digitale, riafferma la propria libertà interpretativa della realtà tramite l’immaginazione.

Nel 2010 primo fotografo chiamato a partecipare al progetto “Vita nova”; ideato da Fabrizio Boggiano al Cimitero monumentale di Staglieno (Genova), in occasione della Settimana Europea dedicata ai Cimiteri Monumentali, Franco Fontana non si sottrae alla sfida che un ambiente simile – principalmente monocromatico – pone ad un autore, soprattutto se la sua estetica si sviluppa proprio a partire dalle stratificazioni del colore. Nella sua meditazione sull’azione del tempo, astrazione e corporeità si mescolano: lontano dalla modalità documentaria o descrittiva, il lavoro di Fontana qui materializza secondo due direttrici. Da una parte si sofferma su ombre e campiture, tralasciando trascrizione accurata di nomi e architetture, a favore di una trattazione filologicamente rispettosa del suo linguaggio, che in questo caso avvolge geometria e luce di un sentore metafisico, dall’altra interroga i frammenti scultorei come se fossero presenze vive e palpitanti sotto panneggi eterei, illudendoci, attraverso la fotografia, di avere trovato la vita laddove non c’è più.


Superando un approccio puramente estetizzante, il senso ultimo della precisa sintesi espressiva che Fontana ha condotto in oltre cinquant’anni di carriera si trova nel suo modo di interpretare ciò che lo circonda. Che si tratti della narrazione dell’Italia rurale nel suo passaggio alla modernità – evidenziato dalla piattezza di paesaggi senza volume, ritratti in technicolor – o delle allusioni simboliche, metaforiche ad una società edonistica e satura, o di avvicinare situazioni più austere. Fontana non ha mai rinunciato ad esplorare e forzare il potenziale e i limiti della fotografia, anche dal punto di vista tecnologico. Al contrario: proprio sfruttando il potere trasformativi della macchina, ha elaborato un linguaggio visivo dai caratteri distintivi, complesso nella sua apparente semplicità, in cui si coglie, fortissima, la forza vitalistica e creativa del fotografo, che, nel prelevare un campione del mondo, lo restituisce come distillato e amplificato, dopo averlo setacciato attraverso filtri del proprio sentire.

Maria Paola Forlani



martedì 29 settembre 2015

MASILugano

MASILugano

Museo d’arte della Svizzera italiana



Il Museo d’arte della Svizzera italiana (MASILugano), nato dall’unione fra Museo Cantonale d’Arte e il Museo d’Arte di Lugano, presenta nelle sue proposte inaugurali la propria identità culturale e i suoi indirizzi futuri con una serie di mostre di diversa natura e dimensione (catalogo Skira). Il programma espositivo si svolge nelle due sedi del Museo: il LAC e Palazzo Reali, sede storica del Museo Cantonale d’Arte.

Un corpo architettonico severo, che dai pilastri su cui poggia si protende imperioso verso il lago; un altro, sul fondo, diafano e lieve, interamente vetrato, aperto da un lato sulla nuova piazza e sul lungolago, dall’altro sulla collina retrostante e, accanto, una facciata fin-de-siécle, unico resto dell’ex Grand Hotel Palace, con i decori leziosi e “glassati” tipici della koinè architettonica europea dell’età d’oro del turismo: sono tre volti, apparentemente incongrui e invece sorprendentemente integrati, con cui si presenta il Lac, Lugano Arte e Cultura il polo culturale, diretto da Michel Gagnon.
Un complesso che si propone non solo come cittadella per le diverse arti ma anche come uno snodo urbanistico, in grado di collegare, longitudinalmente, il centro antico della città con il quartiere moderno di Paradiso e trasversalmente le sponde del lago con il parco retrostante.

