Il Demone della Modernità.
Pittori visionari all’alba del secolo
breve
L’irrompere della modernità
nel mondo tardo Ottocentesco e il suo deflagrare nei primi decenni del “secolo
breve” sono il soggetto vero della mostra, aperta a Rovigo a Palazzo Roverella fino il 14 giugno 2015, a cura di
Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) dal titolo Il Demone della Modernità. Pittori visionari all’alba del secolo breve.
Una modernità particolare, popolata da angeli e demoni, tra inquieto e
ineffabile, tra conscio ed inconscio, tra prefigurazione di morte e destini di
luce.
Il percorso della mostra
appare come un viaggio verso l’ignoto. Le opere sanno dare forti emozioni ed
accostare a vitalismi sfrenati, ambigui ed eterei straniamenti, incubi e sogni.
Lo spettatore diventa come un viandante che percorre un universo, il cui
cammino è selvaggio e vergine come ai tempi della Creazione, abitato da razze
antiche come Titani, Giganti, Dei ed angeli barbuti. Sono mondi pieni di magia
che si trovano negli anfratti più nascosti della campagna, nelle profondità
marine e persino nei campi bianchi delle nuvole; talvolta visibili, talvolta
no.
È un viaggio, pregnante, forte, carico di emozioni che
accompagna nella profondità più oscura dell’inconscio e fa ascendere alle terse
luminosità dello spirito. Spesso questi territori incantati, così ben narrati
nelle opere degli artisti, erano scoperti da viandanti che ci capitavano sopra
per caso. Ora il visitatore di passaggio svela e sveglia i vecchi spiriti
dell’aldilà. Una voce nell’ombra domanda “È l’ora?”, e il
visitatore, pieno di spavento, risponde: “Riposa, non è ancora il tempo”,
restituendo al sonno il fantasma inquieto.
Assieme ad al
cune
irrinunciabili icone dell’universo simbolista, sono presenti opere che uniscono
la suggestione del simbolo e la libertà visionaria e utopistica dell’ideale,
facendo compiere allo spettatore un percorso teso tra scoperte di un’arte
esclusiva e misteriosa e la rappresentazione drammatica e cruda, talvolta
sommessa, della follia della guerra.
Ma, tra resistenze e cadute,
quella che viene messa in scena è la
irruzione di una modernità inquieta e tempestosa, prefiguratrice di morte non
meno sfrenata celebratrice di un vitalismo tutto proteso verso nuove conquiste
e nuovi miti.
Anche i linguaggi dell’arte
si rinnovano tumultuosamente, infrangono gli schemi rigidi di ogni classicità,
le tradizionali connessioni e relazioni spazio-temporali, introducono il
movimento, le sonorità estreme, le contaminazioni tra generi.
Non si tratta di una
narrazione sistematica: attorno a impareggiabili figure del mondo nuovo, ad
angeli di un destino di luce e alle tenebre gelide e sulfuree che circondano il
maledetto e il reietto, le nuove forme dell’arte spalancano orizzonti
insospettati e fanno esplodere sopra le macerie del passato la potenza
incontenibile e pur ambigua del moderno.
A raccontare, interpretare e
vivere nelle loro opere queste emozioni sono grandi artisti europei: Franz Von
Stuck, Leo Putz, Odillon Redon, Paul Klee, M. Kostantinas Ciurlionis, Max Klinger,
Felicien Rops, Oskar Zwintscher, Sascha Schneider, Mirko Rački,
Vlaho Bukovac e altri italiani: Mario De Maria, Guido Cadorin, Bortolo Sacchi,
Alberto Martini, tra gli altri.
Le originali immagini di New
York di Gennaro Favai dialogano in chiusura con il moderno cinema
espressionista. Se la città industriale è il luogo simbolo della modernità
(come già aveva visto Baudelaire, teorizzato da Walter Benjamin ed illustrato
magnificamente da Proust) New York ne è l’incarnazione perfetta, come
Metropolis di Lang e la Gotham City
di Barman, il Cavaliere oscuro.
Raramente come negli anni
magici tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e la Grande Guerra , letteratura,
poesia e arti figurative si sono incontrate, sfidandosi attorno a temi e figure
che da sempre hanno custodito un singolare incrocio di concetti e di forme
dietro i quali si agitava una pressante ricerca del nuovo.
Un passato brulicante di
seducenti e variegate suggestioni letterarie; la poesia di nuovi protagonisti –
si pensi, appunto, a Boudlaire e, già prima, alle anticipazioni nere di Edgar
Allan Poe-; il pensiero filosofico più avanzato e spregiudicato: ecco la
materia nuova, la radice della modernità.
Gustave Moreau utilizza
ancora miti e figure del passato (mitologico o biblico): le sue Salomè provocatoriamente
danzanti, i suoi Edipi, le Sfingi, le Arpie paiono la
ineguagliabile
concretizzazione degli incubi di fine secolo, narrati ancora con linguaggio
‘classico’. Altri artisti rinnovano radicalmente questa lingua: il grande Odillon Redon ne è forse il rappresentante emblematico, nella essenzialità diafana e ambigua del suo sogno. L’ambiente tedesco partecipa subito a questo travaglio di matrice franco-belga e ne dà una originale interpretazione: Max Klinger e Franz von Stuck, allievi ambedue di Böcklin, ne sono forse le punte più avanzate.
L’artista sente, quasi come
un sensitivo e un profeta, l’avvicinarsi del baratro, l’ombra della notte che
avanza. Testimonianze straordinarie per intensità e originalità di pittura
sfilano in una rassegna impressionante di annunci; artisti spesso trascurati
rivelano la profondità geniale del loro sguardo, dallo sterminato bagaglio
immaginario di una civiltà intera affiorano visioni di Apocalissi e minacce di
mostri sconosciuti, prefigurazioni di disastri incombenti mentre il velo
dell’esistenza viene squarciato da figure di morte. Anche le manifestazioni
dell’amore – fisico o spirituale assumono le sembianze di fantasmi. Ai tuoni e
ai lampi succederà l’esplosione della catastrofe universale, annunciata da un
immenso angelo che suona la tromba di un giudizio epocale, come in una
impressionante tela di Schineider o testimoniato nelle sulfuree ‘cartoline’ di
Alberto Martini.
La modernità assume qui la
figura truce di un sapere che soggioga le potenzialità appena intraviste del
progresso alle istanze del potere, del sistema economico, degli sfruttamenti e
delle schiavitù sugli uomini e sui popoli.
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