sabato 29 aprile 2017

"ECCO IL GRAN DESCO SPLENDE"

“Ecco il gran desco splende”

Lo spettacolo del mangiare
Lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto
speciale fra persone, mediato da immagini
(Guy Debond)

Cucina non è mangiare. Ѐ molto di più. Cucina è poesia.
(I Leinz Beck)


Si è inaugurata a Mantova, fino al 17 settembre, la mostra clou di Palazzo Ducale per il 2017, a cura di Johannes Ramharter e Peter Assmann   (catalogo Tre Lune Edizioni) dedicata allo spettacolo e alle arti del banchetto rinascimentale nell’anno in cui Mantova – dopo i fasti di Capitale Italiana della Cultura – è stata scelta insieme a Bergamo, Brescia e Cremona quale Capitale Enogastronomica Europea.
Con straordinari e suggestivi contributi, la mostra ricostruisce lo scenario sfarzoso della convivialità dei principi nel corso di due secoli, dal Cinquecento al Settecento: i segreti del convito, la tavola imbandita, la teatralità degli arredi, le tovaglierie, i vasellami, i riti del sedersi e del conversare, le vesti e, le luci, la musica, la poesia e i colori.
In un percorso di oltre cento preziose opere provenienti da mezza Europa, nell’atmosfera splendida e scenografica del banchetto emerge quanto fosse importante per i grandi del tempo affidare alla tavola, nelle sue molteplici interpretazioni, il messaggio della propria grandezza e magnificenza, della propria superiorità culturale.
Oltre ai servizi di posate che accompagnavano l’imperatore Massimiliano I nelle battute di caccia e alle posate da viaggio di Maria Teresa d’Austria, fa ritorno a Mantova il piatto che adornava la credenza di Isabella d’Este (in bella mostra il suo motto “nec spe nec meti”  [Né con speranza né con timore] ),
 accanto ad altri magnifici piatti e saliere con lo stemma dei Gonzaga, scampati allo spettacolo fragoroso dell’opulenza di banchetti in cui “si levavano, si gettavano, e rompevano e grande era certo il numero, poiché gli sig. Scalchi, imbandirono a ventiquattro piatti”, cambiando “quattro volte la tovaglia… per quella splendidissima virtù, che si chiama magnificenza”. I resoconti dell’epoca così descrivono, ad esempio, il convivio del 22 settembre 1587, offerto in Palazzo Ducale per l’incoronazione del duca Vincenzo I.
E poi i trattati di alta cucina: il volume a stampa (1549) di Cristoforo Messisburgo, cuoco di Carlo V (così raffinato che l’imperatore volle nominarlo conte palatino), quelli di Bartolomeo  Scappi, cuoco segreto di Papa Pio V (Venezia, 1570) e del nostro Bartolomeo Stefani (1662). I pezzi esposti in mostra arrivano dall’Italia (Milano, Verona, Firenze, Parma, lo stesso Ducale e la Teresiana) oltre che dai musei e abbazie di mezza Europa: Salisburgo, Viennna, Reichersberg, Bratislava, Kremsmünster, Graz oltre a un cospicuo prestito della magnifica collezione Esterhazy da Eisenstadt.

“da mangiare con gli occhi”, frase che tutti hanno pronunciato almeno una volta davanti a un dolce irresistibile, a un manicaretto stuzzicante. Mangiare è e deve essere un piacere, si mangia con tutti i sensi: con gli occhi per la sensualità estetica che un cibo ispira; con l’olfatto per appropriarsi dei sentori, dei profumi che ne scaturiscono; ma anche con l’udito perché il tintinnio delle posate sui piatti rientra nella convivialità, la stimola nell’aspettativa, nel presagio del piacere del cibo; anche il tatto fa la sua parte perché è con le mani che si spezza il pane, sono i palmi e le dita che accarezzano la buccia di velluto di una pesca; infine al gusto spetta la parte del leone, le papille lavorano intensamente ma sempre in sinergia con gli altri sensi per dare forma all’emozione sensoriale del mangiare.
Emozione e spettacolo, allora, sono cose da golosi epicurei? No di certo, anche sulle tavole più modeste ogni giorno viene celebrata puntualmente una mise en scéne che esige tempi e spazi calibrati: un primo, un secondo, contorni e dessert secondo un canone dal quale ancor oggi poco si deroga. Sulle mense importanti, poi, resistono rituali di vero sfarzo grazie ad accessori e orpelli raffinati, uniti ai preziosismi di camerieri che accudiscono incessantemente i commensali, un teatrino di gesti e movenze. Anche questo è spettacolo.

La tradizione mantovana del cibo è famosa, anche come elemento di edonismo in progress, con sfarzi spettacolari nel suo passato, stimolata dalla sfrenata ambizione dei Gonzaga nel distinguersi tra le corti rinascimentali per mecenatismo culturale e lusso esibito anche a tavola. Un fermo – immagine che nel tempo e nel gusto è rimasto intatto e ha contribuito a creare un’attrazione gastronomica di continuo successo.
Altra ricchezza spettacolare del mantovano sta nel territorio: a nord le colline moreniche con vigneti e buoni vini, in pianura, la campagna che dà cereali, riso, pasture per bovini, perciò carni e latticini, poi le terre d’acqua con il pesce. Un paradigma di opportunità a dir poco eccezionale.

Una domanda si pone: se lo spettacolo vero del mangiare più che l’eleganza e la ricercatezza delle tavole o il semplice nitore della mensa, non sia semplicemente la sua origine primigenia, legata al riperpetuarsi della meraviglia di cicli della natura che diventano alimento – vita, attraverso processi remoti e immutati, una necessità che può tramutarsi in momento di poesia, guai se si trattasse solo di raggiugere la sazietà. Ed è molto probabile che questa differenza i mantovani l’abbiano ben assimilata nel loro dna, con o senza i Gonzaga.

Maria Paola Forlani




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