È stata proprio questa vocazione a “includere” la città, sommata alla capacità di integrare, ma in spazi architettonici distinti, le diverse anime del nuovo polo culturale, soluzioni coraggiose  che ha portato Ivano Gianola, esponente della “Scuola Ticinese” d’architettura, ad aggiudicarsi la vittoria dell’affollato concorso di partecipanti (ben 130). Il Lac apre i suoi 180 mila metri cubi di volume e i suoi 29 mila metri quadri di superficie costruita alle sue molteplici vocazioni: nel lungo corpo sospeso su pilastri e rivestito di pietra verde del Guatemala, concluso dal cuneo a sbalzo puntato verso il lago, trova posto il Museo d’Arte della Svizzera italiana (vi sono confluiti il Museo Cantonale d’arte e il Museo d’arte Lugano), che dispone di due piani espositivi e di un piano sotterraneo destinato alla collezione permanente e ai depositi.
Nel corpo perpendicolare si trova la grande sala Teatro (mille posti) rivestita di legno e dotata di una conchiglia acustica modulare e rimovibile che, insieme alla fossa dell’orchestra a scomparsa, rende questo spazio fluido e versatile, perfetto per ospitare ogni tipo di rappresentazione, musicale e teatrale. Ci sono poi il Teatrostudio, altre sale multiuso e l’Agorà, il teatro esterno con cavea adagiata sul fianco della collina. A saldare i due corpi, la grande hall con biglietteria, il bookshop e un caffè, sorta di “piazza” coperta e vetrata aperta a tutti, affacciata sulla piazza intitolata a Bernardo Luini: il Lac ingloba infatti anche il chiostro dei francescani contiguo alla chiesa di Santa Maria degli Angioli, affrescata nel’500 proprio da Bernardino Luini.

Lac come Lugano Arte e Cultura dunque, ma Lac anche come lago, perché con esso
l’edificio intrattiene una sorta di simbiosi: dal lago giunge l’acqua per climatizzazione e riscaldamento, e sul suo fondale sono stati depositati i materiali di scavo, colonizzati dalla vegetazione lacustre e diventati habitat di numerose specie acquatiche.


Per l’esordio sono state allestite due mostre nel museo: una, <<Orizzonti Nord-Sud. Protagonisti dell’arte europea ai due versanti delle Alpi 1840-1960>>, curate dal direttore del Museo Marco Franciolli e da Guido Comis, è un itinerario che dopo l’icipit, posto sotto il segno degli splendidi acquarelli “alpini” di Turner e dell’inedita accoppiata Piranesi-Caspar Wolf, procede con accostamenti binari fra autori del Nord e del Sud d’Europa, talora (come nel duo Böcklin-de Chirico) fondati su conclamate basi storiche, più spesso invece giocati deliberatamente su evocative suggestioni dello sguardo, capaci di aprire inediti percorsi di lettura al visitatore.


Da Casorati e Valloton a Morandi e Albert Anker, da Fontana e Giacometti a Segantini e Medardo Rosso, da Jodler e Wilgt a Balla e Depero, italiani entrambi ma entrambi, per ragioni diverse, segnati dalla cultura svizzera e tedesca, fino a Klee, sfilano in mostra opere magnifiche, convocate dai maggiori musei e collezioni internazionali.

Il sotterraneo, in attesa della collezione permanente, è abitato fino al 31 gennaio dagli spettacoli <<solid ligh works>> dell’anglo-americano Anthony McCall, 1945, esponente di punta negli anni’ 70 dell’ Expanded Cinema, che vive ora una seconda giovinezza artistica e una rinnovata fortuna critica grazie alle tecnologie digitali.



E appena fuori dal Lac (ma parte integrante del suo circuito), lo Spazio – 1, dove da tre anni vanno in scena le opere della collezione – museo di Giancarlo e Diana Olgiati, quest’anno presenta, con altre opere della raccolta, la mostra-installazione
Teatro di Mnemosine. Paolini d’aprés Watteau di Giulio Paolini, curata da Bettina Della Casa con l’artista, che riunisce per la prima volta l’intero ciclo in cui Paolini rende omaggio al tempo stesso al tema della Memoria-Mnemosine e al celebre dipinto di Watteau Les chermes de la vie (1718 circa), in un allestimento <<d’autore
davvero affascinante>>.

