giovedì 29 settembre 2016

PAUL SIGNAC

Paul Signac
Riflessi sull’acqua

Si è aperta fino all’8 gennaio 2017, presso il Museo d’arte della Svizzera italiana, una grande mostra dedicata a Paul Signac (1863 – 1935) a cura di Marina Ferretti Bocquillon (catalogo Skira).
L’evento dal titolo Paul Signac. Riflessi sull’acqua, riunisce oltre centoquaranta opere, fra dipinti, disegni, acquarelli e incisioni, appartenenti a un’eccezionale collezione d’arte, uno dei più importanti nuclei di opere dell’artista conservato in mani private. Presentata alla Fondation de l’Hermitage all’inizio di quest’anno e ora al MASI Lugano, la mostra offre un’esaustiva panoramica dell’evoluzione artistica del pittore ripercorrendo le fasi che hanno segnato i mutamenti della sua tecnica pittorica sin dagli esordi, in particolare dal decisivo incontro con Georges Seurat (1859 – 1891) avvenuto nel 1884 a Parigi grazie alle frequentazioni con alcuni esponenti del gruppo degli impressionisti. Signac diviene uno dei rari amici di Seurat e, insieme a Odilon Redon, i due artisti fondano la Société des artistes indépendant
dando avvio l’anno seguente alla corrente del Neoimpressionismo.
Detto che il linguaggio neo-impressionista è per il solito caratterizzato da un equilibrio classicheggiante, con un gusto evidente verso un’architettura formale dalle ampie, pacate cadenze, si aggiungerà che, sul piano qualitativo, i migliori dipinti si debbono a Seurat, nonostante la fin troppo palese vocazione alla solennità scenografica, mentre Signac, nella sua lunga vita, venne preso da altri interessi, staccandosi da quella precettistica che aveva puntigliosamente elaborato e sostenuto in giovinezza, Seurat morì invece troppo presto: a trentadue anni aveva dato fin troppo considerando la voluta lentezza del suo procedere.

Scrisse di lui l’amico Signac :<< Nel momento della morte di Seurat le critiche rendevano giustizia al suo talento ma osservavano che egli non lasciava alcuna opera. Al contrario, mi sembra che egli abbia dato tutto ciò che poteva dare, e in modo mirabile. Certo, avrebbe prodotto e progredito ancora molto, ma il suo compito era ormai adempiuto. Aveva analizzato tutto, instaurando quasi definitivamente il bianco e nero, le armonie della linea, la composizione, il contrasto e l’armonia del colore. Che cosa si può chiedere di più a un pittore? >>. Più che a un singolo artista, questa orazione funebre potrebbe essere applicata all’intero movimento neo-impressionista.
Signac, grazie alla sua opera pittorica e ai suoi contributi teorici, divenne una figura di riferimento per molti esponenti della generazione successiva di artisti attivi nell’ambito del Fauvismo o del Cubismo.

Attraverso un percorso cronologico e tematico, la mostra rivela le molteplici sfaccettature di un uomo innamorato del colore. Le opere esposte documentano le diverse fasi dell’evoluzione artistica di Paul Signac: dai primi dipinti impressionisti fino agli ultimi acquarelli della serie dei Ports de France (Porti di Francia), passando per gli anni eroici del neoimpressionismo, il fulgore di Saint-Tropez, le immagini scintillanti di Venezia, Rotterdam e Costantinopoli. Alla foga impressionista degli esordi si contrappongono così le limpide policromie del divisionismo, il giapponismo audace degli acquarelli contrasta con la libertà dei fogli dipinti en plein air, mentre i grandi disegni preparatori a inchiostro di china acquarellato ci rivelano i segreti di composizioni serene, a lungo meditate in studio.

L’acquarello diventerà la tecnica prediletta da Signac, accompagnandolo nei suoi molteplici viaggi e permettendogli di lavorare all’aperto, apportando un senso di leggerezza e freschezza alle sue opere. L’ultima sezione della mostra I porti di Francia è dedicata a questa sua grande esplorazione che corona la sua carriera di acquarellista.

