sabato 26 novembre 2016

LA BOTTEGA CADORIN

La bottega

Cadorin
Una dinastia di artisti veneziani


“Un uomo sale gli scalini di un ponte, poi, aspirato da una calle, si fonde nella città. Altri passano, profili d’ombre cinese su uno sfondo che a volte lascia indovinare, inattese, delle sagome di tempio indiano. Una porta si socchiude e lascia apparire un corpo di donna. Al piano alto, un uomo alla finestra osserva, immobile, una piazza deserta.”
-Jean Clair


Vite indissolubilmente intrecciate, nonni, figli, cognati, nipoti, spose e mariti; vite dedicate all’arte in una città che con la sua bellezza ha saputo travolgerli, trasmettendo loro il senso della meraviglia. Architetti, scultori ed ebanisti, pittori, fotografi, restauratori, animatori dei più vivaci salotti artistici e culturali.


A Venezia, l’antica istituzione della bottega, che sembra ormai appartenere al passato, ha profonde radici; sin dal Medioevo artefici, assistenti e apprendisti lavorano insieme all’opera comune, dando vita a quegli opifici dove nascerà l’arte dell’Occidente, l’Ars pingendi come la conosciamo. Il Classicismo, il Romanticismo poi, ridurranno poco a poco il ruolo e comprometteranno l’esistenza stessa delle botteghe; le regole delle Accademie e più tardi la libera ispirazione dell’artista soppianteranno gli antichi mestieri. L’artigiano diventa artista, il genio creatore pretende rimpiazzare le antiche conoscenze dei saperi codificati. L’estetica delle avanguardie si costruirà come reazione alla disciplina della bottega. Tra le due guerre tuttavia, il richiamo all’ordine fu segnato in Europa e negli Stati Uniti da un revival neoclassico e dal ritorno al bel mestiere, che incarneranno il tentativo di ritrovare quel “mestiere perduto” evocato da Lévi-Straus in un celebre saggio.

I Cadorin, provenienti da Pieve di Cadore (come Tiziano) ma già nel XVI secolo trasferiti a Venezia, per tre secoli erano stati una presenza costante nelle vicende d’arte della città lagunare; un protagonismo che pareva essersi interrotto nel 1848 quando venne chiusa l’ultima delle sette botteghe della Serenissima. Fu solo una parentesi: a riprendere la conduzione dell’atelier di famiglia, qualche decennio più tardi e fino al 1925, fu Vincenzo, grande scultore e intagliatore formatosi all’Accademia di Belle Arti e presto a capo di un’impresa che contava oltre 40 maestranze, chiamata a lavorare per i Savoia e per D’Annunzio, per chiese, case e palazzi e partecipe alle esposizioni della Biennale sin dalla sua formazione.

Con Vincenzo e sua moglie Matilde, dalla casa-bottega di fondamenta Briati, ricomincia una storia posta sotto l’egida dell’arte che attraversa altre tre generazioni e tante diverse personalità – i figli Ettore e Guido Cadorin scultore e pittore, l’architetto Brenno del Giudice, il fotografo Augusto Tivoli e la figlia pittrice Livia, i liutai Fiorini – fino a Ida Cadorin in arte Barbarigo e a Zoran Music, uniti dalla vita e dalla passione per la pittura.


Una storia intima e pubblica al tempo stesso, fatta di sentimenti, opere d’arte, avvenimenti storici e vicende culturali nella Venezia tra Otto e Novecento, che viene riannodata con una mostra negli ambienti unici di Palazzo Fortuny a Venezia, a cura di Daniela Ferretti fino al 27 marzo 2017 (catalogo ed. Antiga), seguendo il filo dei ricordi dell’ultima testimone e grande erede di questa dinastia e grazie alle emozioni trasmesse dai suoi racconti.

Ida Barbarigo ha raccolto, circondandosene negli anni, opere e testimonianze storiche della famiglia che sono in realtà uno straordinario patrimonio d’arte e conoscenza.
Oltre 200 di questi lavori sono esposti in quest’occasione nella casa-museo di Mariano Fortuny, vero crocevia di arti, lungamente frequentate in gioventù da Ettore e Guido Cadorin, a rievocare un lessico familiare di cui i visitatori ne vengono eccezionalmente resi partecipi, quasi come amici.


Ecco l’odore dei truccioli del Cirmolo: questa frase ripetuta in famiglia “il talento pare che faccia vento”; i versi della “Mille e una notte” letti in francese dalla mamma Livia Tivoli o il giornale satirico che sbeffeggiava la passione per le belle donne dello zio Ettore, sempre in giro per il mondo – “Il nostro corrispondente a Parigi sulle arti non possiamo trovarlo perché passa giorno e notte a osservare le gambe di Isadora Duncan, l’incorporabile danzatrice”.

