giovedì 28 maggio 2015

I predatori dei "Beni artistici"

I predatori dei ‘Beni artistici’ dei ‘Beni della comunità’


L’invenzione della cultura, del suo concetto e della sua pratica pubblica, è una delle più affascinanti avventure dell’uomo.
Mentre la cultura evoca altrove una generosa apertura intellettuale e il futuro, in Italia lo scontro frontale tra due partiti in perenne conflitto – quello di una religione inattuale del patrimonio e quello della svendita sul mercato dei beni culturali – tiene in ostaggio la più importante infrastruttura per crescita civile ed economica del paese.

Parlando di attualità, apparsa in questi giorni alle cronache, la speculazione finanziaria attuata intorno all’acquisto di un castello storico per poi rivenderlo al suo valore qualche tempo dopo, mettendosi in tasca la differenza, è prassi di indifferenza morale, attorno ai beni architettonici o ambientali, attuata, spesso, da enti religiosi. Un affare ottenuto grazie a una serie di reati che vanno dal falso alla truffa, passando per l’appropriazione indebita, la turbata libertà degli incanti e l’associazione per delinquere. Accuse che, a vario titolo, la procura di Terni contesta a dieci indagati, tra i quali anche l’ex vescovo della diocesi di Narni, Terni ed Amelia, Vincenzo Paglia, oggi presidente del Pontificio consiglio per la famiglia. E poi a una serie di altre persone della diocesi, come il presidente dell’istituto diocesano per il sostentamento del clero e il vicario episcopale della diocesi. E, in più, l’ex sindaco di Narni, Stefano Bigaroni. Una storia che risale a circa quattro anni fa che riguarda il castello di San Girolamo di Narni, edificio storico venduto all’asta. Un’asta che, come hanno ricostruito i finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria fu completamente illecita. Nell’avviso di chiusura indagini che i finanzieri guidati dal generale Giuseppe Bottillo hanno recapitato agli indagati, ci sono diversi episodi che testimoniano come quell’assegnazione fosse fuori legge. Innanzitutto perché il castello fu venduto a circa un terzo del suo valore: acquistato dalla Imi Srl (società comunque vicina alla curia perché l’amministratore era l’economo della diocesi, Paolo Zamppelli, e uno dei soci direttore dell’ufficio tecnico, Luca Galletti) a 1.760.00 euro contro una stima di oltre 5.600.000 e con denaro della curia.

Vengono riportati episodi di induzione in errore della Giunta comunale grazie a una serie di false informazioni, depositi oltre il termine, false comunicazioni di ogni tipo per cercare di garantire comunque quella cessione. Tutti elementi che fanno concludere al pm che Imi Srl, acquirente del Castello (che non a caso ancora oggi è di proprietà della diocesi al centro di un crak finanziario da 25 milioni di euro), non avesse <<i requisiti necessari>> nemmeno per partecipare alla gara d’appalto.
 E non avesse nemmeno il denaro per comprare quel pregiato immobile: i soldi
per l’acquisto sono arrivati nelle casse dell’Imi con bonifico fatto direttamente
dalla Curia.

Di questo caso, molte sono le affinità con la sparizione, da parte della diocesi estense, di Casa Cini a Ferrara nel suo ruolo di Istituto di cultura, trasformata in edificio per affittanze di ogni tipo… (per un anno è stata affittata ai grillini, poi ai farmacisti, ai bancari, ecc… il tutto cacciando i molti giovani che frequentavano quel luogo per lo studio e la ricerca.)

La società che si è apprestata ad intervenire pesantemente sul ‘restauro’ ha creato solo ipotisi di ‘lucro’, deturpando gli spazi architettonici, e non potendo acquistare l’immobile perché vincolato alla diocesi come dono del conte Vittorio Cini, tutti i proventi degli ambienti affittati sono devoluti a questa società di imprenditori immobiliari (?), guidata da un mediatore segnalato anche dalla stampa locale, individuo senza alcuno scrupolo e senza alcun titolo professione se non quello di mediatore a tempo pieno.