Porti di Francia, è un progetto strutturato nel quale l’artista – allora sessantacinquenne- si cimenta con entusiasmo e vitalità. Gli acquarelli, originariamente riuniti in album rilegati in pelle, si susseguono senza monotonia rappresentando le barche e il mare con lo sguardo di chi li osserva come fosse la prima volta. A sostenere questa impresa è un grande mecenate: Gaston Lévy,
uomo d’affari, creatore di una catena di supermercati e collezionista appassionato.
Il progetto viene realizzato tra il 1929 e il 1931 e procede tra circostanze metereologiche avverse, rivelandosi più arduo del previsto. Malgrado ciò Signac
non pensa di gettare la spugna. Nelle parole che rivolge a Lévy, ben si coglie la passione dell’artista per questa ultima impresa:

Da molto tempo sogno di fare una importante serie di acquarelli sui ‘Porti di Francia’. Ho individuato 40 porti della Manica, 40 porti nell’Oceano, 20 porti del Mediterraneo. In tutto un centinaio. Se questo progetto ha la sua approvazione, ordinerò una berlina Citoën C4, prenderò un autista e partirò a febbraio per i porti del Mediterraneo, in aprile risalirò verso i porti dell’Oceano per terminare in estate con i porti del Nord.

Penso che ci vorranno 5 o 6 mesi di lavoro, un po’ folle! Farò due acquarelli in ogni porto, uno per lei e l’altro per me, e lei sceglierà quello che preferisce. Decideremo insieme il formato e il prezzo. I mercanti d’arte non ci entreranno per niente! Questo accordo avrebbe per me diversi vantaggi. Il principale sarebbe la giusta eccitazione
artistica che sapranno procurare uno scopo preciso, una combinazione divertente e una creazione importante. E poi la gioia di realizzare un progetto a cui penso da molto tempo, e che è ora di mettere in atto poiché ben presto l’età me lo impedirà,”

I mesi si trasformeranno in anni ma Signac realizzerà un reportage straordinario ritraendo luoghi la cui fisonomia originaria spesso sarebbe stata stravolta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. Signac morirà nel 1935 per un setticema di origine renale, dopo aver intrapreso un ultimo viaggio alla scoperta della Corsica.


Maria Paola Forlani




mercoledì 28 settembre 2016

ITALIA POP

Italia Pop
L’arte negli anni del boom

Siamo troppo scettici per credere
Nelle proteste anarchiche.
Troppo disincantati per credere
Negli inquadranenti collettivistici.
Semplicemente amiamo il mondo
E tutto quanto esso contiene.
Cesare Vivaldi, in “Crak”, Milano 1960


Si è aperta, fino all’11 dicembre 2016, presso la Fondazione Magnani Rocca (Mamiano di Traversetolo – Parma) una grande mostra sulla Pop Art italiana, composta da circa settanta opere provenienti da importanti istituzioni pubbliche e prestigiose collezioni private a cura di Stefano Roffi e Walter Guadagnini (catalogo Silvana Editoriale).

La mostra vuole fornire una lettura articolata e innovativa delle vicende che hanno portato alla nascita e alla diffusione di una “via italiana” alla Pop Art, pienamente in sintonia con le analoghe esperienze maturate in ambito internazionale e al tempo stesso linguisticamente autonoma rispetto ai modelli statunitensi ed europei del periodo.
Per evidenziare la specificità della declinazione italiana della Pop, la mostra prende avvio con due opere esemplari provenienti dalle stesse collezioni della Fondazione, una ‘Piaza d’Italia’ Di Giorgio de Chirico e un ‘Sacco’ di Alberto Burri, due fonti primarie storiche, dell’approccio italiano alla contemporaneità, alla figurazione dell’oggetto.
Non a caso, d’altra parte, inizialmente la critica aveva parlato di una stagione “neo-metafisica” a proposito dell’opera di autori come Mario Schifano o Tano Festa, e lo stesso Schifano, come è noto, omaggerà esplicitamente Giacomo Balla e il Futurismo in due serie pittoriche centrali nello sviluppo del suo percorso.

