La bottega
Cadorin
Una dinastia di artisti veneziani
“Un uomo
sale gli scalini di un ponte, poi, aspirato da una calle, si fonde nella città.
Altri passano, profili d’ombre cinese su uno sfondo che a volte lascia
indovinare, inattese, delle sagome di tempio indiano. Una porta si socchiude e
lascia apparire un corpo di donna. Al piano alto, un uomo alla finestra
osserva, immobile, una piazza deserta.”
-Jean
Clair
Vite
indissolubilmente intrecciate, nonni, figli, cognati, nipoti, spose e mariti;
vite dedicate all’arte in una città che con la sua bellezza ha saputo
travolgerli, trasmettendo loro il senso della meraviglia. Architetti, scultori
ed ebanisti, pittori, fotografi, restauratori, animatori dei più vivaci salotti
artistici e culturali.
A
Venezia, l’antica istituzione della bottega, che sembra ormai appartenere al
passato, ha profonde radici; sin dal Medioevo artefici, assistenti e
apprendisti lavorano insieme all’opera comune, dando vita a quegli opifici dove
nascerà l’arte dell’Occidente, l’Ars pingendi
come la conosciamo. Il Classicismo, il Romanticismo poi, ridurranno poco a
poco il ruolo e comprometteranno l’esistenza stessa delle botteghe; le regole
delle Accademie e più tardi la libera ispirazione dell’artista soppianteranno
gli antichi mestieri. L’artigiano diventa artista, il genio creatore pretende
rimpiazzare le antiche conoscenze dei saperi codificati. L’estetica delle
avanguardie si costruirà come reazione alla disciplina della bottega. Tra le
due guerre tuttavia, il richiamo
all’ordine fu segnato in Europa e negli Stati Uniti da un revival
neoclassico e dal ritorno al bel
mestiere, che incarneranno il tentativo di ritrovare quel “mestiere
perduto” evocato da Lévi-Straus in un celebre saggio.
I
Cadorin, provenienti da Pieve di Cadore (come Tiziano) ma già nel XVI secolo
trasferiti a Venezia, per tre secoli erano stati una presenza costante nelle
vicende d’arte della città lagunare; un protagonismo che pareva essersi
interrotto nel 1848 quando venne chiusa l’ultima delle sette botteghe della
Serenissima. Fu solo una parentesi: a riprendere la conduzione dell’atelier di
famiglia, qualche decennio più tardi e fino al 1925, fu Vincenzo, grande
scultore e intagliatore formatosi all’Accademia di Belle Arti e presto a capo
di un’impresa che contava oltre 40 maestranze, chiamata a lavorare per i Savoia
e per D’Annunzio, per chiese, case e palazzi e partecipe alle esposizioni della
Biennale sin dalla sua formazione.
Con
Vincenzo e sua moglie Matilde, dalla casa-bottega di fondamenta Briati,
ricomincia una storia posta sotto l’egida dell’arte che attraversa altre tre
generazioni e tante diverse personalità – i figli Ettore e Guido Cadorin
scultore e pittore, l’architetto Brenno del Giudice, il fotografo Augusto
Tivoli e la figlia pittrice Livia, i liutai Fiorini – fino a Ida Cadorin in
arte Barbarigo e a Zoran Music, uniti dalla vita e dalla passione per la
pittura.
Una
storia intima e pubblica al tempo stesso, fatta di sentimenti, opere d’arte,
avvenimenti storici e vicende culturali nella Venezia tra Otto e Novecento, che
viene riannodata con una mostra negli ambienti unici di Palazzo Fortuny a
Venezia, a cura di Daniela Ferretti fino al 27 marzo 2017 (catalogo ed. Antiga),
seguendo il filo dei ricordi dell’ultima testimone e grande erede di questa dinastia
e grazie alle emozioni trasmesse dai suoi racconti.
Ida
Barbarigo ha raccolto, circondandosene negli anni, opere e testimonianze
storiche della famiglia che sono in realtà uno straordinario patrimonio d’arte
e conoscenza.
Oltre
200 di questi lavori sono esposti in quest’occasione nella casa-museo di
Mariano Fortuny, vero crocevia di arti, lungamente frequentate in gioventù da
Ettore e Guido Cadorin, a rievocare un lessico familiare di cui i visitatori ne
vengono eccezionalmente resi partecipi, quasi come amici.
Ecco
l’odore dei truccioli del Cirmolo: questa frase ripetuta in famiglia “il talento pare che faccia vento”; i
versi della “Mille e una notte” letti
in francese dalla mamma Livia Tivoli o il giornale satirico che sbeffeggiava la
passione per le belle donne dello zio Ettore, sempre in giro per il mondo – “Il nostro corrispondente a Parigi sulle arti
non possiamo trovarlo perché passa giorno e notte a osservare le gambe di
Isadora Duncan, l’incorporabile danzatrice”.
Ecco gli amici di papà Guido che “sapeva fare di tutto. Le arti decorative, i mobili, i vetri, i tessuti, i mosaici ma soprattutto la pittura”: da Malipiero a Pirandello, dai pittori veneziani Nono, Ciardi, Favretto e altri fino a Kokoschka. Ecco il nonno di Ida per parte materna. Augusto Tivoli grande fotografo – ma “ i Tivoli non combinano niente” – e la nonna Irene appartiene ai Fiorini, grande famiglia di liutai bolognese tanto che fu il prozio Giuseppe Fiorini a donare, nel 1930, gli strumenti e gli archivi di Stradivarius al museo di Cremona. Ecco infine il viaggio a Parigi con Zoran, la sognata Parigi.
Su
questa nuova trama si sono intrecciate altre memorie, prima fra tutte quella di
Jean Clair. Accademico di Francia – chiamato a curare questa mostra nata da
un’idea di Daniela Ferretti – che ha personalmente conosciuto Guido, Livia e
Paolo e ancora Ida e Zoran di cui è stato grande amico, frequentandone le case
e gli studi per più di quarant’anni. Sotto la sua magistrale supervisione le
opere sono state puntualmente selezionate per documentare una straordinaria
epopea artistica.
“ A
Venezia siamo in un mondo tutto diverso da Vicenza, pur così vicina. Qui non
c’è prospettiva, non c’è punto di fuga che organizzi la costruzione, né la
vertigine dello spazio vuoto. Non ci sono neppure fabbriche sapienti alla Serlio, né teatro, né gioco illusionistico.
Siamo dietro le quinte di una scena di cui non conosceremo mai la fine dello
spettacolo. Scenari piani, non muri in prospettiva. Tutto scorre come le quinte
di una scenografia, tutto cola come è di dovere in questo paese liquido, tutto
scivola su un piano come scivolano l’uno sull’altro dei fogli sovrapposti.
L’uomo appare allo scoperto solo per sottrarsi immediatamente allo sguardo.
Nulla è fissato. Spazio labirintico della Serenissima.”
Jean
Clair
Maria
Paola Forlani
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