Ecco gli amici di papà Guido che “sapeva fare di tutto. Le arti decorative, i mobili, i vetri, i tessuti, i mosaici ma soprattutto la pittura”: da Malipiero a Pirandello, dai pittori veneziani Nono, Ciardi, Favretto e altri fino a Kokoschka. Ecco il nonno di Ida per parte materna. Augusto Tivoli grande fotografo – ma “ i Tivoli non combinano niente” – e la nonna Irene appartiene ai Fiorini, grande famiglia di liutai bolognese tanto che fu il prozio Giuseppe Fiorini a donare, nel 1930, gli strumenti e gli archivi di Stradivarius al museo di Cremona. Ecco infine il viaggio a Parigi con Zoran, la sognata Parigi.


Su questa nuova trama si sono intrecciate altre memorie, prima fra tutte quella di Jean Clair. Accademico di Francia – chiamato a curare questa mostra nata da un’idea di Daniela Ferretti – che ha personalmente conosciuto Guido, Livia e Paolo e ancora Ida e Zoran di cui è stato grande amico, frequentandone le case e gli studi per più di quarant’anni. Sotto la sua magistrale supervisione le opere sono state puntualmente selezionate per documentare una straordinaria epopea artistica.


“ A Venezia siamo in un mondo tutto diverso da Vicenza, pur così vicina. Qui non c’è prospettiva, non c’è punto di fuga che organizzi la costruzione, né la vertigine dello spazio vuoto. Non ci sono neppure fabbriche sapienti alla Serlio, né teatro, né gioco illusionistico. Siamo dietro le quinte di una scena di cui non conosceremo mai la fine dello spettacolo. Scenari piani, non muri in prospettiva. Tutto scorre come le quinte di una scenografia, tutto cola come è di dovere in questo paese liquido, tutto scivola su un piano come scivolano l’uno sull’altro dei fogli sovrapposti. L’uomo appare allo scoperto solo per sottrarsi immediatamente allo sguardo. Nulla è fissato. Spazio labirintico della Serenissima.”
Jean Clair




Maria Paola Forlani




martedì 22 novembre 2016

GIOVANNI DAL PONTE

Giovanni dal Ponte


La Galleria dell’Accademia di Firenze ospita la prima mostra monografica, con circa cinquanta opere, dedicata al pittore Giovanni dal Ponte (1385 – 1437/ 8) – a cura di Angelo Tartuferi e Lorenzo Sbaraglio –  (catalogo Giunti) che viene a colmare una carenza di studi e conoscenza avvertita da tempo nell’ambito degli studi storico artistici.

Finalità principali della mostra sono quelle di favorire una classificazione critica più adeguata di questa forte personalità artistica del primo Quattrocento, che occupò un ruolo non marginale negli sviluppi della pittura fiorentina del primo Rinascimento e di presentarlo al vasto pubblico affinchè ne scopra e apprezzi il linguaggio assai individuale ed al tempo stesso estroso, nonché aggiornato sull’attività dei maggiori artisti operanti nel capoluogo toscano nel primo trentennio del XV secolo: da Gherardo Starnina a Lorenzo Monaco e Lorenzo Ghiberti fino a Masaccio, Masolino e Beato Angelico.



La formazione artistica del pittore si svolse probabilmente in una bottega di tradizione trecentesca, anche se un’influenza fondamentale la esercitò ben presto Gherardo Starnina, che – al suo ritorno dalla Spagna nei primissimi anni del Quattrocento – introdusse a Firenze un’interpretazione esuberante e profonda della pittura tardogotica, risultata decisiva per Giovanni e per la formazione del suo stile.

Giovanni di Marco – ricordato come Giovanni dal Ponte nelle Vite del Vasari per il fatto di essere abitante e aver avuto bottega a Firenze nella parrocchia di Santo Stefano al Ponte – si rivelò subito partecipe del panorama culturale fiorentino agli albori del Quattrocento, caratterizzato, come noto, da una straordinaria vitalità creativa.