Casa Cini con questo ‘stupro’ architettonico ha perso la sua identità di Centro Culturale: biblioteca e Museo come era stata in origine, prima con i Gesuiti poi con don Franco Patruno e don Francesco Forini, ma soprattutto come luogo di ‘solidarietà’ e ‘accoglienza’. Casa Cini, con la dinamica e generosa gestione di don Franco Patruno, è stata un momento di grande ricerca, uno sguardo pieno di fiducia e di amore, per un progetto carico di futuro, interrotto da una violenza, priva di senso umano, pari a  quella talebana, desiderosa di distruggere un <<patrimonio>>  colmo di cultura.
Il patrimonio non è un’entità amministrativa, né una categoria economica è l’eredità di generazioni che ci hanno preceduti. La distruzione di decenni di ricerca, di biblioteche, di opere d’arte a Casa Cini è stato lo sventramento di un <<universo carico di storia>>. Così, parlando di patrimonio parliamo di cittadinanza, di sovranità popolare, di uno Stato inteso come comunità.
La conservazione dell’ambiente e del patrimonio culturale e la riattivazione della loro funzione civile, parlando in senso più ontologico, è naturalmente anche una grande questione economica. Una questione che finora è stata declinata in termini di economia di rendita, di sfruttamento, di rapina. Ma che potrebbe invece diventare il cuore di una nuova economia civile, il progetto di un paese che smetta di divorare se stesso e riprenda a investire sul proprio futuro, non a scommettere sulla propria fine.
Lo dimostrano le parole di Vasari, contenute nel terzo libro delle Vite quando, salutando il mecenatismo di Lorenzo il Magnifico, afferma che <<chi aiuta, e favorisce nell’alte imprese i belli, e pellegrini ingegni, da e’ quali riceve il mondo tanta bellezza, honore, comodo, e utile, merita di vivere eternamente per fama negli intelletti degl’huomini>>.
È proprio dall’idea di una cultura come elemento di sviluppo, anche economico, che la tradizione statunitense ha perpetuato le idee nate nella Firenze rinascimentale. Quelle di una modernità competitiva in cui la conquistata consapevolezza dei limiti biologici che inquinano negativamente i rapporti sociali, libera i singoli, aiuta l’innovazione e permette un approccio creativo al mondo, favorendo le identità progettuali. Don Franco Patruno apriva le sue biblioteche a tutti, le porte di Casa Cini per visitare le mostre, ascoltare i concerti perché questi fossero uditi da tutti. La musica interpretata dai giovani nel cortile della Casa Medioevale del conte Cini si spandeva perché musici cittadini suonavano per altri cittadini,  suonavano per la polis. Tutto ciò, non per rimuovere le difficoltà della vita, dell’esistenza, ma per affrontarle tutti insieme, con gioia, uniti nella musica e per assaporare i colori dell’arte e il profumo dei libri.

E da questo spirito di grande apertura solidale che la scena politica e la chiesa dei ‘castelli svenduti’, delle ‘donazioni calpestate’, dovrebbe essere capace di ripartire. Perché le nostre città, i nostri musei, il nostro paesaggio non contengono solo cose belle: contengono valori e prospettive che possono liberarci, innalzarci, renderci di nuovo umani, restituirci un’idea dell’uomo e un’idea di comunità che ci permettono di costruire un futuro diverso, un futuro colmo di solidarietà, tanto caro a don Lorenzo Milani che troppo presto se n’è andato.

Maria Paola Forlani




lunedì 25 maggio 2015

Il Principe dei sogni

Il Principe dei sogni

Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino

Dopo lo straordinario successo ottenuto a Palazzo del Quirinale, dove è stata inaugurata lo scorso 17 febbraio, la grande mostra “Il Principe dei sogni. Giuseppe negli arazzi medicei di Pontormo e Bronzino”, realizzata in occasione di Expo Milano 2015,  grazie alla Fondazione Bracco, è giunta nella splendida sala delle Cariatidi a Palazzo Reale fino al 30 agosto 2015.
L’esposizione, a cura di Louis Godart, raduna dopo centocinquanta anni, i venti arazzi cinquecenteschi commissionati da Cosimo I de’Medici che raffigurano la storia di Giuseppe narrata nella Genesi (37 – 50).

