Intervista
di Franco Patruno a Folco Quilici per l’Osservatore Romano nell’ottobre 2001
"NEI
VIAGGI ATTRAVERSO GLI OCEANI HO INCONTRATO IL MARE DELLA STORIA"
Folco
Quilici ha lo stesso sorriso di quando lo conobbi, nei primi anni Ottanta,
durante le riprese di "La Grande Epoque". Mi si conferma
un'impressione: gli occhi hanno la vivacità curiosa di sempre ed il sorriso li
accompagna in una sorta di viaggio della parola che sa descrivere compiutamente
l'inesausto pellegrinaggio della vita. Sembra che il regista e letterato
ferrarese riattualizzi ogni volta il racconto che sta alla base di un'avventura
che non può essere preventivamente sceneggiata: è l'esperienza della scoperta
in diretta che crea la propria sceneggiatura.
Mi
introduco definendo film le sue opere
e non solamente "documentari". "Ho letto l'introduzione di
Tullio Kezich all'ampia documentazione di Ilaria Caputi nel recente "Il
cinema di Folco Quilici" e concordo sul fatto che le sue opere, appunto,
non si possono semplicemente definire meri documenti etnografici o
antropologici; c'è sempre una struttura narrativa, un percorso di vite, e
tracce d'esistenza come in un romanzo nato direttamente dal viaggio e
dall'esperienza cocreta che sta facendo". Interviene prontamente: "In
effetti, la mia curiosità di viaggiare e riprendere storie che le persone ed il
luogo di volta in volta mi presentano, mi affascina sempre in modo nuovo. Non
ho trovato mai niente di scontato: è la vita che mi viene incontro in quelli
che, da antica retorica, chiamiamo paesi lontani: una storia, tante
storie."
Gli sottopongo una mia personale lettura di
alcuni tra i tanti film nati dai viaggi; la constatazione, cioè, che, in
'Oceano' o in 'Ti-Koyo' e il suo pescecane' è sempre la persona umana che è al
centro e che determina l'ambiente e il suo fascino. "E' vero, mi risponde
con convinzione. Se durante le riprese, l'acqua, i monti e lo splendore della
natura mi invitano a percorrere i loro itinerari, ho sempre l'avvertenza che
siano forma dell'uomo. Mi spiego meglio: c'è un'interazione, una comunione,
spesso raggiunta in apparenti e paradossali conflitti. Ma è sempre l'uomo che
crea il suo mondo." "E che può anche distruggerlo" aggiungo
subitaneamente. "Certo, non solo può ma spesso effettivamente li
distrugge. Ho sempre pensato, anche nelle situazioni che amiamo chiamare
incontaminate, che tutto potrebbe essere sconvolto. Come di fatto è avvenuto in
diverse tragedie ambientali. Ma, ripeto, la persona umana è sempre al centro di
questo micro o macro universo."
Nell'utilizzare questa terminologia, non
dimentico che Quilici ha avuto la gioia di avere un grande storico degli
"Annales" come "maestro ed amico", Fernand Braudel.
"Nel mio libro 'L'avventura e la scoperta' narro del primo incontro con
lui a Parigi, nella sede della Maison des Sciences de l'Homme. In
quell'incontro osai fare una proposta a proposito del progetto di
'Mediterraneo'. Si potrebbe, dissi, prendere un barcone, un peschereccio,
ripercorrere questi itinerari e ricostruire il modo in cui gli uomini di allora
si orientavano, prima dell'ottavo secolo. Non avrei mai immaginato la risposta
entusiastica di Braudel: 'Ha proprio ragione! Perché la storia è
fantasia!".
Guardando l'immensa filmografia e l'intensa
produzione letteraria, confesso a Quilici che non saprei più su qual
particolare o quale "avventura" avrei potuto trovare uno spunto per
il colloquio. Ma è lo stesso regista che, con naturalezza, favorisce agganci:
"Ho fatto un sogno strano: mi immaginavo di andare via dall'Oceano, tra il
sentimento dell'angoscia del lasciare un orizzonte ormai legato alla mia pelle
e l'entusiasmo di riprendere un cammino scoprendo nuovi ed inattesi mondi. Ma
fu un sogno salutare. Il mutamento di interessi, dal mare verso l'entroterra,
mi di diede la possibilità di incontrare un mare ancora più sconfinato: il mare
della storia." Rimango colpito dall'apertura di Quilici e dalla sua
curiosità di varcare i confini tra cosmo ed antropologia." "Allora è
la storia del paesaggio umano, chiedo, che l'interpella; con le sue radici, il
presente ed il futuro che si appressa…". "Indubbiamente. Le epoche,
le culture, un'immensa scenografia umana nella quale le culture scorrono, si
muovono, interagiscono, creano un connubbio di gioia e sofferenza insieme. Come
interagiscono, cioè, e stabiliscono rapporti che vanno interptetati, scoperti e
riscoperti. Ed anche le ideologie, le vicende politiche ed economiche, le loro
stratificazioni…tutto questo, mi accorgo, era implicito nel sogno, ma che
l'amicizia confidente di Braudel ha portato in superficie."