L’opera più importante della sua fase più antica giunta fino a noi è il trittico del Museo di San Donnino a Campi Bisanzio, in origine nella chiesa di Sant’Andrea a Brozzi. Il dipinto è stato per lungo tempo riferito a un ipotetico “Maestro dell’Annunciazione di Brozzi”, ma ai giorni nostri si ritiene che esso documenti gli esordi di Giovanni dal Ponte intorno il 1410, con riflessi assai spiccati dell’artista Gherardo Starnina.
Nel corso del terzo decennio del Quattrocento Giovanni di Marco dimostra una crescente attenzione nell’interpretare gli spunti della nascente cultura rinascimentale, in pittura di fonte soprattutto masaccesca, come si può notare nel polittico che aveva al centro la Madonna col Bambino in trono (Fitzwilliam Museum, Cambridge) e ai lati i santi Giovanni e Pietro a sinistra, e a destra i santi Paolo e Francesco d’Assisi (Museo Bandini, Fiesole) e con predella raffigurante la Liberazione di San Pietro, San Tommaso e San Giacomo maggiore, Luca e Giacomo minore, Andrea e Giovanni evangelista, Matteo e Filippo (Uffizi, Firenze).


Dal 1427 circa Giovanni dal Ponte fu in società con il pittore Smeraldo di Giovanni, insieme al quale si specializzò nella fornitura di cassoni dipinti, un genere che incontrava un grandissimo successo nella Firenze di quegli anni. Tra gli esemplari più belli di questa produzione si annovera il fronte di cassone del Museo Civico “Amadeo Lia” di La Spezia. Proveniente da un cassone nunziale, la tavola raffigura quattro episodi dal Teseida, poemetto epico composto verso il 1340 da Giovanni Boccaccio. Vi si racconta di Arcita, che nel combattimento vinto con l’amico Palemone per sposare Emilia si ferisce cadendo da cavallo. Morente, chiama Teseo, duca d’Atene, per pregarlo di acconsentire al matrimonio tra l’amico e l’amata.

Al capezzale di Arcita giungono poi vari personaggi, tra cui Emilia e Palemone che in un primo momento non vogliono esaudire il suo desiderio (libro X).
Nel primo episodio del pannello si notano infatti le loro reazioni concitate. Teseo sembra ispirarsi all’iconografia del Cristo Giudice nel Giudizio Universale, con la mano destra che accoglie i beati e la sinistra che rifiuta i dannati. Morto Arcita, il successivo episodio illustra il suo rogo (libro XI), con i cavalieri che gettano nel fuoco, come narrano nel Teseida, <<militari, armi e gioielli>> (libro XI, XLVIII, 3); seguono il matrimonio tra Emilia e Palemone, celebrato da Teseo, e la festa nunziale (libro XII), con suonatori e balli. Non stupisce, data la funzione nuziale del mobile, il rilievo riservato alla scena del matrimonio: sebbene nella società fiorentina del periodo quest’evento fosse più un patto economico o politico tra famiglie che una questione sentimentale, nella maggior parte dei cassoni di fine XIV – inizi XV secolo è protagonista il tema dell’amore; solo in una fase successiva predomineranno trionfi o battaglie. In questo caso è infatti lasciato ampio spazio, oltre che alla cerimonia, ai festeggiamenti nuziali: nell’ultima scena gli uccellini sullo sfondo sono metafora dell’amore e ben si accordano con la poetica primaverile boccaccesca.
Il grande trittico con l’Incoronazione della Vergine e quattro santi della Galleria dell’Accademia ha beneficiato – come un buon numero di altri dipinti – di un restauro appositamente eseguito per la mostra, recuperando splendidamente i suoi valori disegnativi e pittorici. Il bellissimo tappeto su cui poggiano i sacri personaggi, che era di un colore scuro, è stato rivelato dalla pittura di un verde assai brillante, su cui campeggiano i ricchi racemi dorati. Anche il gradino di base era stato nei secoli completamente ricoperto dalla sporcizia e dalle ripassature pittoriche: grande è stata pertanto la sorpresa di constatare che l’artista aveva dipinto accuratamente anche questa parte, utilizzandola, anzi per offrire dei brani bellissimi di naturalismo pittorico.  In occasione della mostra entrerà definitivamente nelle collezioni del museo un’altra opera di Giovanni dal Ponte, la tenera e luminosa Madonna col Bambino in trono, proveniente dalla chiesa di Badia nel cuore di Firenze, ma conservata per moltissimi anni presso la Certosa del Galluzzo, recuperata anch’essa da un ottimo intervento di restauro. Nella tavola l’artista giunge ad interpretare in maniera assai originale i modi di Masolino, celebre compagno di lavoro di Masaccio.

