Ten Years
And
Eighty – seven
Days
“Dieci anni e ottantasette giorni”,
il progetto fotografico di Luisa Menazzi Moretti che descrive in fotografia il
tempo di morire dei detenuti in Texas.
“L’arrivare
con le catene non mi imbarazza più. A volte penso che ci metterebbero
anche al
guinzaglio, se potessero farla franca. Non avrei mai pensato che indossare le
manette potesse diventare un modo di vivere”. Prima dell’ultimo atto, Martin
Draughton, ha voluto prendere in moglie la sua amata. Nessun tocco è concesso,
un muro di vetro separa mani e sguardi. “L’anello al dito dello sposo potrà
essere infilato solo dopo l’esecuzione”, recita il regolamento, “Ci sono giorni
che non ho voglia di uscire dalla mia cella. Sono quelli che temo di più perché
è proprio così che ho iniziato a soffrire di depressione”, dice Arnold Prieto,
anche lui condannato all’iniezione letale. “Mi sveglio e cerco di fare quel che
posso. Lavo tutte le pareti, riordino la cella due, tre, quattro volte al
giorno.
Ten Years and Eighty-Seven Days /
Dieci anni e ottantasette giorni, una mostra aperta
al pubblico fino al 4 giugno 2017, promossa dal Comune di Siena, dall’Istituto
Italiano di Cultura di Berlino e dal complesso museale Santa Maria della Scala
ed è curata dalla stessa fotografa Luisa
Menazzi Moretti.
Luisa Menazzi Moretti è nata a Udine nel 1964. All’età di
tredici anni lascia l’Italia per trasferirsi con la famiglia negli Stati Uniti,
dove in Texas, nella città di College Station, frequenta le superiori per
proseguire a Houston i suoi studi universitari. In quegli anni inizia la sua
passione per la fotografia; frequenta corsi prediligendo la stampa e lo
sviluppo in bianco e nero. Ritorna a vivere in Europa, si laurea in Lingue e
Letterature straniere Moderne, lavora a Londra per poi, dopo alcuni anni,
trasferirsi in Italia. Le sue opere sono state esposte in musei e gallerie
pubbliche e private e fanno parte di collezioni internazionali.
Dieci anni e
ottantasette giorni è il tempo di morire (medio) per chi attende l’esecuzione
capitale nel braccio della morte di Livingstone, Texas, tra condanna, appello e
tentativi di commutazione della pena da parte di detenuti.
“Dieci anni e ottantasette giorni” è il progetto con cui Luisa Menazzi
Moretti ha dato corpo alle parole di quei detenuti trasfigurando in fotografia
un periodo fatto di disperazione e sottile speranza. Sedici immagini,
realizzate a grande dimensione, venute alla mente leggendo lettere pubbliche e
atti ufficiali, poi tradotte in scatti, distanti da ogni realismo: “ non volevo
fare un lavoro di reportage sui penitenziari di Huntsville e Livingstone, di
cui esistono già ottimi esempi come ‘Into the Abyss’ di Wemer Herzog”, racconta
la fotografa ad Huffington Post, “Ne descrivere casi singoli, ma soffermarmi
sulla parola, pensando alle immagini che potrebbero popolare le giornate dei
condannati. Anche se la morte è sempre sullo sfondo, il mio è un progetto sulla
vita”. La scelta di affrontare un tema così potente non è casuale. “Mi sono
trasferita in un paesino a pochi Km da Livingstone all’età di tredici anni, e
in Texas ho frequentato le scuole, poi l’Università. Il braccio della morte mi
ha sempre fatto un certo effetto”. Per realizzare il lavoro, Menazzi ha scavato
tra 538 testimonianze di persone decedute dal 1982, data di introduzione
dell’iniezione letale (prima si utilizzava la sedia elettrica).