"Credo,
Quilici, che da questa accentuazione che amo chiamare vocazionale, sia presente
un forte recupero anche della dimensione umanistica respirata in
famiglia." Prima della conversazione, dissi al regista che avevo
conosciuto ampiamente l'opera pittorica e grafica della sua mamma, Mimì Quilici
Buzzacchi, e mi aveva interessato particolarmente il rapporto con la Scuola
Romana…". "Sono grato alla mia famiglia; è stata alla base della mia
formazione e della curiosità sia per le avventure dei viaggi che per
l'interiorizzazione dell'esperienza culturale. Forse, senza avvertenza esplicita,
ora penso a quanto debbo a mia madre. Devo dire, però, che nel lavoro, cioè
mentre dipingeva o creava incisioni e xilografie, esigeva da me e dai mie
fratelli un solenne silenzio. Rimanevo affascinato dalla trasformazione di un
semplice supporto in una cosa altra: forme, colori, storie sulla carta o sulla
tela. In fondo, anche quello era un narrare, un modificare, un creare; quindi
un viaggio, un'avventura."
Ricordo che
le sue rivisitazioni del Barocco e dell'Art Nuveau hanno affascinato non solo
il sottoscritto, ma pure fini storici dell'arte e, al tempo stesso, antroplogi
e studiosi di etnografia. Sottolineo, soprattutto, la magia del montaggio.
"Si, il montaggio! Ricordo le lezioni al Centro Sperimentale, come quelle
di Renato May. Imparai che con il montaggio si può ricostruire tutto,
ricapitolarlo, sintetizzarlo…" "Interpretarlo, aggiungo io, perché
ogni montaggio è una forma di appressamento alla realtà".
"Indubbiamente, anche se, pur figlio di una generazione post neo realista,
non sono mai stato tentato di ricreare o riattualizzare un fenomeno che ha una
sua specifica collocazione storica. Non sono mai stato, d'altronde, neppure un
surreale. Anche se son sempre stato affascinato da Lo sceicco Bianco di
Fellini, determinante per altri aspetti del mio mondo, è stata la continua
rivisitazione di Flaherty che mi ha liberato lo sguardo. Mi ha aiutato molto la
fotografia, che è mi è cara soprattutto se scandita in modo di sequenza. Da
Flaherty ho afferrato che contemplazione e montaggio non si contappongono. Ho sempre
avvertito, però, il pericolo dell'oleografia, dalla quale, mi sembra, sono
sempre stato lontano."
"E' la
vita, domando, che l'aiuta a definire le modalità di un film o segue un modello
preventivo 'di ferro'?". "Quando mi immergo, leggendo e visitando
tutto ciò che è possibile, in un mondo particolare (come, per esempio, il
Barocco), cerco di intravedere quali inquadrature e quale montaggio sia
funzionale a quel tipo di sensibilità, di cultura e di esperienza storica. Ciò
che mi coinvolge e che continuamente mi affascina è l'aspetto visivo del reale:
per La Grande Epoque ho cercato di rendere la festosità ad arazzo dello stile
attraverso una sorta di caleidoscopio multicolore, per meglio far rivivere non
solo alcuni particolari di quel mondo e di quelle atmosfere, ma l'anima
danzante ed il movimento incessante, senza soluzione di continuità." Trovo
significativo il rapporto tra "Festa Barocca", anche se sacrificato
in moviola, e "La Grande Epoque" per questo aspetto festoso che però
sembra alludere, nel massimo del suo splendore, alla sua crisi, cioè al
passaggio ad un mondo di segni decisamente più austero.
"E' l'opera d'arte che può raccontare
meglio di altre documentazioni lo spirito di un'epoca, perché svela un
paesaggio trasformato dall'uomo: miserie e grandezze, esuberanza della
fantasia, ricchezza esorbitante dell'elemento decorativo, gusto del
meraviglioso… Mi interessa cogliere le costanti universali della mente
creativa. Il Barocco è indubbiamente una categoria dello spirito, al di là
delle singole proposizioni."
"Allora
è sempre l'uomo che l'interessa, con l'intersecarsi dei rapporti tra scienza ed
arte, ricerca filosofica e manifestazione artistica." "Indubbiamente.