Gli arazzi, divisi per volere dei Savoia nel 1882 tra Firenze e il Palazzo Quirinale, tornano, grazie all’impegno della Presidenza della Repubblica Italiana e del Comune di Firenze, ad essere esposti insieme in una mostra unica. Dopo la tappa di Roma, nel salone dei Corazzieri del Palazzo del Quirinale, sono ora esposti a Milano nella sala delle Cariatidi e successivamente a Firenze nella Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio dal 15 settembre 2015 fino al 15 febbraio 2016.

La straordinaria raffinatezza della loro manifattura, l’unicità della composizione dei soggetti raffigurati, la singolare vicenda storica che li ha interessati, profondamente intrecciata alla storia d’Italia, fa di questo progetto espositivo un evento di portata internazionale e di eccezionale rilevanza simbolica, culturale e storico artistica.

Questa serie di panni monumentali, oggetto di un complesso e pluridecennale restauro presso l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e il Laboratorio Arazzi del Quirinale, rappresenta una delle più alte testimonianze dell’artigianato e dell’arte rinascimentale. Gli arazzi con le Storie di Giuseppe vennero commissionate da Cosimo I de’Medici tra il 1545 e il 1553 per la Sala dei Duecento di Palazzo Vecchio a Firenze.

I disegni preparatori furono affidati ai maggiori artisti del tempo, primo fra tutti il Pontormo. Ma le prove predisposte da quest’ultimo non piacquero a Cosimo I, che decise di rivolgersi ad Agnolo Bronzino, allievo di Pontormo e già pittore di corte, a cui si deve parte dell’impianto narrativo della serie. Tessuti alla metà del XVI secolo nella manifattura granducale, tra le prime istituite in Italia, furono realizzati dai maestri arazzieri fiamminghi Jan Rost e Nicolas Karcher sui cartoni forniti da Agnolo Bronzino, Jacopo Pontormo e Francesco Salviati.


Le serie racconta la storia di Giuseppe, figlio prediletto di Giacobbe, detestato dai fratelli che lo invidiavano sia per l’amore che gli manifestava il padre, sia per le doti di geniale maestro di oniromanzia. Venduto schiavo in Egitto, Giuseppe seppe trionfare su tutte le insidie poste sulla sua strada, farsi valere agli occhi dei potenti, recitare un ruolo di primo piano nella gerarchia dell’impero faraonico ed essere cosi grande da perdonare i fratelli che lo avevano tradito. La dinastia medicea amava la storia di Giuseppe; l’immagine di un eroe mite e probo, capace di sfuggire agli invidiosi, di conquistare una posizione importante partendo dal nulla e contando solo sulle sue qualità intellettuali, era una vera e propria metafora delle alterne fortune della grande famiglia fiorentina. Attraverso la realizzazione di questi venti arazzi la corte dei Medici volle quindi che fosse raccontata la storia dell’eroe biblico, le cui vicissitudini tanto somigliavano alla loro saga dinastica.



Nella Sala dei Duecento le Storie di Giuseppe di Pontormo e Bronzino seguivano il racconto biblico e così si succedevano: Il sogno dei manipoli, Giuseppe racconta il sogno del sole, della luna e delle stelle, Vendita di Giuseppe, Lamento di Giacobbe, Giuseppe e la moglie di Putifarre, Giuseppe fugge dalla moglie di Putifarre, Giuseppe in prigione e il banchetto del Faraone, Giuseppe spiega il sogno del faraone delle vacche grasse e magre, Vendita del grano ai fratelli, Giuseppe prende in ostaggio Simeone, Beniamino ricevuto da Giuseppe, Convito di Beniamino, Giuseppe si fa riconoscere dai fratelli e congeda gli Egiziani, Giuseppe perdona i fratelli, Incontro di Giuseppe con Giacobbe in Egitto, Il Faraone accetta Giacobbe nel regno, Giacobbe benedici i figli di Giuseppe, sepoltura di Giacobbe.

