Il Cinquecento a Firenze
“Maniera Moderna” e
Controriforma
Fino al 21 gennaio 2018 Palazzo Strozzi ospita Il
Cinquecento a Firenze, ( catalogo Mandragora) una straordinaria mostra
dedicata all’arte del secondo Cinquecento a Firenze. Ultimo atto d’una trilogia
di mostre a Palazzo Strozzi a cura di Carlo Falciani e Antonio Natali, iniziata
con Bronzino nel 2010 e Pontormo e Rosso Fiorentino nel 2014, la
rassegna celebra un’eccezionale epoca culturale e di estro intellettuale, in un
confronto serrato tra “maniera moderna” e contemporanea, tra sacro e profano:
una stagione unica per la storia dell’arte, segnata dal concilio di Trento e
dalla figura di Francesco I de’ Medici, uno dei più geniali rappresentanti del
mecenatismo di corte in Europa.
La mostra
comprende oltre 70 tra dipinti e sculture, per un totale di 41 artisti,
espressione della temperie culturale di quel tempo. Lungo le sale di Palazzo
Strozzi si trovano a dialogare, in un percorso cronologico e tematico allo
stesso tempo, opere sacre e profane dei grandi maestri del secolo come
Michelangelo, Pontormo e Rosso Fiorentino, ma anche pittori quali Giorgio
Vasari, Jacopo Zucchi, Giovanni Stradano, Girolamo Macchietti, Mirabello
Cavalori e Santi di Tito e scultori come Giambologna, Bartolomeo Ammanati e
Vincenzo Danti, solo per nominare alcuni di coloro che furono coinvolti nelle
imprese dello Studiolo, della Tribuna e nella decorazione delle
chiese fiorentine. Artisti capaci di giocare su più registri espressivi –
dall’ispirazione religiosa alle passioni comuni – mediando la propria
formazione, avvenuta sui grandi maestri d’inizio secolo, con le istanze di un
mondo che affronta un complesso cambiamento verso l’età di Galileo Galilei,
aperta a una nuova visione sia della natura sia dell’espressione artistica di
respiro europeo.
Le prime due
sale riassumono quanto è stato presentato nelle mostre su Bronzino e Pontormo e
Rosso, esibendo opere che in esse non erano esposte e accostando capolavori
degli anni Venti del Cinquecento creati da artisti che sarebbero stati maestri
indiscussi di tutto il secolo, a Cominciare da Andrea del Sarto e Michelangelo.
Le meditazioni svolte da Andrea nella Pietà
di Luco (1523 – 1524) furono cruciali negli anni che videro la Chiesa di
Roma ribadire, al cospetto di dissensi e dinieghi divulgati dal pensiero
luterano, principi fondamentali come la presenza reale di Cristo nell’ostia
consacrata. Andrea fu modello di stile per i pittori fiorentini: da quelli
spregiudicati cresciuti alla sua ombra (Pontormo e Rosso, appunto) a quelli
annoverati nella genealogia ideale che da Pontormo prende le mosse per
proseguire col Bronzino e pervenire ad Alessandro Allori, fino a intaccare il
Seicento. Le opere di Andrea furono copiate e studiate per decenni, non solo
per le loro doti stilistiche, ma anche per aver con largo anticipo mostrato quella
chiarezza espositiva e quel modo accostante d’offrirsi che erano ricercati dal
concilio di Trento. Anche Michelangelo fu modello di riferimento
imprescindibile per gli artisti, soprattutto per le opere della Sagrestia
Nuova, lasciata incompiuta al momento della partenza per Roma nel 1534, ma qui
evocata del Dio fluviale (1526-1527
circa) dopo il restauro. Il Mercurio di
Bandinelli indica subito la compresenza in mostra di temi sacri e profani.
Nella
seconda sala si squadernano in un confronto inedito, da manuale di storia
dell’arte e come in un trittico ideale, tre capisaldi di tutta l’arte
occidentale: la Deposizione di Volterra del
Rosso Fiorentino (1521), la Deposizione di
Santa Felicita del Pontormo (1525-1528) e il Cristo deposto di Besançon del Bronzino (1543-1545 circa). Al
pari Andrea del Sarto nella Pietà di
Luco, anche il Pontormo sceglie di rendere esplicita la presenza del corpo del
Cristo nell’ostia consacrata
immaginandosi due angeli che ne depongono il
cadavere sull’altare sottostante: la pala di Santa Felicita viene a porsi lungo
una linea storico-figurativa che unisce la visione naturalistica di Andrea del
Sarto alle riflessioni teologiche che il Bronzino svolge un ventennio dopo
nella cappella di Eleonora in Palazzo Vecchio, quando si confronta con lo
stesso soggetto. Percorso diverso sarà quello del Rosso, che troverà pochi
seguaci nella Firenze granducale per il suo linguaggio arcaizzante eppure
spregiudicato.