L’ultima fase dell’attività del pittore è documentata in mostra da una serie di opere datate che testimoniano il raggiungimento di un linguaggio molto personale, caratterizzato da forme ampie e solenni, che sembrano coniugare la grande tradizione trecentesca fiorentina con le forme e i moduli rinascimentali ormai pienamente affermati.

Giovanni dal Ponte fu attivo anche come frescante: riflettono in parte il suo stile i frammenti recuperati nella Cappella del Giudizio del Duomo di Pistoia, mentre intorno al 1430 egli dipinse certamente gli affreschi per la Cappella di San Pietro nella chiesa di Santa Trinita a Firenze, andati in buona parte perduti, e tra il settembre 1434 e l’ottobre dell’anno seguente affrescò le Storie di san Bartolomeo
nella Cappella Scali della stessa chiesa.


Maria Paola Forlani



domenica 20 novembre 2016

Comunicato Stampa

Il giorno 29 novembre era il compleanno di don Franco Patruno.

 Come tradizione, nella chiesa di Santa Maria Nuova (San Biagio), via Aldighieri 40,  si celebrerà, il giorno 29 novembre 2016 alle ore 18, una messa per ricordare non solo don Franco ma con lui don Francesco Forini, due sacerdoti straordinari che tanto hanno dato ai giovani, alla cultura e alla solidarietà.

Condurrà l’omelia il Diacono don Daniele Balboni, celebrerà il rito della Santa Messa don Renzo Foglia

la "passion por Frida"

La Collezione Gelman:

arte messicana del XX secolo
Frida Kahlo
Diego Rivera
Rufino Tamayo
Marìa Izquierdo
David Alfaro Siquieros
Ángel Zàrraga


Un racconto bellissimo, struggente, emozionante quello che si è aperto a Bologna a Palazzo Albergati fino al 26 marzo 2017.
Attraverso l’esposizione delle opere della Collezione Gelman, tra le più importanti raccolte d’arte messicana del XX secolo in cui primeggiano Frida Kahlo e Diego Rivera, è narrata la “Rinascita messicana” (1920-1960) e la storia degli artisti che ne sono protagonisti.


Curata da Gioia Mori, la mostra  “ La collezione Gelman: Arte messicana del XX secolo.
Frida Kahlo, Diego Rivera, Rufino Tamayo, Maria Izquirdo, David Alfaro Siquieros, Angel Zárraga “  (catalogo Skira) è composta da dipinti, fotografie, abiti, gioielli, collages, disegni.

Alla collezione si aggiunge una “chicca” assoluta: per la prima volta sono esposti gli abiti dei più grandi stilisti di fama internazionale che si sono ispirati a Frida Kahlo: Gianfranco Ferrè, Antonio Marras, Valentino sono solo alcuni nomi della moda che hanno voluto partecipare a questa mostra.


Da questa sezione L’identità vestita. Frida Kahlo e la moda nasce una lettura diversa ed affascinante di questa artista “icona dai mille volti e dalle mille suggestioni”.
Se a Elisabetta d’Inghilterra si può riconoscere il primato di aver fatto della propria immagine una chiara rappresentazione di sé e della propria personalità sottolineando con acconciature, trucco e abbigliamento il proprio carattere intransigente e la devozione totale del popolo inglese e a Dio, è però a partire dalla fine del XIX secolo, con la diffusione della stampa, della fotografia e  del cinema, che si assiste alla nascita di molte icone che oggi vengono riproposte ciclicamente sulle passerelle e sulle riviste di moda. Donne che hanno fatto della loro emancipazione uno stile di vita, capaci di promuovere la propria personalità e tradurla in autonomia di linguaggio e originalità espressiva: dalla marchesa Luisa Casati, a Claudia Cahun, passando per Evita Peròn, Diana Vreeland, Anna Piaggi fino ad arrivare alle più contemporanee Madonna e Lady Gaga, solo per citarne alcune. Personalità della cultura del jet set, della politica, che hanno materializzato la propria identità in un’immagine originale e mai ripetitiva, divenendo protagoniste del proprio tempo e del proprio stile, riverberato costantemente attraverso l’arte, la fotografia, la cinematografia e l’editoria.