Il primo arazzo della storia è  Il sogno dei manipoli (G 37,5-8), tessuto da Nicolas Karcher su cartone del Bronzino; contiene un’unica scena in cui Giuseppe, in posizione dominante sulla sinistra, sorride nel sonno, seminudo; è abbandonato in un atteggiamento di provocatoria leggerezza, i fratelli sono chini sul lavoro. Nel cuore dei fratelli, obbligati ad ascoltare il racconto del suo sogno e la storia dei loro covoni prosternati davanti a quello di Giuseppe, sale ancora di più l’odio. Oltre l’immediatezza del racconto visivo Bronzino ha introdotto alcuni elementi criptici: Giuseppe è protetto dalle fronde di un albero rigoglioso ma posa il braccio destro su un ramo secco, quello estinto della dinastia medicea, con chiara allusione
 all’‘impresa’ di Cosimo “uno avulso (non deficit alter)” rappresentata da una pianta (di alloro), in parte fiorente, in parte secca.
I fratelli sono sette come nel sogno seguente. In primo piano, in basso, una falce è gettata sul terreno, a simboleggiare l’identificazione del committente, Cosimo, con il dio dei tempo Cromo, il quale non solo aveva inventato la falce, suo attributo, ma se ne era servito per mutilare il padre e privarlo del potere. Frangente questo che consentiva di associarlo direttamente a Noè il quale, a sua volta assimilato a Saturno e Giano, viene effigiato, in alcuni arazzi, al centro della bordatura inferiore.

La serie degli splendidi arazzi si chiude con la Sepoltura di Giacobbe lungamente descritta nella Genesi (G 50,1 – 12) ma rappresentata raramente, nonostante si trovi già in opere figurative della prima cristianità. L’episodio illustrato  sull’ultimo arazzo della narrazione, tessuto da Jan Rost su ideazione di Bronzino, talvolta è stato interpretato erroneamente come sepoltura delle ossa di Giuseppe, a conferma della ambiguità derivante dalla stratificazione di messaggi volutamente elaborata dalla committenza. La scena ritrae la caverna a doppio arco di Malpela, la sepoltura di famiglia acquistata da Abramo, dove Giacobbe aveva fatto promettere a Giuseppe di essere trasportato. Sappiamo dalla Bibbia che l’evento aveva avuto grande magnificenza e il viaggio funebre dall’Egitto era stato imponente e solenne, scortato dalla cavalleria del faraone e da tutti gli anziani del regno. Che il nuovo duca di Firenze volesse includere ed evidenziare la pietà posta nella sepoltura dei ‘padri’ nel cielo di arazzi, ricordando il fasto delle tombe medicee nel mausoleo di san Lorenzo che Cosimo, dopo l’interruzione dovuta alla morte del primo committente Clemente VII, aveva fatto alacremente riprendere proprio nel fatidico 1545.


Maria Paola Forlani


domenica 24 maggio 2015

BRIXIA

Brixia

Roma e le genti del Po.
Un incontro di culture III – I secolo a.C.


Si è aperta a Brescia nel Museo di Santa Giulia fino al 17 gennaio 2015 una grande esposizione archeologica, con quasi 500 reperti. A cura di Luigi Mainati
 e Valentina Manzelli  (catalogo Giunti) dal titolo:
Brixia. Roma e le genti del Po. Un incontro di culture. III – I secolo a. C.”
Nel 295 a. C. a Sentino, in una vallata nel cuore delle Marche, l’esercito di Roma e dei suoi alleati sconfiggeva in una battaglia incerta fino all’ultimo la coalizione di popoli italici guidata da Sanniti e Galli Senoni. Con quella vittoria Roma non solo affermava il suo dominio incontrastato sulla penisola, ma si apriva la via per la valle Padana.
È di pochi anni dopo la sottomissione del territorio Senone e la fondazione della colonia latina di Rimini. Nei due secoli successivi si avrà prima la definitiva conquista militare, nei primi decenni del II secolo, poi il graduale inserimento dell’Italia settentrionale nel sistema politico romano, concluso nel 49 a.C. con la concessione della cittadinanza.

