Arte al Tempo del Covid-19
Epidemia nell’arte in Italia - Venezia
Quando l’attualità s’intreccia con la storia scaturiscono
corrispondenze che mai avremmo immaginato in tempi non sospetti, come sembra
testimoniarci una tra le più celebri opere di Giambattista Tiepolo (Venezia,
1696 – Madrid, 1770), << Santa Tecla libera Este dalla
pestilenza>>, eseguita nel 1758 per celebrare la fine dell’epidemia che
flagellò Venezia e i territori limitrofi nel biennio 1630-31.
La grande pala d’altare si trova tutt’oggi conservata nel Duomo
della cittadina padovana a 16 chilometri dal piccolo centro di Vò Euganeo,
balzato poco più di un mese fa alla cronaca nazionale per aver pianto il primo
morto Covid-19 in Italia.
La storia ricorre, quindi, a ricordare il dolore della malattia e
della perdita, reso immortale dal pennello tiepolesco attraverso il cammeo del
suo capolavoro: una bambina in lacrime, inconsolabile, prona sul cadavere della
madre nel disperato tentativo di risvegliarla, invano.
In questa struggente metafora della morte forse ora più che mai ci
si può riconoscere attraverso una sorta d’immersione emotiva che rischia di
obliterare il resto della raffigurazione, ben più importante nelle intenzioni
dell’artista. A dominare la scena sono, infatti, i personaggi all’estremità
opposta della tela: santa Tecla inginocchiata e Gesù Cristo che ordina agli
angeli di porre fine all’epidemia.
Questo, nell’immaginario dei veneziani, era accaduto in quei
tragici anni del primo Seicento e nel terzo quarto del secolo precedente (1575
– 76), quando il <<morbo insanabile>> investì la città decimando un
terzo della popolazione (46 mila abitanti) e cambiandola radicalmente nel volto
e nell’anima.
Nonostante la Serenissima avesse avuto esperienze della malattia
già in epoca medievale (la prima pestilenza di grandi proporzioni risale al
1348) e fosse dotata di strutture ospedaliere deputate alla cura e quarantena
in due isole della Laguna, il Lazzaretto Vecchio e il Lazzaretto Nuovo, non
riuscì a impedire la diffusione sul territorio.
Il drammatico errore che, secondo un canovaccio a tutti noi
tristemente noto fu legato al timore di compromettere il benessere economico
dello Stato, con misure restrittive. E proprio la consapevolezza d’interrompere
i traffici commerciali e le normali attività cittadine fece negare agli organi
di Stato l’evidenza della malattia, intimando il Provveditore di Sanità
Giambattista Fuoli, deciso nel proclamare lo stato d’emergenza, a contenersi
<<nel proferire così liberamente concetti pregiudiziali a negotii et
al commercio publico et privato et alla libertà della patria>>.
La peste ebbe quindi modo di diffondersi con grande celerità tra
la popolazione inerte, completamente indifesa e terrorizzata, i cui cadaveri
venivano abbandonati per strada, privi di sepoltura, a causa della mancanza di
monatti; ragione per cui il Senato, in data 2 novembre 16.30, offrì ai
carcerati in attesa di rimborsare le spese processuali, di commutare l’ammenda
economica prestando servizio come becchini. Riesce difficile immaginare un
tale, apocalittico scenario nella città della bellezza e del piacere, che
cercava di difendersi con il silenzio e la solitudine nelle case sbarrate,
quasi a nascondersi dalla morte.
Non rimaneva che la fede, questa fede che aveva salvato il leone
di San Marc e i suoi figli dalla pestilenza nel secolo precedente e a cui la
Repubblica si era affidata facendo erigere la Basilica del Redentore (1577-92)
sul canale della Giudecca, dove ancora oggi, la terza domenica di luglio, si
ricorda l’epidemia con una processione votiva.
In data 22 ottobre 1630, all’apice della virulenza, il Senato
decise quindi di ripetere il voto fatto all’Altissimo e consegnato ai posteri
attraverso gli abbacinanti marmi palladiani, rivolgendosi questa volta alla
Vergine, cui veniva fatta erigere la Basilica della Salute su progetto di
Baldassare Longhena (Venezia, 1598- 1682): una chiesa <<magnifica…con
pompa>>, dove i veneziani si sarebbero recati il 21 novembre di ogni anno
in occasione dell’omonima festività, percorrendo uno scenografico ponte
galleggiante allestito per ricordare la conclusione dell’epidemia. Nel dicembre
dell’<<annus terribilis>> i contagiati si dimezzarono, per poi
scendere progressivamente fino all’estinguersi del morbo.
Il voto aveva funzionato anche questa volta, procurando a Venezia
un monumento di grandiosa suggestione, che sarebbe stato protagonista
d’innumerevoli vedute del secolo d’oro in virtù della mole poderosa e dei
ricchissimi decori, tra cui spicca la statua della Madonna con il bastone da
<<capitano de mar>> posta alla sommità della cupola più piccola.
Dal più profondo tormento, che cronache raccontano trasformare
uomini e donne in fantasmi vaganti per le strade <<nulla più
curando la vita>>, oppure accalcati in attesa di giungere presso
i lazzaretti, dove li aspettava un infausto destino che alimentò macabre
leggende di creature simili a vampiri, il popolo veneziano seppe rialzarsi non
solo con straordinaria dignità, ma con ottimismo capace di trasformare il
dolore in opera d’arte.
Invece di disperarsi per i propri cari perduti per sempre, per la
povertà e per l’economia da ricostruire, i figli del leone gioirono di essere
sopravvissuti grazie alla benevolenza di Dio e della Madonna, che andavano
ringraziati con il meglio che Venezia aveva da offrire: la bellezza appunto.
L’arte diveniva, quindi strumento di fede e le cerimonie religiose adunanze di
popolo, dove la preghiera lasciava spazio alla festosa gioia di vivere, il più
genuino sigillo della venezianità la cui apoteosi viene raggiunta nel
Carnevale.
Proprio durante la festa della spensieratezza, dove ogni affanno e
ogni differenza sociale si accantonano, anche la peste venne esorcizzata con
l’arma della dissacrazione. Tra i travestimenti più celebri è quello denominato
<<medico peste>>, assolutamente identico alla divisa di protezione
imposta dal dottor. Charles de Lomar agli operatori sanitari in visita agli
ammorbati, come testimonia un acquarello di Giovanni Grevenbroch.
La divisa, che prevedeva guanti, occhiali e una maschera dal becco
adunco dove erano riposte spezie ed erbe medicamentose atte a evitare il
contagio.
M.P.F.
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