Capolavori Ritrovati
Della Collezione di Vittorio Cini
Si è aperta
con uno straordinario omaggio a Vittorio
Cini (Ferrara 20 febbraio 1885 – Venezia 18 settembre 1977) la nuova stagione della Galleria di Palazzo Cini a san Vio, casa-museo,
un tempo dimora del grande mecenate, nella quale sono custodite le raccolte di
dipinti toscani e ferraresi già nella sua collezione personale. Fino al 5
settembre 2016 gli spazi del secondo piano presentano i più importanti dipinti
veneti provenienti dalla sua vastissima collezione – tra cui capolavori di Tiziano, Lotto, Guardi, Canaletto e Tiepolo – opere che sono esposte al
pubblico per la prima volta assieme.
Il percorso
espositivo ideato per l’occasione dall’Istituto di Storia dell’Arte della
Fondazione Giorgio Cini, diretto da Luca Massimo Barbero, restituisce,
attraverso una trentina di capolavori selezionati, la qualità di una raccolta
d’arte antica tra le più importanti del secolo scorso e ci permette di
conoscere meglio la figura e il gusto
di Cini
collezionista, che – con l’aiuto di consiglieri illustri come Bernard Berenson,
Federico Zeri e Giuseppe Fiocco – si assicurò i nomi più rappresentativi della
scuola veneta, dal Trecento al Settecento.
La pittura
del Trecento e del primo Quattrocento veneto è testimoniata in mostra dalla
presenza di una nutrita schiera di artisti, da Guglielmo Veneziano a Nicolò
di Pietro, dal Maestro
dell’Incoronazione a Michele
Giambono.
Di Giambono,
la cui arte raffinata segna la maturazione del tardo gotico a Venezia (il suo
celebre San Cristoforo si trova nella
chiesa di San Trovaso), è esposta la straordinaria tavola con San Francesco che riceve le stimmate.
Introduce il
Rinascimento invece, la splendida Madonna
Speyer di Carlo Crivelli,
rappresentativa
dello stile originale, nervoso e incisivo, di questo singolare artista
veneziano.
Tra le opere
in mostra, accanto a lavori di Cima da
Conegliano, Bernardo Parentino, Giovanni Mansueti e Benedetto Diana, spicca
per importanza e imponenza la Madonna con
il Bambino e i Santi Giovanni Battista e Francesco (1485 circa) del
vicentino Bartolomeo Montagna.
Quest’opera,
testo cardine della poetica del Montagna – educato sugli esempi di Mantegna,
Bellini e Antonello da Messina – e considerato uno dei più alti capolavori della
pittura del tempo, è ancor oggi poco conosciuto e la mostra offre un’occasione
unica per ammirarlo e studiarlo da vicino.
Un posto a
sé in questo itinerario attraverso la pittura veneta, occupa l’enigmatico San Giorgio che uccide il drago di Tiziano, dipinto intrigante e
problematico per le sue vicende e la storia critica che l’accompagna, probabile
frammento di una pala commissionata a Tiziano dalla Serenissima nella seconda
decade del Cinquecento. Nel corso dell’Ottocento l’opera fu attribuita a Giorgione
e nei primi decenni del secolo successivo prima a Palma il Vecchio poi ancora a
Giorgione, per poi essere definitivamente restituita al grande Tiziano solo
recentemente.
Una sezione
della mostra è dedicata alla ritrattistica veneta del Cinquecento con un
piccolo nucleo di straordinari ritratti maschili ad opera di Bartolomeo Veneto e
Bernardino Licino; tra tutti spicca per fascino e
notorietà il bel Ritratto di gentiluomo, forse
Fioravanti degli Azzoni Avogardo, una
piccola perla della collezione, eseguito da Lorenzo Lotto.
A fare la
parte del leone è però il Settecento che presenta un trionfo di capolavori dei
principali rappresentanti di quel secolo d’oro della pittura veneziana – Canaletto, Antonio e Francesco Guardi – spia
del sorprendente e intelligente gusto collezionistico di Cini. Mirabili sono
due Capricci di Canaletto, tele di grande formato considerate due dei più
celebri capricci giovanili dell’artista: creazioni poetiche che presentano un
mondo di fantasia, vedute ideali nelle quali, immersi in una luce calda,
emergono fatiscenti ma ancora maestose rovine classiche.