La mostra procede poi con quelli che si possono considerare i precursori del linguaggio Pop propriamente detto, una serie di autori che, a partire dagli anni dell’immediato secondo dopoguerra hanno affrontato i temi del nuovo paesaggio visivo in un paese che andava uscendo dai traumi della guerra e aprendosi a nuovi, inediti stili di vita, capaci di generare naturalmente anche nuove immagini: Gianni Bertini, Enrico Baj, Mimmo Rotella, Fabio Mauri, hanno saputo cogliere per primi la nuova temperie culturale, il nuovo clima anche sociale che andava maturando negli anni Cinquanta, e le loro opere si pongono, stilisticamente e temporalmente, a fianco di quelle dei neo-dadaisti statunitensi come Jasper Johns e Robert Rauschenberg o dei coevi esponenti del francese “Nouveau Réalisme”.


Assieme a loro, alla fine degli anni Cinquanta anche autori come Schifano, Renato Mambor, Gianfranco Baruchello riflettono sui temi dello schermo e dell’oggettualità della pittura, ponendo le basi per lo sviluppo della vera e propria stagione d’oro della Pop Art italiana tra il 1960 e il 1966.


Un momento di straordinario fervore artistico che investe l’intera penisola, che ha i suoi centri nevralgici nella città di Milano e di Roma, ma che trova luoghi di diffusione estremamente significativi anche a Torino e in Toscana, per non citare che i centri dove maggiore è l’incidenza di tale tendenza sulla scena artistica. In questa sezione si vedono i capolavori di Mimmo Rotella ed Enrico Baj, degli autori romani riuniti sotto l’etichetta di “Scuola di Piazza del Popolo”, i già citati Schifano, Festa, Mambor, Mauri e Cesare Tacchi, Claudio Cintoli, le opere degli operanti a Milano come Valerio Adami, Lucio Del Pezzo, Piero Manzoni, Emilio Tadini, Antonio Formez, i torinesi Piero Gilardi, Aldo Mondino, Michelangelo Pistoletto, i toscani Roberto Barni, Adolfo Natalini, Gianni Ruffi, Roberto Malquori.


Una lettura che si conclude con la presentazione di un altro fenomeno cruciale nell’evoluzione del linguaggio Pop in Italia a dire quella declinazione che, a partire dal 1966 e almeno fino ai primi anni Settanta utilizza le immagini e gli stilemi della cultura di massa per realizzare un’arte esplicitamente politica, che riflette il nuovo clima sociale diffuso in tutto il mondo alla fine del decennio: in questa sezione si trovano opere di alcuni autori presenti in quelle precedenti come Schifano, Angeli, Bertini, ma soprattutto degli esponenti di quella “figurazione critica” – come Giangiacomo Spadari, Paolo Baratella, Fernado De Filippi, Sergio Sarri, Umbrto Mariani, Bruno di Bello o Franco Sarnari – che si rivelano oggi come un’ulteriore, originale contributo alla diffusione del “popism” in ambito internazionale.



Ciò che rende questa mostra un autentico unicum, irripetibile nel panorama espositivo non solo nazionale, è la possibilità di ammirare una serie di sculture nelle straordinarie sale della Villa dei Capolavori, la dimora storica di Luigi Magnani, artefice della Fondazione Magnani Rocca: gli animali in metacrilato di Gino Marotta, le sculture di Pino Pascali, i legni di Mario Ceroli, la “Prima televisione a colori” di Gianni Ruffi dialogano con gli arredi e i dipinti della Fondazione, in un sorprendente confronto tra il mondo classico e la cultura popolare degli anni Sessanta. Anche uno splendido e rarissimo quadro di Domenico Gnoli, grande artista morto giovanissimo, proveniente da un’importante collezione privata, entra in dialogo con i capolavori della pittura antica della Fondazione.