“L’ultima
esecuzione risale al 5 ottobre scorso. Ѐ stato ucciso un uomo che si era
dichiarato colpevole e aveva dichiarato di volersi sottrarre alla vita di
inferno del carcere”, racconta “ lo scorso agosto, invece, due esecuzioni sono
state rimandate, tra cui quella di un ragazzo, entrato nel braccio della morte
a 15 anni (oggi ne ha 34 ) la cui pena capitale è stata rinviata per quattro
volte”. Perché, a finire tra le mura di Livingstone, dove le vecchie sbarre
delle celle hanno lasciato il posto a porte di alluminio per scongiurare ogni
tentativo di fuga, “sono spesso giovanissimi tra i 18 e i 24 anni, con famiglie
disastrate alle spalle, storie di droga e di armi. Vivono nel braccio della
morte in totale isolamento, senza alcun programma di recupero. L’unico legame
con il mondo esterno è una radiolina. In queste condizioni anche le piccole
cose acquistano un valore straordinario”. Come un cielo azzurro, sbirciato due
volte la settimana in un cortile tra alte pareti alte otto metri. “Vederlo è
davvero bello”, scrive nella sua lettera Armold Prieto.
Si può
rappresentare visivamente il pensiero espresso dalla parola? Ѐ possibile dare linee, forme, colori
alla logica sequenziale di un racconto, alle considerazioni articolate di una
lettura o di una intervista? E si può raccogliere questa sfida, di per sé così
impegnativa, utilizzando il mezzo artistico della fotografia, ovvero quel
linguaggio che più di ogni altro sembra legato a una riproduzione mimetica
della realtà aliena dal pensiero verbale? Nel suo progetto ispirato dalle
parole dei carcerati nel braccio della morte in Texas Luisa Menazzi Moretti si
è posta esattamente questo compito dando vita a un corpo a corpo serrato tra
immagine e parola, tra rappresentazione visiva e rappresentazione verbale. Non
si tratta di un velleitario tentativo di ‘traduzione’ letterale tra codici di
due linguaggi espressivi profondamente diversi. Semmai sono proprio gli scarti
semantici tra parola e immagine a essere interessanti. La fotografia si incunea
tra i silenzi e le ombre del non detto, si pone a lato – e non di fronte – al
testo scritto, come sua possibile estensione, non come rispecchiamento. Ѐ così che le immagini si riverberano
sulle parole, illuminandole di suggestioni che una prima lettura non rivelava.
Nulla è più
concreto della realtà di un prigioniero che aspetta il giorno indeterminato
della sua esecuzione: la cella di pochi metri quadrati, le scarse ore di luce,
i colloqui con i familiari, i pochissimi oggetti quotidiani. Ѐ uno stato che porta nel caso
migliore a riflettere su se stessi e sul mondo, molto più frequentemente alla
depressione e al disagio estraniante. L’attesa della morte, ineludibile nella
vita di ogni uomo, assume qui una dimensione perversa, perché totalizzante.
Tuttavia le
immagini di Dieci anni e ottantasette giorni rifiutano l’enfasi e sono lontane
dal gesto eclatante della denuncia politica, così come da ogni ‘realismo’.
Sebbene
l’artista consideri la pena di morte <<un’assoluta e feroce
contraddizione>>
in uno Stato
che fa della difesa dei diritti civili uno dei suoi principi fondamentali, ed
esprima a chiare lettere il proprio <<sdegno>> in proposito, le sue
immagini non mettono a fuoco la crudeltà dell’esecuzione, la violenza di un
potere esercitato in nome della presunta sicurezza collettiva contro il
singolo; il loro spazio è invece quello dell’estenuante attesa interiore dei prigionieri,
attraversata da fantasie, desideri, angosce.
Quanto più Luisa Menazzi Moretti
si concentra sull’apparente materialità del rappresentato – le lineette che
segnano i giorni dell’attesa, i tasselli incastrati di un puzzle – tanto più le
sue immagini tendono a farsi astratte. Ma è proprio in questa inquietante
astrazione che esse finiscono per corrispondere alla concretezza dello spazio
esteriore esposto nelle parole dei condannati.
Maria Paola
Forlani
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