La seconda parte della sala offre un panorama delle arti
figurative fino alla prima edizione delle Vite
di Giorgio Vasari, stampata nel 1550, con opere di Cellini, Salviati e
Vasari stesso.
La terza
sala è dedicata alle opere create nello spirito della controriforma:
l’attuazione delle prescrizioni sull’assetto delle chiese imposte dal concilio
di Trento, conclusosi il 4 dicembre 1563, fu fortemente sostenuta a Firenze da
Cosimo
de’ Medici.
All’origine della volontà del rinnovamento architettonico voluto dalla Chiesa
c’era soprattutto la necessità – di fronte ai distinguo luterani – di
sottolineare la presenza reale di Dio nell’ostia consacrata. Vennero dunque
abbattuti i tramezzi, che nelle chiese conventuali dividevano i laici dai
religiosi impedendo il contatto diretto dei fedeli con l’altare maggiore, e
furono uniformate le cappelle laterali, per le quali si commissionarono nuove
grandiose pale. Questi dipinti dovevano, con modi accostanti, raffigurare
episodi sacri facilmente comprensibili a tutti e includere personaggi in abiti
moderni per facilitare l’immedesimazione dei credenti, coinvolgendoli anche
emotivamente e orientandoli verso pensieri devoti.
La quarta
sezione prende in esame la ritrattistica.
Nella
ritrattistica fiorentina di secondo Cinquecento convive la stessa varietà di
stili che in mostra si riscontrano nello Studiolo di Franceco I in Palazzo
Vecchio.
Nella quinta
sezione viene esaminato lo studiolo con le sue componenti figurative.
Francesco
de’ Medici rispecchia la propria personalità nel sofisticato Studiolo di
Palazzo Vecchio, concepito per allestire “cose rare et pretiose”, secondo un
complesso programma incentrato sul tema del rapporto fra Natura e arte,
predisposto da don Vincenzo Borghini, colto intellettuale vicino a Cosimo.
Lo Studiolo fu portato a compimento tra il 1570 e il ’75 su progetto di Vasari e vi collaborarono artisti in linea con gli interessi di Francesco, che, appassionato di scienze, praticava in prima persona l’alchimia e attività sperimentali.
Le sei
lunette, qui riunite per la prima volta, destinate a figurare le virtù di uno
sconosciuto committente, sono quanto resta di uno dei cicli pittorici di
soggetto profano e allegorico eseguiti da alcuni dei pittori coinvolti nello
Studiolo mediceo.
La sesta
sala è pensata alla stregua di un controaltare di quella dedicata all’arte
sacra e intende ribadire come a Firenze gli stessi artisti che aderiscono ai
principi della controriforma nelle pale destinate alle chiese, percorrono in
parallelo una via allegorica, ricca di sensualità, concettuale e destinata a
pochi eruditi, spesso riuniti nelle Accademie.
La settima
sala accoglie opere sacre, ancora nella linea della sensibilità
controriformata, ma con un’ottica nuova, che rifugge dalle visioni centrate e
“normalizzate” del periodo immediatamente successivo al concilio di Trento e
con tagli delle figure e delle composizioni non ortogonali e assimetriche.
L’ottava
sala presenta l’“avvio al Seicento”.
La cultura
figurativa fiorentina all’inizio del Seicento non guarda solo al glorioso
passato (quello più recente era peraltro entrato dalla metà degli anni ottanta
del Cinquecento nell’allestimento dell’appena nata Tribuna di Francesco agli
Uffizi), ma è attenta alle novità espressive che animano altre realtà italiane
all’avanguardia, come Bologna e Roma. Santi di Tito segna la via cittadina del
rinnovato interesse verso il naturale (spesso ritenuto prerogativa del mondo
lombardo ed emiliano), sia per precocità di date che per qualità pittorica
delle opere, in una linea che in lui si arricchisce di notazione luministiche.
Per la facciata della chiesa fiorentina di Santa Trinita il toscano Pietro
Bernini lavora insieme a Giovan Battista Caccini al rilievo con la Trinità; poi a Napoli e a Roma mostrerà
le premonizioni fiorentine per il nuovo secolo, in una coesistenza di tensioni
prebarocche e di tradizione disegnativa.
Maria Paola
Forlani
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