In mostra, accompagnano le opere pittoriche e scultoree alcuni significativi pezzi di design dell’epoca, oltre a rimandi all’editoria e alla discografia, che permettono allo spettatore di immergersi appieno nel clima culturale del tempo, momento cruciale di svecchiamento della cultura italiana in chiave internazionale, al confronto diretto con la nuova cultura di massa, analizzata in quegli stessi anni da grandi intellettuali attivi nel nostro paese come Pier Paolo Pasolini o Umberto Eco. Nel periodo della mostra, il video sul mondo del Piper Club di Roma, vero tempio della musica e del costume giovanile anni Sessanta, completa l’affresco di questo periodo.





Maria Paola Forlani


martedì 27 settembre 2016

LUCREZIA ROMANA

Lucreza Romana
La virtù delle donne da Raffaello a Reni


Si è aperta a Parma nel Complesso Monumentale della Pilotta la mostra Lucrezia Romana. Le virtù delle donne da Raffaello a Reni. L’evento, nato da un’idea di Mario Scalini che ha curato mostra e catalogo con la collaborazione di Emanuela Fiori e Elena Rossoni, è stato promosso dal Polo Museale dell’Emilia Romagna in collaborazione con il Complesso Monumentale della Pilotta, la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per le Province di Parma e Piacenza, il Comune di Parma e la Fondazione CariParma (catalogo SilvanaEditoriale).

Lucrezia di mano di Guido Reni

Non aspesero, ed’ infernale Aletto,
Che tra fiori e tra vezzi inganni apporre,
Ne di spavento armata horrida morte
Può temer d’honestà nutrito il petto.
Ulisse Bentivoglio (Lodi al Signor Guido Reni raccolte dall’imperfetto confuso)
Bologna 1632
Lucrezia primeggia tra le eroine del mondo antico per la sua esemplarità. L’eccezionale umanità della storia e la tragica risoluzione della scabrosa vicenda contengono elementi archetipi di empatica potenza, che la straordinaria capacità creativa degli artisti ha riletto e rappresentato. Soggetto iconografico e letterario, sospeso tra storia e leggenda, la storia della matrona diventa in ogni epoca uno specchio per riflettere, con valutazioni storiche, religiose, ideologiche e morali.
Esempio di virtù domestiche e familiari, inconsapevole ed involontaria ragione degli appetiti altrui, modello di alta dedizione alla Patria ed eroina dei diritti umani di libertà ed autodeterminazione, Lucrezia vibra nelle opere pittoriche, da Cranach a Raffaello, da Parmigianino a Reni, di una fascinazione che attraversa i secoli ed è anche per la contemporaneità un’occasione di riflettere sulla violenza, fisica e morale, contro le donne oggi.

Gli exempla virtutis sono tra i temi laici più interessanti della storia delle arti figurative. Il loro affermarsi in ambito repubblicano, come nelle corti peninsulari italiane, mostra il progressivo recupero delle tematiche relate alla integrità politica e morale in genere, care al mondo romano e non solo. Rappresentazioni di eroi antichi e moderni ricorrono con frequenza nei palazzi pubblici italiani, anche grazie alla letteratura in volgare che, da Dante a Petrarca, pose le basi per raffigurazioni storiche e allegoriche, condensandole in singoli immagini simboliche facilmente riconoscibili.
Tra le figure femminili esemplari è peculiare quella della “Lucrezia Romana”, figlia e moglie nella Roma retta dalla dinastia etrusca dei Tarquini che, non avendo potuto resistere all’oltraggio fisico infertole dal potere, sacrificò pubblicamente la propria vita per offrire ai suoi concittadini la motivazione alla ribellione rispetto alle vessazioni gravissime dei dominatori
.
La mostra, attraverso una galleria di capolavori, da Raffaello ai suoi epigoni, sino a Guido Reni e la sua scuola in senso lato, intende ripercorrere la fortuna del tema, leggendone le varianti letterarie, simboliche e pratiche sia in Italia che Oltralpe. Ridefinire, in questo contesto, quale sia stata la diversa valenza del mito antico, sospeso tra leggenda e storia, può aiutare a chi partecipa a tale ‘evento espositivo’
a rinsaldare la convinzione che estirpare la violenza – anche morale – verso le donne è il primo passo di un recupero morale e civile.
Storia di Lucrezia

