Da Cimabue a Morandi
Felsina Pittrice
Genus Bononiae. Musei nella Città, ha ideato una grande mostra per valorizzare i tesori,
troppo spesso poco conosciuti, della città e del suo territorio, a Palazzo
Fava, Palazzo delle Esposizioni, fino al 17 maggio 2015.
A ottanta anni dalla celebre
prolusione di Roberto Longhi sulla grande tradizione artistica di Bologna, fino
ad allora subordinata dalla critica a Firenze e a Venezia, la mostra Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice”, curata
da Vittorio Sgarbi, intende riproporre i principi e il metodo dell’illustre
studioso e ripercorrere, attraverso il filo conduttore delle opere e degli
artisti bolognesi, la storia dell’arte e della pittura italiana tra fine del
Duecento e l’inizio del Novecento.
La mostra si svolge nelle
sale dove i tre giovani cugini Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, nel
1584, ricevettero dal conte Filippo Fava l’incarico di realizzare la
decorazione ad affresco della sala principale del nuovo palazzo di famiglia.
Nella magistrale lezione del
1934, Longhi approfondì il nodo fondamentale della loro riforma naturalistica,
rifondando di fatto, con le sue argomentate riflessioni, anche gli studi
sull’altra metà del Seicento pittorico italiano, quello non caravaggesco.
“Qui, insomma, io avverto che è il segreto dei Carracci: in questa
epoca, in questo romanzo storico, immaginato sulla grande pittura precedente,
la quale viene riassunta non già come obbligazione metodica, ma come costume
insostituibile, quasi come soggetto di grado più profondo per la propria
pittura nuova e diversa; di affettuoso timbro lombardo. Ecco l’errore di voler
sceverare e spuntare, ecletticamente, i frammenti di Tiziano, di Raffaello, di
Correggio, di Michelangelo e dell’antico nelle opere dei Carracci; mentre è
l’antica, ormai olimpica, cultura pittorica italiana, che, fusa e impastata
come costume civile, latino ed italico,
transita, rivive, si atteggia nella
tenera illusiva moderna epidemide dei Carracci”.
La mostra è dunque dedicata
all’illustre studioso, come il suo stesso titolo evidenzia,
citando
quell’antologia in cui Gianfranco Contini scelse e ordinò alcuni saggi che
Roberto Longhi aveva dedicato alla pittura italiana, da Cimabue a Giorgio
Morandi. Il titolo rende omaggio al contempo a Carlo Cesare Malvasia e alla sua
Felsina pittrice, la fonte più
autorevole per la storia della pittura bolognese dal medioevo
all’età barocca, uscita nel
1678.
Nelle sale affrescate dai
Carracci e dalla loro scuola è possibile seguire lo svolgimento della storia
dell’arte a Bologna attraverso una ricca selezione di oltre centosessanta
opere, tra dipinti e sculture, provenienti da chiese, musei comunali,
istituzioni e importanti collezioni private. Per la prima volta vengono esposti
insieme capolavori quali la Madonna in trono con il Bambino e i due angeli di
Cimabue, conservata nella chiesa di Santa Maria dei Servi, la celebre Estasi di santa Cecilia,
dipinta da Raffaello per la
cappella funeraria di Elena Buglioli Dall’Olio nella chiesa di San Giovanni dal
Monte (oggi nella Pinacoteca Nazionale), e la tavola di San Rocco e il donatore del Parmigianino, custodita nella basilica
di San Petronio.
Nel percorso iniziale la
grande tavola dipinta da Cenni di Pepe detto Cimabue, raffigura il gruppo della
Madonna col Bambino seduti su un trono ligneo con schienale a lira
d’ispirazione bizantina, dotato di suppedaneo, e due angeli ai lati dietro lo
schienale. La Vergine
è rappresentata di tre quarti, come nel tipo bizantino dell’Odigitria. In
maniera altrettanto tradizionale il Bambino ha in mano un rotolo spiegato e la Vergine tiene con la
destra il piede del Figlio. Appare invece come un motivo senza precedenti nella
pittura italiana il Bambino in piedi sul ginocchio della Madre che fa un passo
aggrappandosi con la mano destra alla spalla di lei.
Sempre nel percorso iniziale
segue l’affresco staccato di Vitale di Aimo degli Equi detto Vitale da Bologna
che rappresenta la Madonna del ricamo (1330-1340), l’opera presenta
un’iconografia, rara in Occidente, quella della Madonna operosa.
Assai curiosa per l’intreccio
compositivo, la tavola ad olio, che rappresenta Matrimonio mistico di santa Caterina con i santi Giuseppe, Elisabetta e
Giovannino (1540) di Amico Aspertini.
“Capriccioso e pazzo cervello”, “fuor di squadra” (Vasari), “umor
bisbetico”, “stravagante”, “bizzarro” (Malvasia). Nelle definizioni dei più
celebri scrittori d’arte, la posizione di Aspertini nel panorama bolognese tra
Quattro e Cinquecento si delinea in modo chiaro. A lui spetta il ruolo di
antagonista polemico, di oppositore ostinato e isolato al proto-classicismo
predicato da Francesco Francia, che aveva fatto presa nell’ambito cittadino.
Nell’oratorio di Santa Cecilia (1506) Francia, Lorenzo Costa e gli altri
anonimi pittori tendono a convergere su una posizione comune, della quale Amico
si discosta nettamente esibendo i suoi riferimenti culturali: le grottesche,
l’archeologia, le incisioni di Albrecht Dűrer. La tavola
esposta in mostra riassume perfettamente quanto detto finora, a cominciare
dall’insofferenza per la classicità.
I volti dei personaggi,
tipici dell’artista, sono animati da un fremito di vitalità che Aspertini non
soffocherà mai sotto la coltre di una grazia ideale. Il parapetto senza
prospettiva, il turbinio delle mani intorno all’anello, lo sfondo disseminato
di edifici dalle proporzioni variabili: tutto cospira contro l’equilibrio del
Rinascimento maturo.
Il percorso conclusivo della
mostra con Giorgio Morandi, inizia con una sconosciuta
“Nevicata” nella quale si agitano pensieri e turbamenti e una vita
spirituale che accompagnerà ogni suo gesto pittorico, alla ricerca di un’anima
nascosta delle cose.
Densa e cupa appare la Natura morta del 1920, archetipo di “Valori
Plastici”; rembrandtiana, per drammaticità dello stesso anno è la Natura morta che segue; per poi schiarirsi in
forma cristallina e pierfrancescana nella grande Natura Morta del 1924 e di nuovo scomporsi nelle nature morte, desolate
e polverose, degli anni Quranta e Cinquanta, fino al limite dell’astrazione. L’aveva
capito, con sorprendente anticipo, esemplare modello di critica militante, nei
confronti di un pittore a lui assolutamente contemporaneo, Roberto Longhi “ e finisco col non trovare del tutto casuale
che, ancora oggi, uno dei migliori pittori viventi d’Italia, Giorgio Morandi,
pur navigando tra le secche più perigliose della pittura moderna, abbia, però,
saputo sempre orientare il suo viaggio con una leggerezza meditata, con
un’affettuosa studiosità, da parer quelle di un nuovo “incamminato”.
Maria Paola Forlani
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