In dialogo
con le tele di Canaletto sono esposti quattro sublimi Capricci di
Francesco Guardi e, ad arricchire il panorama della
pittura veneziana del Settecento, due piccoli bozzetti per pale d’altare di Giambattista Tiepolo. Di Antonio Guardi –
del quale
sono in mostra anche due delle sue famose ‘turcherie’ – sono visibili
eccezionalmente tre album di disegni, noti
come cosiddetti ‘Fasti veneziani’, che raccolgono 58 fogli che illustrano fatti
della storia di Venezia: prove grafiche di altissima qualità contraddistinte da
un linguaggio stilistico che asseconda la genuina vena rococò del pittore. Lo
stesso gusto che ritroviamo nelle tre grandi tele dell’artista che in origine
decoravano un soffitto di Palazzo Zulian
a San Felice
che sarà
possibile vedere nuovamente dopo molti anni. Tra le prove più alte della
pittura decorativa veneziana, le tre tele, raffiguranti Vulcano (il Fuoco), Nettuno
(l’Acqua) e Cibele (la Terra), databili al 1757
circa, sono realizzate con una pennellata sciolta e guizzante.
Vittorio
Cini, dunque, è stato uno dei più grandi collezionisti d’arte antica del
Novecento. L’assunto è comprovato dalla storiografia, che negli anni ha messo
in luce il gusto raffinato di un uomo votato al culto della bellezza e
dell’arte.
A
testimoniarlo resta la sterminata raccolta di dipinti, sculture, oggetti d’arte
decorativa, espressione di un interesse vastissimo per ogni espressione della
creatività umana, e i due luoghi che serbano l’immagine più autentica di Cini
collezionista: il Castello di Monselice e la Galleria di Palazzo Cini sul Canal
Grande, nata nel 1984 grazie alla generosità degli eredi del conte e alla
lungimiranza della Fondazione Giorgio Cini.
Resta il doloroso
abbandono della Casa natale del Conte Cini a Ferrara.
Un tempo
luogo di convegni, mostre e potenziamento delle prestigiose biblioteche ivi
conservate e donate dai direttori che hanno guidato l’Istituto con amore,
sempre affollate di giovani.
Quell’Istituto di Cultura “Casa Vittorio Cini”
ora non c’è più. La diocesi (a cui l’edificio medioevale era stato affidato) ha
preferito farne uno pseudo condominio di ambigue affittanze, cacciando i
giovani che la vivevano, chiudendo le preziose biblioteche e alienando le
collezioni d’arte. Uno specchio di decadenza del gusto e della cultura, un
oltraggio, di un’infamia consumata ai danni della città che quel luogo amava.
Una violenza diretta alla memoria del grande ‘mecenate’ (che l’aveva donata a
Ferrara, alla cultura, e ai giovani), verso chi in anni trascorsi (come i Padri gesuiti, don Franco Patruno e
don Francesco Forini) avevano raccolto collezioni d’arte contemporanea
(destinate a diventare un ricco museo patrimonio della diocesi) e soffuso in quelle
stanze atmosfere di solidarietà e grande amore nell’ascolto e nell’accoglienza del
pubblico assetato di conoscenza, ma, soprattutto, di giovani, vivaci interpreti
della ricerca. Siamo nelle mani di persone che non hanno il senso di quello che
hanno fatto (depauperando, nei suoi contorni architettonici un bene di così
grande levatura e privando la comunità ferrarese di tale ’dono’), del valore
delle cose, dell’importanza di conservare ciò che di bello è stato realizzato
da persone di grande levatura e che di Ferrara hanno fatto la storia.
Resta lo
splendore di Palazzo Cini a San Vio tra
le luci e i riflessi di Canal Grande in una Venezia che accoglie con armonia i
suoi visitatori, nel ricordo di chi alla
cultura ha creduto veramente.
Maria Paola
Forlani
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