Frida Kahlo è sicuramente una di queste, una donna che ha saputo tradurre ogni sua imperfezione e menomazione in motivo di forza, un punto di partenza per costruire la propria identità e, soprattutto, per divenire protagonista della cultura messicana.
La vicenda e l’opera di Frida Kahlo si collocano, infatti, in un momento cruciale della storia e della costruzione dell’identità del suo paese e ne fanno una figura che come una sorta di manifesto esistenziale, ne riflette un’autentica rappresentazione. L’artista racchiude in sé quasi tutti i caratteri che plasmano la cultura messicana di quel periodo. Dapprima l’infanzia vissuta nel pieno della lotta armata contro il regime del generale Porfirio Diaz e successivamente l’identità civica alimentata dai circoli comunisti, che attraggono personalità provenienti dalle élite intellettuali e politiche d’oltreoceano. Fondamentali, poi, nella formazione come pittrice, l’esposizione al mondo della fotografia e dell’arte, inizialmente grazie al padre e poi alla condivisione degli interessi del marito Diego Rivera, tra i massimi interpreti di una nuova arte messicana in dialogo con le avanguardie europee.

Il fascino e l’interesse suscitati da Frida Kahlo nel mondo dell’arte e della cultura vanno ricercati, in gran parte, nella sua vicenda umana che diviene, in modo piuttosto singolare, una perfetta metafora di molte battaglie, rivendicazioni e trasformazioni di valori che investono la cultura occidentale nel secolo scorso.

Prima di tutto, e in un momento precoce rispetto alle rivendicazioni del movimento femminista, Frida Kahlo adotta nella propria rappresentazione uno “sguardo femminile”, abbandonando per naturale attitudine il cosiddetto “male glaze”: la posa immobile, l’espressione introspettiva, la rappresentazione cruda del corpo e della sua nudità sono infatti molto lontani dall’atteggiamento seduttivo delle donne raffigurate da gran parte dei pittori occidentali. A partire dalla ridefinizione dell’identità di genere, che Frida rappresenta pienamente in un’ostentata accettazione dell’ambiguità, il cui simbolo divergono i “baffi da Zapata”, che mescola ad aspetti femminili come il mai nascosto desiderio di maternità, drammaticamente negato dall’incidente subito all’età di diciotto anni.

L’immagine, il modo di porsi, di acconciarsi e anche di vestire diventa per Frida Kahlo un vero e proprio linguaggio, parola non scritta e non pronunciata, che prende forma nei tessuti, nei colori, nei decori e nei ricami, e che si fa discorso completo solo attraverso il volto dell’artista, quasi sempre presente nei suoi quadri con tutte le sue imperfezioni (il sopracciglio pesante e i baffi) che diventano in lei rappresentazione della propria identità e autonomia, e che danno vita a un nuovo concetto di bellezza.

Edna Woolman Chase e Diana Vreelandd – storiche direttrivi dell’edizione americana di “Vogue” – furono tra le prime a riflettere sul discorso politico trasmesso da Frida Kahlo e a interpretarlo in termini sia di moda sia sociali sulle pagine della loro rivista.
L’Europa e Parigi, in particolare, diventano la seconda terra di conquista della
Señora Diego Rivera, che qui arriva nel 1919 per la mostra “Mexique”, organizzata da André Breton, suscitando immediatamente interesse e curiosità nei circoli culturali parigini, tanto da stimolare Elsa Schiaparelli a disegnare un abito-omaggio chiamato “robe Madame Ribera”.


Dagli anni quaranta in poi, Frida Kalho diventa e incarna sempre più la perfetta rappresentazione del Messico che si avvia a sancire la propria emancipazione di una storia millenaria di violenze e depauperamento culturale e identitario, trasformandosi nel tempo da icona di riferimento delle élite intellettuali a icona globale che investe tutte le espressioni della produzione culturale moderna e contemporanea: dalle arti visive al cinema, dalla musica alla fotografia.

Come illustrano attraverso il lavoro e le collezioni di molti designer, la “passion por Frida” è stata negli anni una fonte inesauribile d’ispirazione, tra citazioni e rimandi, che hanno reso la Kahlo una vera e propria icona popolare. E volendo osservare più complessivamente la trasformazione della moda a cavallo tra il XX e il XXI secolo non è difficile comprenderne le ragioni.

E, nonostante l’iper-esposizione, l’artista continua tuttora a essere punto di riferimento di stilisti e marchi come, nel 2015, per Alessandro Michele, designer di Gucci, che collabora con Madonna per la realizzazione dei costumi per il “Rebel Heart” tour. O infine per Carol Lim e Humberto Leon, designer di Kenzo, autori, per il colosso svedese H&M, di una special edition (2016) che molto deve al lavoro di Frida Kahlo, non solo per l’estetica di alcuni abiti, ma per la natura meticcia dei capi, un mix di culture diverse, dall’Africa, al Giappone, al Sudamerica, che, piace pensare, non sarebbe dispiaciuta all’eclettica “mestizia”.



Maria Paola Forlani