La grande speranza è che, in un prossimo futuro, il museo si apra, con più attenzione, a figure femminili come Marianne Werefkin, grande artista, maggiore esponente e teorica dell’Espressionismo che dopo gli anni di Monaco in Baviera, fonderà, proprio in Svizzera nel 1924 il gruppo “GroBer Bär” (Orsa Maggiore).
Il mondo delle artiste che hanno scritto la storia dell’arte nel’900, arricchirà, così, la ricerca di questo museo assai attento a tutti gli ‘universi’ poetici.


Maria Paola Forlani

lunedì 28 settembre 2015

Il giovane CASORATI

Il giovane

Casorati
Padova, Napoli e Verona


A Padova, ai Musei Civici agli Eremitani fino al 10 gennaio 2016, si è aperta la mostra
Il giovane Casorati. Padova, Napoli e Verona”, a cura di Virginia Baradel e Davide Banzato (Catalogo Skira). L’evento vuole accogliere e confrontare quel che ad oggi si conosce di quegli anni fondamentali: anni trascorsi nella città del Santo – dal 1895 al 1907 – e poi a Napoli e a Verona; anni contrassegnati da un fervido eclettismo, che è cifra dell’entusiasmo del principiante dotato di grande volontà, in un percorso di esperienze non allineate, che si svolge parallelo agli studi di Giurisprudenza.
Nella mostra patavina acquista ora nuova luce anche la figura del “maestro” di Casorati, il pittore padovano Giovanni Vianello, cui va assegnato un ruolo non secondario nel periodo 1902-1906, comprensivo della partecipazione alla mostra
“I sette peccati” (1904) alla quale prese parte anche Umberto Boccioni e il cui manifesto venne disegnato da Ugo Valeri.

In quel periodo Casorati si getta nella nuova avventura creativa con lo stesso ardore riservato in precedenza alla musica, cui si era applicato sino a procurarsi un forte esaurimento.
Mio padre, per consolarmi dell’abbandono del mio pianoforte, e dei miei studi prediletti – ricordò Casorati nella celebre conferenza autobiografica del 1943 –
mi regalò una gran scatola di colori…Ed eccomi per la prima volta seduto davanti a un cavalletto in pieno sole a mescolare colori sulla tavolozza e a guardare curioso e commosso il dolce paesaggio dei colli Euganei…”
Era il 1902.

La giovane età e gli interessi ancora diversificati sventano una partenza troppo arroventata e la vitalità spavalda e salutare degli anni padovani fa sbocciare il talento.
Vianello nei primi del Novecento era il pittore più considerato in città, uno dei pochissimi ad esporre in mostre nazionali e internazionali e il rapporto tra maestro e allievo non fu affatto secondario, seppure Casorati

-         dopo il trasferimento a Torino e la svolta radicale – abbia voluto minimizzarlo, ripudiando tutta la fase giovanile.
-         Insieme a nozioni tecniche, pittoriche e calcografiche – un’incisione inedita è  datata precocemente 1902 – è infatti ravvisabile nell’apprendistato di Vianello
-         Qualche influenza estetica e tematica che la mostra contribuisce a mettere in luce: come le pennellate corte e divise che caratterizzano il dipinto del maestro con
-         Piazza dei frutti a Padova e che troviamo pure in Casoni e in Case padovane
-         Del giovane Casorati o nel dipinto Balconata, risalente agli anni veronesi; oppure la centralità del colore giallo o, ancora, il soggetto ricorrente della vecchia, trattato in un dipinto di Vianello databile ai primi del secolo – Due vecchie – che una qualche eco può aver avuto nell’interesse del pittore per questo tema.

