Medardo Rosso.
La luce e la materia
Quando, agli inizi degli anni
ottanta, il torinese Medardo Rosso plasma a Milano le sue prime sculture,
abbastanza chiaramente s’avverte che il giovanissimo artista ha già ripudiato
per istinto, prima ancora che per convinzione critica maturata attraverso
approfondimenti culturali, il titanismo che continuava a suggestionare i
facitori di monumenti. Quelle sculture denotano invece un legame col
naturalismo lombardo, in particolare col Grandi, e riecheggiano persino, alla
lontana, delle prime esperienze del Gemito. Il Rosso non soggiace supino ai
modelli e insegue una propria idea della scultura che rifiuta ogni schema
aprioristico per lasciare libero corso all’ispirazione.
La materia, per Rosso, se
governata intimamente dal sentimento che l’opera ha promosso e definisce, deve
ignorare se stessa ed essere ignorata, costituirsi cioè esclusivamente quale
strumento. Su questa via, prima di partire per Parigi, aveva portato avanti le
proprie esperienze, sia con Impressione
d’autubus che con
La portinaia che
sono le più sicure premesse al corso successivo del suo linguaggio, il quale
matura a Parigi con sconcertante rapidità, non tanto per supposte desunzioni
dall’Impressionismo quanto
perché confortato dal clima stesso di quella cultura, certamente più aperto e
lievitante di quello milanese. Fatto è che, da quel momento,
Rosso continuerà ad agire sul
filo di una coerenza ad un tempo linguistica e morale, mantenendo fermo quale
obiettivo una scultura dalle forme aperte, determinate dalla luce e
dall’intensità del sentimento che si tramuta in espressione. Per lo scultore,
superato il momento della “macchietta”, del tipo, del ritratto, egli elimina
ogni
convenzione formale di scuola, trova nella cera la materia adatta a
modellare senza peso, e crea la scultura dei propri sogni, la scultura
dell’attimo luminoso che si fissa nell’immagine concreta di un volto. Ma
sarebbe vano ridurre quel volto alle proporzioni di un modello qualsiasi, perché
non si tratta di un “frammento”, e tanto meno di un ‘documento’, essendo ben
evidente il distacco dalla verità psicologica.
Con Rosso, dunque, la
scultura si interiorizza sino a disgelare una verità segreta.
È un passo decisivo verso una moderna concezione
dell’arte. L’opera di Rosso,
infatti, chiude
definitivamente il tempo della statuaria, a uso dei sentimentalismi civili, e
inaugura il tempo in cui l’opera d’arte è intesa come prodotto dello spirito.
Se altri, in Italia, avevano
sostenuto tutto questo pur fra tante contraddizioni, soltanto Rosso seppe
rendere legittimo quel prodotto al più alto livello di linguaggio.
Non per nulla di lui si deve
parlare come di un autentico novatore. Come tale egli sfidò la diffidenza di un
ambiente decrepito e l’aperta ostilità dei suoi critici, e dovette sopportare
anche non poche umiliazioni, come ad esempio il rifiuto delle sue sculture
all’Esposizione Universale di Parigi del 1900. Ma come tale egli si impose però
alla cultura e alla sensibilità moderne: i futuristi, per primi, ne
confermarono l’importanza. L’esposizione Medardo
Rosso. La luce e la materia, ha un percorso tematico che prende avvio con
quattro delle più significative opere degli esordi di Rosso, tutte realizzate a
Milano e presentate in diverse versioni: il Birichino,
prima opera comparsa nelle
sale di Brera nel 1882, il Sagrestano, soggetto
comico e quasi spietato del 1883, la Ruffiana , dello stesso anno, rappresentazione
caricaturale, nel solco della tradizione verista e Portinaria, 1890-1905, del Museo di belle Arti di Budapest.
La seconda sezione vuole
restituire, in molti casi attraverso differenti versioni messe a confronto, due
temi fondamentali, la sperimentazione materia (l’utilizzo personalissimo e
inconfrontabile di gesso, bronzo e cera) e il processo creativo dell’artista
che procede per sottrazione fino al raggiungimento di esiti di sorprendente
modernità. Due aspetti illustrati attraverso le straordinarie e inquietanti Rieuse, Henry Rouart, venerato
collezionista e ospite di Rosso nel primo periodo di permanenza a Parigi,
presentato nelle tre versioni in cera, gesso e bronzo; due soggetti del 1894, L’uomo che legge e
Bookmaker, quest’ultimo del periodo di più stretta vicinanza con
Degas;
La straordinaria Madame X, accostabile, per concezione
rivoluzionaria e distanza siderale dalla scultura tradizionale, alle opere di
Costantino Brancusi. Solo che il rumeno credeva che il gesto del vero scultore
fosse quello di raggiungere l’assoluta purezza della forma universale
tagliando, scolpendo materie dure, ostili. Rosso era un modellatore, e con
quale delicatezza offuscò ogni dettaglio di quel volto come
spolpandolo,
cancellandone i particolari, creando una perfetta forma ovoidale, temporanea
condensazione dell’aria, transitoria solidificazione di un sentimento, forse di
un ricordo, visibile ora, per un attimo, a un passo dal nulla. Al centro della
terza sezione della mostra con Madame X in perfetto dialogo appare, con due
versioni a confronto in bronzo e cera, l’Enfant
Malate, documento della fase sperimentale più coraggiosa di Rosso.
Il percorso dedicato alle
sculture di Rosso si conclude nella sala finale della mostra con due soggetti Ecce puer (tra gli ultimi concepiti da Rosso, risalente
al 1906),
Madame Noblet, soggetto
declinato in quattro sole varianti in un lungo arco di tempo (dal 1897 agli
anni Venti), e di cui la GAM
possiede la versione in bronzo.
Una sezione di opere
fotografiche (stampe a contatto da lastre originali e stampe originali)
documentano un aspetto fondamentale della vicenda artistica di Rosso. Come
avviene per alcuni grandi pittori e scultori tra Otto e Novecento, esporre le
fotografie realizzate da Rosso accanto alle sue opere scultoree non ha solo un
valore
documentario. A partire soprattutto dalla fine dell’Ottocento, la
fotografia assume per Rosso il senso di una ricerca autonoma e compiuta, parte
integrante e insostituibile di un incessante lavoro di ripresa di poche,
essenziali immagini, che ha, non a caso,
un equivalente in quella
continua rielaborazione delle sculture da lui ideate entro i primi anni del
Novecento, che caratterizza gli ultimi decenni della sua carriera.
La fotografia, della quale Rosso
aveva una notevole conoscenza tecnica, era per l’artista occasione di un lavoro
sulla materia e sulla luce, ormai svincolata dal confronto col vero: Rosso
fotografa le sue sculture e i suoi disegni, per intervenire poi con viraggi,
ingrandimenti, foto di foto, scontornature, collage,
tracce di materia pittorica, tagli e abrasioni, fino ad accettare
l’intervento del caso e dell’errore. Esposte nelle sue mostre accanto alle
sculture e pubblicate, spesso sotto il controllo dell’autore, in libri e
riviste, le fotografie così ottenute devono essere considerate a tutti gli effetti
vere e proprie opere di Rosso, e consegnano alla storia un artista che ha
saputo vedere al di là del suo tempo.
Maria Paola Forlani
Nessun commento:
Posta un commento