Full color
Colori accesi, brillanti,
talmente vibranti da apparire irreali. Composizioni ritmate da linee e piani
sovrapposti, geometrie costruite sulla luce. Paesaggi iperreali, in cui non c’è
spazio per l’uomo o al contrario surreali, sospesi e spesso impossibili. Figure
umane svelate in negativo, sublimate in ombre lunghe, a suggerire
contemporaneamente l’idea di presenza e di assenza. Corpi come paesaggi e
pianure e colline dai contorni antropomorfi.
Questi sono i tratti
distintivi delle 130 foto esposte nella grande retrospettiva dedicata a Franco Fontana a San
Gimignano con il titolo Full color, presso
la Galleria di Arte moderna e contemporanea “Raffaele De Grada”, aperta fino al
6 gennaio 2016, a
cura di Danis Curti (catalogo Marsilio).
Il percorso espositivo è
articolato in diverse sezioni tematiche, a partire dai paesaggi degli esordi,
passando per le diverse ricerche dedicate ai paesaggi urbani, al mare, alle
geometrie delle ombre e alla luce americana.
Nato nel 1933 a Modena, città dove si
riscontra già all’inizio del Novecento una tradizione fotografica piuttosto
radicata, Franco Fontana
si avvicina alla fotografia nei primi anni Sessanta, secondo un percorso comune
a molti della sua generazione, ossia dell’esperienza della fotografia
amatoriale, ma in una città che è culturalmente molto attiva, animata da un
gruppo di artisti di matrice concettuale, seppure ancora agli esordi, tra cui
Franco Vaccari, Claudio Parmeggiani, Luigi Ghiri e Franco Guerzoni.
Il lavoro di Franco Fontana condivide
con questa corrente il bisogno di rinnovamento e di messa in discussione dei
codici di rappresentazione ereditati in campo fotografico, dal Neorealismo, ma
pone particolare attenzione e cura anche agli esiti visivi e alla componente
estetica. Nel 1963 avviene il suo esordio internazionale, alla Terza Biennale
Internazionale del Colore di Vienna.
Nelle fotografie di questo
primo periodo si vedono in nuce alcuni di quelli che diverranno i suoi tratti
distintivi. Soprattutto, c’è una scelta di campo decisamente controcorrente
rispetto alla maggioranza dei suoi colleghi: è stato tra i primi in Italia a
schierarsi con tanta convinzione e fermezza in favore del colore rendendolo
protagonista, non come mezzo ma come messaggio, non come fatto occidentale, ma
come attore. È attratto dalla superficie materia del tessuto urbano,
da porzioni di muri, stratificazioni della storia, dettagli di vita scolpiti
dalla luce. Come Fosse un ritrattista, Fontana mette in posa il paesaggio.
Il suo occhio fotografico ne
sceglie il lato migliore con la consapevolezza che la fotografia, con il suo
tempo di posa, gli obiettivi e i diaframmi, vede il mondo diversamente
dall’occhio umano. Nel 1970 Franco
Fontana scatta un’immagine-simbolo del suo repertorio, a Baia
delle Zagare, in Puglia. “Questa foto rappresenta il mio modo di intendere la
fotografia”, afferma Fontana.
“Io credo infatti che questa non debba documentare la realtà, ma
interpretarla. La realtà ce l’abbiamo tutti intorno, ma è chi fa la foto che
decide cosa vuole esprimere.
La realtà è un po’ come un blocco di marmo. Ci puoi
tirar fuori un posacenere o la Pietà di Michelangelo.”
Nel 1979 intraprende il primo
di una lunga serie di viaggi negli Stati Uniti, dove applica il suo codice
linguistico, ormai consolidato, a un nuovo ambiente urbano.
Qualche anno dopo, nel 1984,
inizia la serie delle Piscine e nel 2000 inizia quella dei Paesaggi Immaginari,
in cui la prevalenza dell’invenzione sul reale arriva ai massimi livelli. In
questo caso, il fotografo, che non disdegna la tecnologia digitale, riafferma
la propria libertà interpretativa della realtà tramite l’immaginazione.
Nel 2010 primo fotografo
chiamato a partecipare al progetto “Vita nova”; ideato da Fabrizio Boggiano al
Cimitero monumentale di Staglieno (Genova), in occasione della Settimana
Europea dedicata ai Cimiteri Monumentali, Franco Fontana non si
sottrae alla sfida che un ambiente simile – principalmente monocromatico – pone
ad un autore, soprattutto se la sua estetica si sviluppa proprio a partire
dalle stratificazioni del colore. Nella sua meditazione sull’azione del tempo,
astrazione e corporeità si mescolano: lontano dalla modalità documentaria o
descrittiva, il lavoro di Fontana qui materializza secondo due direttrici. Da
una parte si sofferma su ombre e campiture, tralasciando trascrizione accurata
di nomi e architetture, a favore di una trattazione filologicamente rispettosa
del suo linguaggio, che in questo caso avvolge geometria e luce di un sentore
metafisico, dall’altra interroga i frammenti scultorei come se fossero presenze
vive e palpitanti sotto panneggi eterei, illudendoci, attraverso la fotografia,
di avere trovato la vita laddove non c’è più.
Superando un approccio
puramente estetizzante, il senso ultimo della precisa sintesi espressiva che
Fontana ha condotto in oltre cinquant’anni di carriera si trova nel suo modo di
interpretare ciò che lo circonda. Che si tratti della narrazione dell’Italia
rurale nel suo passaggio alla modernità – evidenziato dalla piattezza di
paesaggi senza volume, ritratti in technicolor – o delle allusioni simboliche,
metaforiche ad una società edonistica e satura, o di avvicinare situazioni più
austere. Fontana non ha mai rinunciato ad esplorare e forzare il potenziale e i
limiti della fotografia, anche dal punto di vista tecnologico. Al contrario:
proprio sfruttando il potere trasformativi della macchina, ha elaborato un
linguaggio visivo dai caratteri distintivi, complesso nella sua apparente
semplicità, in cui si coglie, fortissima, la forza vitalistica e creativa del
fotografo, che, nel prelevare un campione del mondo, lo restituisce come
distillato e amplificato, dopo averlo setacciato attraverso filtri del proprio
sentire.
Maria Paola Forlani