-         L’abitazione che fa da sfondo al dipinto di Casorati Vecchietta padovana era, con ogni probabilità, una casa di tolleranza individuata negli anni Settanta – prima che venisse demolita - nel quartiere Arcella. La stessa compare nel cartone
-         Case padovane e nel Ritratto di Camillo Luigi Bellisai – tra i dipinti d’esordio esposti in questa occasione – in quegli anni uno degli amici di Casorati, inseparabile compagno di studi e, a quanto pare, d’avventure.
-         La mostra propone molte opere provenienti da collezioni private come il suggestivo Ritratto, esposto per la prima volta e affine ai modi di Vianello,

-         di Tersilia Guadagnino, preziosa e romantica confidente di una vocazione artistica divenuta esclusiva e totalizzante. La donna dal sorriso lieve, seduta in abito rosa al centro della stanza, appare, in questo dipinto a olio su cartone firmato.
-         E sempre alla preziosa amica – “Lei dolce amica non mi manchi” invoca Casorati nel 1908 – e alle belle giornate romane trascorse insieme, conduce un’altra opera inedita al pubblico e come la precedente rimasta “in famiglia” secondo la volontà testamentaria: un piccolo paesaggio databile al 1907, ove sul verso del cartone resta ancora leggibile la scritta a inchiostro “Paesaggio Rocca di Papa”, uno dei luoghi cari del loro girovagare.

-         L’esposizione sottolinea anche la vitalità dell’ambiente artistico padovano, con presenze di tutto rilievo quali Umberto Boccioni, di cui sono esposti il Ritratto del dottore Achille Tian (1907) della Fondazione Domus e Donna che cuce (1906), ma anche Mario Cavaglieri, Cesare Laurenti, Ugo Valeri

e i minori,
-         amici di Vianello, Giuliano Tommasi e Antonio Grinzato; e vuole anche riconsiderare le prime prove del giovane Casorati  fondamentali dipinti che sfilano in questa sezione quali:
-         Dei domestici segreti custoditi (trittico di quasi due metri con una veduta dei tetti di Padova) e Ritratto di signora (La sorella Elvira) con cui Casorati parteciperà
-         con successo alla sua prima Biennale, nel 1907.

-         Anche il periodo partenopeo diventa, in questa coraggiosa esposizione, oggetto di interessanti approfondimenti, tra le opere esposte  per la prima volta si può ammirare il Ritratto di Don Pedro De Consedo (1908), oltre alle Vecchie comari
-         (1908) e a Le bambine (1909) entrambe della Galleria d’Arte di Verona.

-         Ma a sancire l’alta qualità artistica di questa fase giovanile vi è, in particolare, la complessa ed enigmatica tavolata di Persone (1910), grande olio su tela (collezione privata) con cui l’artista partecipa a Roma all’esposizione Internazionale del 1911 per celebrare il primo Cinquantenario del regno d’Italia: un quadro dalla sottile penetrazione psicologica, che varrà al pittore l’invito della delegazione del Carnegie Institute per il Premio di Pittsburg in Pennsyvenia e che già introduce alla “fioritura” del periodo veronese.

-         È nella città di Giulietta che Casorati avvertirà l’influenza della Secessione di Vienna e di Monaco e si aprirà alle novità europee, con la frequentazione dell’ambiente di Ca’Pesaro. L’esperienza di quegli anni 1911-1918, è documentata in mostra con alcuni ritratti assai significativi – quelli dei coniugi

-         Francesco e Gina Veronesi Apollonio  e la Famiglia Consolaro Girelli
-         e da un’accurata selezione di tempere e grafiche che rendono dell’estenuata sensibilità linearistica che, al di là delle prove moderniste più conclamate, rappresenta la cifra di ricerca che rimarrà sottotraccia in quella che Italo Cremona definì “l’intuizione spettrale della realtà”.