L’obiettivo della mostra è illustrare il processo che vide protagonisti Roma e le genti del Po, tra il III e la metà del I secolo a.C., che si svolse attraverso fasi non solo di conflitto, ma anche di incontro e di integrazione: è il racconto per immagini di una straordinaria trasformazione storica e culturale, rappresentata da materiali eccezionali esposti nel percorso.

La mostra ricostruisce così, sullo sfondo della pianura del Po, area estesa tra gli Appennini e le Alpi e favorita in antico da una posizione privilegiata e dalla presenza di un grande fiume, la fisionomia sorprendente di un luogo d’Italia, che divenne vero laboratorio di integrazione tra etnie e culture diverse e cassa di risonanza del confronto fra cultura romana ed ellenistica.

Il percorso della mostra è articolato in 12 sezioni.
Nella prima dedicata ai protagonisti, il visitatore può collegarsi al quadro storico dell’epoca, ai suoi principali eventi e al volto di alcuni grandi uomini, politici e condottieri, che ne furono attori; si attraversa poi virtualmente il paesaggio che i romani si trovarono ad affrontare arrivando nella pianura (Prima Annibale,
sezione 2) e le popolazioni che lo abitavano, le loro tradizioni, i primi segni della loro apertura a messaggi culturali nuovi.

Tra le opere spicca il Busto fittile di guerriero da Ravenna, (Museo Archeologico Nazionale di Ravenna). La scultura in terracotta raffigura un giovane guerriero in nudità eroica, con balteo e clamide. Riferito al modello di Diomede tipo Cuma è il prodotto di un’atmosfera culturale profondamente ellenizzata. III secolo a.C.

La guerra ( terza sezione) è uno dei temi principali, rappresentato in mostra dal fregio di Telamone e da una serie di eccezionali esempi di elmi e di armature.

Ma attraverso la guerra cominciò a farsi strada sempre più incisiva la propaganda
Romana (sezione 4), una forma lungimirante di fidelizzazione attuata attraverso l’assimilazione di una nuova ideologia religiosa dei santuari sparsi nella città e nei territori, ancora vincolati a tradizioni locali.
Il Frontone di Telamone, (Museo Archeologico “Polveriera Gezman”), presenta un frontone in terracotta decorato con altorilievi che rappresentano il mito dei Sette contro Tebe; l’architrave e la cornice presentano motivi vegetali su cui correva una sima traforata; ai lati sono presenti acroteri con cavalli marini, mentre quello centrale, maggiore, è a palmetta traforata. Per alcuni il frontone sarebbe da collegarsi alla vittoria contro i Galli nella battaglia del 225 a.C., episodio di cui il rilievo rappresenterebbe la trasposizione in chiave simbolica. Fine III – metà secolo a.C.

L’esito di questi processi è rappresentato dalla Cisalpina in età repubblicana (sezione 5) con la nascita delle grandi città, ormai inserite in una rete viaria efficiente, che segnarono la definitiva romanizzazione della pianura attraverso l’adozione di modelli urbanistici e architettonici comuni, secondo precise esigenze ideologiche
oltre che funzionali.

I simboli della città (sezione 6) ne raccontano le diverse forme, espresse dai più importanti edifici pubblici aggregati intorno al foro, spazio urbano comune per eccellenza. Tra i più importanti, sotto l’aspetto simbolico, gli edifici del culto (sezione 7) spesso portatori nelle nuove forme architettoniche e nelle immagini di divinità il retaggio dei culti più antichi tradotto nelle forme dell’Ellenismo. La ricezione di questo nuovo linguaggio si manifesterà anche nel gusto privato, con dimore di pregio ornate da pavimenti, mosaici e arredi lussuosi.