Il senso della 'maraviglia', devo averlo detto in alcune interviste, accumuna il
viaggio dell'intelligenza e della fantasia attraverso i secoli e delle diverse
ricerche disciplinari. Ma mi interessa anche la concretezza storica del
manifestarsi della 'maraviglia'. Allora mi immergo in un singolo mondo, cerco
di conoscerlo a fondo anche se poi accentuo l'aspetto della percezione visiva
nell'arte. Il debito con mia madre è indubbiamente grande. Non nel senso che,
come può avvenire comunemente oggi, mi portasse a vedere musei, gallerie
ecc…perché questo è stato un percorso che ho seguito in seguito; ma nel senso
dello stupore per la creazione e per la serietà della costruzione della forma.
Con mio fratello, osservavamo attentamente mia madre mentre disegnava o
dipingeva, ma in assoluto silenzio, quello, per altro, che lei stessa pretendeva.
Questa serietà severa mi ha fatto comprendere che non si trattava di un
gioco." La conversazione si fa sempre più interessante e ho l'impressione
che stia nascendo un'amicizia. Non c'è urgenza di domande e risposte perché i
collegamenti sorgono spontanei. Avendo visto "Il rischio e
l'obbedienza" (quattro puntate per Rai 1 per illustrare la storia della
Compagnia di Gesù), inserisco l'argomento che, evidentemente, mi incuriosisce
in modo particolare. Anche Quilici lo affronta con vivacità. "E' stata
un'esperienza nuova ed importante, perché nel 1992 si celebrava in
cinquecentenario della nascita di Sant'Ignazio di Loyola. Collaborai
strettamente con Padre Giovanni Marchesi S.J., redattore della Civiltà
cattolica. Mi appassionò la vicenda biografica straordinaria di Ignazio, come
pure la diffusione della compagnia prima in Europa e poi in Asia e in Sud
America. Se si pensa al periodo storico, c'è qualcosa non solo di stupefacente
nell'intraprendenza verso l'India e la Cina! Si pensi poi ai tentativi di inculturazione
della fede cristiana nel rispetto delle culture locali, quasi a far comprendere
che la fede non mortifica le singole manifestazioni etniche." Annoto che
Ilaria Caputi, nella biografia precedentemente citata, parla di una luce
prettamente spirituale nella scoperta di questi mondi e nell'indagine su San
Francesco Saverio e Matteo Ricci. "Ho un'ammirazione per la formazione ed
il coraggio dei gesuiti, non solo nel creare scuole ed università ad altissimo
livello culturale, ma anche, e soprattutto, per la condivisione con coloro che
vivono emarginati, i più poveri, come nel caso degli indios Guaranì contro la
violenza dei conquistadores, come si può vedere nella parte conclusiva del
film. Purtroppo una puntata non è più rintracciabile e non ne posseggo una
coppia."
Gli chiedo
come è stato il suo rapporto personale durante la lavorazione.
"Emozionante, mi risponde subito, per la serietà che ho riscontrato nella
ricerca e per il totale rispetto della mia attività cinematografica. Un
particolare bello ed anche, almeno per me, insolito: quando feci vedere il film
terminato al Padre Generale, mi disse che gli era molto piaciuto. Ma poi mi
fece una domanda che potrebbe apparire imbarazzante: mi chiese cosa ne pensavo
dei gesuiti che avevo incontrato e conosciuto. Con sincerità gli espressi la
mia ammirazione, facendo notare, però, che tutti avevano una spiccata
individualità e che era complesso trovarne uno uguale all'altro. Il Padre
Generale sorrise compiaciuto. Mi accorsi che questa autonomia di giudizio nasceva
proprio dai caratteri della loro formazione spirituale. " Aggiungo che se
i gesuiti non avessero avuto questa formazione sarebbero da tempo estinti, come
molti stati avrebbero voluto e che la spiritualità di Ignazio è fortemente
caratterizzata non in senso individualistico ma capace di aiutare i singoli ad
affrontare anche da soli situazioni limite.
Mi accorgo
che è trascorsa più di un'ora e che Quilici ha un impegno in quanto convocato
per la giuria del Premio Estense. Mentre ci salutiamo calorosamente, mi
consiglia di leggermi l'ultimo suo libro, "L'abisso di Hatutu". Avrei
trovato, lo dice con un cordiale sorriso, una preveggenza della tragedia che in
questi giorni ha colpito gli Stati Uniti. Lo apro appena mi arriva fresco
fresco dalla casa editrice.
Le prime
righe del capitolo ("Tra il golfo di Biscaglia e l'Atlantico-Giugno
1943") così narrano: "Erano finalmente giunti alla prova decisiva. Se
avesse funzionato gli americani avrebbero avuto una brutta sorpresa: una loro
nave sarebbe affondata nel porto di New York. Il lampo accecante di
un'esplosione a Manhattan".
Nei prossimi giorni lo leggerò compiutamente
per verificare se, nella conoscenza del nostro passato, Quilici non abbia
intuito altre cose del nostro futuro.
1/2-10-2001
Franco
Patruno
Nessun commento:
Posta un commento