-         Significativa, in riferimento a questa fase, anche la presenza in mostra dei dipinti di collezione privata veronese: La Balaustra (studio), Studio per la Via Lattea – importante documento del processo d’elaborazione di un tema caro al pittore “sono diventato un visionario e sognatore”
-         scriverà Casorati all’amica Tersilla in quel periodo di profonda poesia.
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-         Maria Paola Forlani




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sabato 26 settembre 2015

VIDEOARTE a Palazzo dei Diamanti

Videoarte


A Palazzo dei Diamanti 1973-1979
REENACTMENT


La relazione cinema-arti visuali è, senza dubbio, uno dei “fondamenti impliciti” caratterizzanti le espressioni artistiche del XX  e del XXI secolo ed ha anche un equivalente speculare in molta, colta e non, iconografia cinematografica.
Le prospezioni critiche di Rudolf Arnheim (Film als Kunst, del 1933) e di Carlo Ludovico Ragghianti (Cinema arte figurativa,
del 1952) possono considerarsi, nella dichiarata diversità della metodologia e dei paradigmi applicati, fortemente indicativa.

L’affermazione e la diffusione dell’arte video degli ultimi due decenni, preannunciata dalle insistite espansioni translinguistiche del movimento Fluxus negli anni sessanta e settanta, si pone in una linea di continuità rispetto alla storia e alla preistoria delle prime avanguardie insieme a quelle delle neoavanguardie del dopoguerra.

Parallelo a questo tracciato, ma ben differenziato per organizzazione strutturale e destinazione, è lo sviluppo del documentario d’arte, internazionalmente rubricato come Film sur l’art o Film on Art dove didattica e informazione visuale sostengono la lettura cinematografica delle opere d’arte. A questo contesto sono riportabili gli originali critofilm di Raggianti realizzati secondo un rigoroso, e ogni volta specifico, modello critico-interpretativo.

Il cinema d’artista degli anni settanta in Italia elabora una composita esperienza di ricerca in un clima fervido di progettualità creativa. Artisti visuali e “cineasti” indipendenti si trovano affiancati “militanti” dentro le stesse utopie, linguistiche e oltre. L’irruzione del video, particolarmente in Italia e in Francia, spinge prima a una eclisse poi a una rapida mutazione le sperimentazioni del cinema indipendente, insieme soggettive e politiche. L’influenza della nuova dimensione performativa delle espressioni artistiche, più forte nel clima degli anni settanta negli Stati Uniti ma presto affermata anche in Europa, sancisce, con possibili articolazioni del nuovo medium in grado di coinvolgere presenza e continuità della dimensione del tempo, il
tempo reale, il produttivo abbattimento della frontiera canonica tra arti dello spazio e arti del tempo.

Il video prende piede negli anni sessanta, un momento politico, sociale e culturale di grandi cambiamenti in tutto il mondo. In questi anni si prende coscienza di molte cose. La società sta cambiando, stanno cambiando i costumi, ci si sta preparando a una grande rivoluzione: il Sessantotto. Anche l’arte di questo momento in poi, non sarebbe mai più stata come prima. Si assume una coscienza politica diversa, si diviene consapevoli del proprio corpo.
Sin da subito il video è stato investito da un’aura particolare che lo ha trasformato quasi immediatamente in “video-arte”, traendo un po’ quell’aspetto di effimero, di fragile, che inizialmente ha costituito la sua differenza rispetto al più nobile cinema.

Nel 1972 a Ferrara, in seno alla Galleria d’arte moderna e contemporanea, il direttore Franco Farina istituirà il Centro video arte di Palazzo dei Diamanti, con la preziosa e geniale conduzione di Lola Bonora responsabile di questo settore. Sino al 1994 il centro è stato riconosciuto da manifestazioni artistiche di livello internazionale quali la Biennale di Venezia e Documenta di Kassel. Il Centro si è mosso sin da subito con grande cognizione di causa e volontà di azione. Già dall’inizio ha chiamato a collaborare alcune delle personalità più interessanti della video arte italiana e straniera: Marina Abramovic e Ulay, Michele Sabin, Gianfranco Barucchello, Claudio Cintoli, Mario Schifano, Nam Jume Paik, Woody e Steina Wasulka, Gianni Toti, Cristina Kubish, Giuliano Giuman, Klara Kutchta, Nanda Vigo, Greta Safarty, Giuseppe Chiari, Sylvano Bussotti, Emilio Vedova e Fabrizio Plessi.

