“Ecco il gran desco splende”
Lo spettacolo del mangiare
Lo spettacolo non è un insieme di
immagini, ma un rapporto
speciale fra persone, mediato da
immagini
(Guy Debond)
Cucina non è mangiare. Ѐ molto di più. Cucina è
poesia.
(I Leinz Beck)
Si è inaugurata
a Mantova, fino al 17 settembre, la mostra clou di Palazzo Ducale per il 2017,
a cura di Johannes Ramharter e Peter Assmann (catalogo Tre Lune Edizioni) dedicata allo spettacolo e alle
arti del banchetto rinascimentale nell’anno in cui Mantova – dopo i fasti di
Capitale Italiana della Cultura – è stata scelta insieme a Bergamo, Brescia e
Cremona quale Capitale Enogastronomica Europea.
Con
straordinari e suggestivi contributi, la mostra ricostruisce lo scenario
sfarzoso della convivialità dei principi nel corso di due secoli, dal
Cinquecento al Settecento: i segreti del convito, la tavola imbandita, la
teatralità degli arredi, le tovaglierie, i vasellami, i riti del sedersi e del
conversare, le vesti e, le luci, la musica, la poesia e i colori.
In un
percorso di oltre cento preziose opere provenienti da mezza Europa,
nell’atmosfera splendida e scenografica del banchetto emerge quanto fosse
importante per i grandi del tempo affidare alla tavola, nelle sue molteplici
interpretazioni, il messaggio della propria grandezza e magnificenza, della
propria superiorità culturale.
Oltre ai
servizi di posate che accompagnavano l’imperatore Massimiliano I nelle battute
di caccia e alle posate da viaggio di Maria Teresa d’Austria, fa ritorno a
Mantova il piatto che adornava la credenza di Isabella d’Este (in bella mostra
il suo motto “nec spe nec meti” [Né con speranza né con timore] ),
accanto ad
altri magnifici piatti e saliere con lo stemma dei Gonzaga, scampati allo
spettacolo fragoroso dell’opulenza di banchetti in cui “si levavano, si
gettavano, e rompevano e grande era certo il numero, poiché gli sig. Scalchi,
imbandirono a ventiquattro piatti”, cambiando “quattro volte la tovaglia… per
quella splendidissima virtù, che si chiama magnificenza”. I resoconti
dell’epoca così descrivono, ad esempio, il convivio del 22 settembre 1587,
offerto in Palazzo Ducale per l’incoronazione del duca Vincenzo I. E poi i trattati di alta cucina: il volume a stampa (1549) di Cristoforo Messisburgo, cuoco di Carlo V (così raffinato che l’imperatore volle nominarlo conte palatino), quelli di Bartolomeo Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V (Venezia, 1570) e del nostro Bartolomeo Stefani (1662). I pezzi esposti in mostra arrivano dall’Italia (Milano, Verona, Firenze, Parma, lo stesso Ducale e la Teresiana) oltre che dai musei e abbazie di mezza Europa: Salisburgo, Viennna, Reichersberg, Bratislava, Kremsmünster, Graz oltre a un cospicuo prestito della magnifica collezione Esterhazy da Eisenstadt.
“da mangiare
con gli occhi”, frase che tutti hanno pronunciato almeno una volta davanti a un
dolce irresistibile, a un manicaretto stuzzicante. Mangiare è e deve essere un
piacere, si mangia con tutti i sensi: con gli occhi per la sensualità estetica
che un cibo ispira; con l’olfatto per appropriarsi dei sentori, dei profumi che
ne scaturiscono; ma anche con l’udito perché il tintinnio delle posate sui
piatti rientra nella convivialità, la stimola nell’aspettativa, nel presagio
del piacere del cibo; anche il tatto fa la sua parte perché è con le mani che
si spezza il pane, sono i palmi e le dita che accarezzano la buccia di velluto
di una pesca; infine al gusto spetta la parte del leone, le papille lavorano
intensamente ma sempre in sinergia con gli altri sensi per dare forma
all’emozione sensoriale del mangiare.
Emozione e spettacolo, allora, sono cose
da golosi epicurei? No di certo, anche sulle tavole più modeste ogni giorno
viene celebrata puntualmente una mise en
scéne che esige tempi e spazi calibrati: un primo, un secondo, contorni e
dessert secondo un canone dal quale ancor oggi poco si deroga. Sulle mense
importanti, poi, resistono rituali di vero sfarzo grazie ad accessori e orpelli
raffinati, uniti ai preziosismi di camerieri che accudiscono incessantemente i
commensali, un teatrino di gesti e movenze. Anche questo è spettacolo.
La
tradizione mantovana del cibo è famosa, anche come elemento di edonismo in
progress, con sfarzi spettacolari nel suo passato, stimolata dalla sfrenata
ambizione dei Gonzaga nel distinguersi tra le corti rinascimentali per
mecenatismo culturale e lusso esibito anche a tavola. Un fermo – immagine che
nel tempo e nel gusto è rimasto intatto e ha contribuito a creare un’attrazione
gastronomica di continuo successo.
Altra
ricchezza spettacolare del mantovano sta nel territorio: a nord le colline
moreniche con vigneti e buoni vini, in pianura, la campagna che dà cereali,
riso, pasture per bovini, perciò carni e latticini, poi le terre d’acqua con il
pesce. Un paradigma di opportunità a dir poco eccezionale.
Una domanda
si pone: se lo spettacolo vero del mangiare più che l’eleganza e la ricercatezza
delle tavole o il semplice nitore della mensa, non sia semplicemente la sua
origine primigenia, legata al riperpetuarsi della meraviglia di cicli della
natura che diventano alimento – vita, attraverso processi remoti e immutati,
una necessità che può tramutarsi in momento di poesia, guai se si trattasse
solo di raggiugere la sazietà. Ed è molto probabile che questa differenza i
mantovani l’abbiano ben assimilata nel loro dna, con o senza i Gonzaga.
Maria Paola
Forlani