Tra i capolavori, in questa sezione, spicca la Lastra architettonica con Dioniso e Arianna da San Lorenzo in Strada (Rimini, Museo della Città).
La raffigurazione rappresenta l’abbraccio tra Dioniso e Arianna. Probabile ornamento di un tempio, attesta la completa adesione a canoni artistici ellenizzanti. Metà del II secolo a.C.
Sintesi eloquente di questo straordinario incontro, in chiusura della prima parte della mostra, è il volto di Catullo. Un grande poeta (la voce dei poeti, sezione 12), di famiglia celtica, ma di raffinata cultura ellenistica, nato a Verona ma assai legato a Brixia. La sua voce accompagna il visitatore nella seconda emozionante parte del percorso, dove per la prima volta è possibile entrare nell’antico santuario di Brescia, luogo in cui i temi della mostra, la tradizione indigena e la nuova cultura ellenistica e romana trovano perfetta fusione.

Tra i capolavori di questa sezione appare, nella sua integrità, l’“Affresco da Sirmione”, (Antiquarium di Sirmione). Dipinto con figura maschile rappresentata all’interno di un quadro, abbigliata con tunica e toga esigua tipiche della tarda repubblica, adornate della fascia purpurea, segno di appartenenza all’ordine dei cavalieri; regge tra le mani un rotolo. Nella figura si riconosce l’immagine di un letterato, per il quale è stata suggerita l’identificazione con il poeta Catullo. I secolo a.C.

Maria Paola Forlani







lunedì 18 maggio 2015

ADRIAN PIPER

Adrian Piper
Vincitrice del Leone d’oro
Alla 56 Esposizione internazionale d’Arte
La Biennale di Venezia

<<All The World’s Futures>>


L’assegnazione dei Premi alla Biennale di Venezia diventano un momento d’oro per discutere e di percepire le varie valenze nella nostra epoca. Fra le circa centoventi biennali al mondo, Venezia è la prima e sola a essere un concorso ciclico con un meccanismo a premi.

Vincitrice di questa 56/ma edizione dell’Esposizione Internazionale, dal titolo <<All The World’s Futures>>, a cura del nigeriano Okwui Enwezor (1963), è Adrian Piper (New York 1948), protagonista della corrente concettuale e della performance, abile nell’intrecciare la pratica artistica con la ricerca in ambito accademico. Piper è una filosofa analitica che ha insegnato a Georgetown, ad Harvard e a Stranford, oggi al Wellesley College Massachusetts, professore emerito dell’American Philosophical Association e in assoluto prima accademica afroamericana in filosofia. Ama definirsi <<di razza mista, come tutti gli americani>>: è per 1/32 malgascia (del Magadascar), 1/16 nigeriana e per 1/8 dell’India dell’est (Delhi), oltre ad avere avi britannici e tedeschi. Alla fine degli anni sessanta, l’arte di Adrian Piper era classicamente concettuale. Agli esordi, sotto forma di pagine dattiloscritte, istruzioni e schemi, la sua opera rifletteva una conoscenza approfondita della linguistica e delle teorie semiotiche. Le concomitanti indagini sulla natura della consapevolezza sono state attentamente favorite anche da una metodica pratica di yoga e meditazione, che l’artista mantiene ancora oggi. Tuttavia, come risposta alle ripetute esperienze di razzismo e sessismo nel mondo maschilista dell’arte newyorchese degli anni sessanta, la pratica artistica di Piper è cambiata in funzione di un crescente impegno politico e il suo lavoro ha incarnato le strategie concettuali verso nuovi interrogativi su razza, genere e sessualità.
Piper studia di Kant e soprattutto di metaetica (Rationality and the Structure of the Self, I: The Humean Conception; Rationality and the Structure of the Self, II: A Kantian Coneption, Cambrige University Press, 2008), ha riflettuto sulle sfaccetature dell’identità attraverso gli sguardi e le azioni dell’altro. E sull’inestricabile sintesi, riguardo i problemi razziali, fra il colore della pelle e i tratti fisionomici, da un lato (natura), gli usi, i costumi (cultura) e la discriminazione dell’altro.