Secondo la versione di Livio sulla istituzione della Repubblica, l’ultimo Re di Roma, Tarquinio il Superbo aveva un figlio assolutamente sgradevole, Sesto Tarquinio. Durante l’assedio della città di Ardea, i figli del re assieme ai nobili, per ingannare il tempo si divertivano a vedere ciò che facevano le proprie mogli durante la loro assenza, tornando nascostamente a Roma. Collatino sapeva che nessuna moglie poteva battere la sua Lucrezia in quanto a pacatezza, laboriosità e fedeltà.
Così portò con sé gli altri nobili, tra cui Sesto Tarquinio, a vederla. Sesto Tarquinio ne restò affascinato e fu preso dal desiderio di possederla. Alcuni giorni dopo, all’insaputa dal marito, tornò a Collazia e venne accolto con grande ospitalità.
Ma dopo cena, quando la casa era addormentata, si introdusse nella camera da letto di Lucrezia che, svegliatasi di soprassalto, si trovò aggredita dall’uomo, armato di spada. Provò a respingerlo ma Sesto la minacciò: se ella non avesse acconsentito a soddisfare le sue voglie, l’avrebbe uccisa e accanto le avrebbe messo il corpo mutilato di uno schiavo, sostenendo di averla colta in flagrante adulterio.

A questo punto Lucrezia fu costretta a cedere alle voglie del figlio del re. Appena Sesto ripartì, Lucrezia inviò un messaggio a Roma dal padre e uno ad Ardea dal marito supplicandoli di correre da lei al più presto con un amico fidato perché una grossa sciagura era accaduta. Giunti i suoi cari, in lacrime spiegò l’accaduto e si trafisse con un pugnale che nascondeva nelle vesti.

La storia della virtuosa eroina Lucrezia è presente in letteratura sin dai tempi antichi ed è da sempre narrata da vari autori e declinata in modi diversi. Gli aspetti storici, erotici e morali hanno assunto diverso peso e connotazione. Come figura dai contorni morali Lucrezia si è guadagnata anche nel contesto etico e religioso un posto di riguardo Ciò vale naturalmente anche per le rappresentazioni iconografiche, che appaiono soprattutto in Italia nel Medioevo e nel Rinascimento.
In area germanica, la storia di Lucrezia si diffonde sin dal tardo Medioevo, ancor prima che il fenomeno di sistematica ripresa di modelli antichi operato nel Quattrocento e Cinquecento si concretizzasse. A partire dal primo Cinquecento si incontrano con più frequenza rappresentazioni artistiche che diventano rapidamente sempre più comuni ed amate
. In particolare Lucas Cranach il Vecchio, pittore di corte del principe elettore di Sassonia, si cimentò con impressionante frequenza in questo soggetto, tanto da poter parlare di una vera “febbre di Lucrezia”. La rappresenta con continuità, dalle prime matrone del 1510 fino a poco prima la sua morte, si apprezza lo sviluppo iconografico dalla mezza figura sino alla figura intera, e dalla presentazione della donna abbigliata sino alla nudità totale.

L’antica storia di Lucrezia viene svuotata sino a farla divenire principalmente un simbolo di bellezza erotica.


Maria Paola Forlani