Per recuperare e riportare in vita questo straordinario “archivio” di memoria artistica e storica, le Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara hanno avviato un progetto di preservazione e restauro che si giova della collaborazione con uno dei centri di riferimento internazionale in quest’ambinto, i laboratori La Camera Ottica e CREA del DAMS di Gorizia – Università di Udine, sotto la supervisione della professoressa Cosetta G.Saba. Nel 2013 ha preso il via una vasta campagna conservativa, che prevede l’archiviazione, la migrazione digitale, lo studio e la

video-presevazione del vasto corpus di videotape del Centro Video Arte, secondo un protocollo adottato dai laboratori di Gorizia. A dare il contributo fondamentale a questa iniziativa è stato il generoso sostegno della Fondazione Pianori che ha finanziato un ampio intervento nell’ambito del suo impegno nell’incremento e nella salvaguardia del patrimonio artistico e culturale di Ferrara, in particolare delle collezioni d’arte moderna.

L’esposizione Videoarte a Palazzo dei Diamanti 1973 / 1979. Reenactment,
organizzata dalla Fondazione Ferrara Arte e dalle gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara, presenta al pubblico i primi esiti di questo lavoro
d’equipe, riconsegnando alla storia una selezione di opere video degli anni Settanta.
A questo fine, i curatori hanno scelto di ri-allestire la parte iniziale della mostra
Videoarte a Palazzo dei Diamanti 1973/1979  a cura di Janus e ospitata nel Foyer della Camera di Commercio di Torino nell’aprile del 1980, che non solo rappresentò un primo fondamentale bilancio delle ricerche d’avanguardia prodotte dal Centro, ma costituì anche un significativo momento di riflessione sulla natura del video, sulle sue culture, sul suo immaginario, sulla sua estetica, nel momento in cui la posta in gioco era la definizione di un nuovo statuto dell’opera d’arte.

La mostra è allestita nelle sale Benvenuto Tisi da Garofalo di Palazzo dei Diamanti, che sono state uno dei teatri delle multiformi iniziative del Centro, e si focalizza sulle 19 opere monocanale che figuravano nella sezione “videoarte” della mostra torinese, ossia sul videotape nati dalla sperimentazione creativa sulle possibilità espressive del segnale elettronico e messi in onda su singolo monitor.


La rilettura e ricontestualizzazione dell’esposizione del 1980, nella cornice di uno degli spazi espositivi del Centro stesso, associata alla presentazione dell’intervento di recupero su due opere di acclamato rilievo internazionale, rappresenta un primo importante momento di studio e di reenactment del fondo video, nella prospettiva della messa in valore dell’archivio nel contesto futuro assetto museologico della Galleria d’arte Moderna e Contemporanea a Palazzo Massari.




Grazie alla sapiente intraprendenza di Lola Bonora, responsabile
del centro Video Arte, la collaborazione di Carlo Ansaloni, ma soprattutto,


  grazie alla grande competenza tecnica e creativa di Giovanni Grandi, quel settore delle Gallerie di Arte Moderna e Contemporanea di Palazzo dei Diamanti, fu in  continuo dialogo e  provocazione culturale con le scuole e con gli Istituti di Cultura italiani e stranieri, tra cui l’allora Casa Cini di Ferrara(ora soppresso da, drammatici, eventi curiali), con cui le proposte didattiche si allargarono in un turbinio di attività dinamiche, con la figura di don Franco Patruno.

Indimenticabili i video sul teatro contemporaneo e giapponese commentati dallo stesso Patruno, lo splendido video su Chagall opera di un giovane videoMaker (Franco Ferioli), che accompagnava le mostre dell’artista russo esposta tra Palazzo dei Diamanti e Casa Cini, e molto ancora si potrebbe ricordare di performance ed episodi culturali di “quell’età dell’oro” in cui la cultura non era solo un termine di fredda rappresentanza, ma ricerca, solidarietà e dialogo con la città che accoglieva questo universo di idee creato da Franco Farina e dai suoi indimenticabili collaboratori.

Maria Paola Forlani