Nel 1973 Piper realizza Mythic Being, prima analisi dei processi di costruzione delle differenze razziali e di genere: appartiene a questa serie di lavori – alla cui base sta una complessa e progressiva spoliazione delle caratteristiche soggettive – una performance in cui l’artista recita un mantra tratto da una frase dei propri diari, mentre gira per le strade vestita da young black con pantaloni, occhiali scuri, parrucca afro e baffi, secondo gli stereotipi usuali. Confronto, alinazione, accettazione e differenza sono motivi esaminati sia come fenomeni sociali, che meccanismi interni alla stessa persona.
Due anni più tardi, Piper ha creato un suo alter ego maschile chiamato “Mythic Being”; si è esibita en travesti in tutta New York creando una serie di fotografie a collage e sovradipinte, abbinate a testi – riflessioni, slogan politici e civetterie – che hanno affrontato la performance di genere e gli stereotipi sulla sessualità nera.

Abituata a pensare che il personale è anche politico, nel 1981 Piper – mediando la percezione di sé con quella restituita dagli altri – disegna degli autoritratti in cui esagera visibilmente gli elementi fisionomici che appartengono allo stereotipo della razza nera, mentre in un’azione reiterata fra il 1986 e il ’90 – My Calling (Cards) –
distribuisce dei biglietti da visita con osservazioni esplicite sul razzismo – mettendoli a disposizione anche ad altre possibili vittime. Suscitare reazioni nel pubblico è l’effetto di molti dei suoi lavori: in Comerend – installazione del 1988 – Piper sfrutta la chiarezza della propria pelle per presentarsi su uno schermo mentre afferma di “essere nera”, un’asserzione contestata dall’apparenza, ma messa in dubbio anche dall’esposizione di due certificati di nascita del padre dell’artista, in cui afferma, in uno, la sua appartenenza alla razza bianca, nell’altro, a quella nera, il tema dell’appartenenza alla razza e la percezione dell’altro sono obiettivi prioritari.

Gli aspetti performativi e dialogici dell’arte odierna, valorizzati dalla giuria con questo premio, emergono nel lavoro presentato alle Corderie dell’Arsenale, The Probabile Trust Registry: una performance interattiva che teatralizza le dinamiche dei contratti sociali o personali. In un ambiente aziendale simulato, i visitatori possono firmare dichiarazioni in cui promettono responsabilità morale verso se stessi e gli altri. I documenti vengono poi fotocopiati e archiviati presso l’Apra /Adrian Piper Research Archive) Fundation, con sede a Berlino. Per Piper, All the World’s Futures
è ogni futuro imminente, a partire dalle promesse negli atti di sottoscrizione.

A questa performance si correla una serie di foto abrase e modificate (Everything Wil Be Taken Away Erasers). In ogni immagine è ripetuta, a stampatello, la frase del titolo, quasi come un promemoria. Piper espone inoltre quattro lavagne vintage, su cui vengono ripetute le stesse parole come fossero frasi di punizione in aula. Questa serie solleva diverse questioni, che vanno dalla sfera politica a quella spirituale, tra cui, ad esempio, la distruttività del conflitto globale contemporaneo, la censura nei media dominanti o l’ideale del non-attaccamento secondo lo yoga. Mentre le lavagne pregne di cancellature suscitano angoscia.
Tutto è destinato alla cancellazione e il primo segno, del resto, è una cancellazione (Italo Calvino). Sopravvive l’atto di tracciare, nella fugacità del suo divenire.


Maria Paola Forlani