Renato Guttuso.
L’arte rivoluzionaria
nel cinquecentenario del ‘68
“Come potrò io, pittore
del
XX secolo, pensare di essere
in una tradizione, di
misurarmi con gli artisti
del passato… Cosa dovremo
fare perché la modernità…
sia degna di diventare
antica”?.
Renato
Guttuso, 1984
La GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e
Contemporanea di Torino dedica una importante e mirata esposizione (aperta
fino al 24 giugno) alla pittura di Renato
Guttuso (Bagheria, Palermo 1911 – Roma 1987), presenza di forte rilievo
nella storia dell’arte italiana del Novecento e figura nodale nel dibattito
concernente i rapporti tra arte e società che, nel secondo dopoguerra, ha
significativamente accompagnato un ampio tratto del suo cammino.
Curata da Pier Giovanni Castagnoli, con la
collaborazione degli Archivi Guttuso, la
mostra raccoglie e presenta circa 60 opere provenienti da importanti musei e
collezioni pubbliche e private europee. Primeggiano alcune delle più
significative tele di soggetto politico e civile dipinte dall’artista lungo un
arco di tempo che corre dalla fine degli anni Trenta alla metà degli anni
Settanta.
“Se io
potessi scegliere un momento nella storia e un mestiere, sceglierei questo
tempo e il mestiere di pittore” scriveva Guttuso nel numero de Il Selvaggio a lui dedicato.
Era il 1939
e quel tempo era quello del fascismo e della guerra imminente. Quanto al
mestiere, era ancora una scelta ben poco remunerativa, al limite della povertà,
e la sua pittura era quasi ignorata dalla critica ufficiale, e dalla committenza.
Acutamente
avrebbe scritto Leonardo Sciascia in un testo per una mostra del 1974: “Guttuso
è tanto più forte quanto più le condizioni sono difficili, i tempi pericolosi…
Il suo essere pittore è una passione, come una febbre…”. E di furore e passione,
di totale inerenza alla storia e alle sue contraddizioni, sono fatte la vita di
Guttuso e la sua arte, che con la vita spesso si identifica al punto da non
esserne distinguibile, a volte neppure a lui stesso. Una incandescenza emotiva,
psicologica, espressiva e ideologica che ha prodotto un corpus artistico denso,
diversificato e stratificato, che ha fatto Renato Guttuso attore, testimone,
interprete del nostro tempo. La presenza di Guttuso nella storia e nell’arte
del nostro paese non è quindi eliminabile, nel bene e nel male, quale che sia
il giudizio estetico che se ne voglia dare, quale ne sia stato dato, tenendo
tuttavia presente che tale presenza – per alcuni incombenza – si è svolta e ha
assunto significato dal suo essere infine quella di un artista, di un grande
pittore. Già lo scriveva Carlo Levi nel 1969: “… tutta la politica di Guttuso è
pittura, ritorna alla pittura: ne è sostanza e sostegno”.
Quelle che
ad alcuni apparvero battaglie ideologiche alle quali l’arte veniva sacrificata,
per cecità o peggio opportunismo, in Guttuso hanno sempre fatto tutt’uno con
quella sua “idea di pittura” nella quale moralità e comunicazione, rigore di
stile e intensità emotiva erano inscindibili e necessari. Questo Guttuso
intendeva quando rifiutava il termine di “neorealismo” per i suoi quadri del
dopoguerra e rivendicava per essi quello di “realismo” sulla scia di Rembrandt,
Delacroix, Courbet, il quale “amava le cose per quelle che sono…”. Le cose, gli
uomini, i fatti e i gesti. Questi in fondo saranno i soggetti di Guttuso per
tutta la vita, pur nella diversità dei momenti e degli stati d’animo. In tal
senso Guttuso poteva, con lecito orgoglio, scrivere: “Ringrazio me stesso per
aver avuto il coraggio di fare alcuni brutti quadri”. Ma non soltanto brutti quadri
ha avuto il coraggio di scegliere le strade meno facili e meno consolatorie fin
da ragazzo, quando tra i pittori in auge sceglieva i meno ossequienti all’arte
ufficiale di “Novecento”, De Chirico, Morandi, Carrà, quando, a Roma, nel cuore
stesso dell’ufficialità della Quadriennale, si avvicina ai ribelli della Scuola
romana, a Mafai, a Scipione.
Nell’ottobre
del 1967, cinquantesimo anniversario della rivoluzione d’ottobre, Renato
Guttuso scriveva su Rinascita, rivista
politico-culturale del Partito Comunista Italiano, un articolo intitolato Avanguardie e Rivoluzione, nel quale il
pittore riconosceva alla rivoluzione il titolo inconfondibile e meritorio di
essere stata il fondamento di una nuova cultura, con la quale profondamente
sentiva di identificarsi e che lo induceva a chiudere il suo scritto con
l’esplicita professione di fede: “L’arte
è umanesimo e il socialismo è umanesimo”.
Guttuso era
stato, a partire dagli anni della fronda antifascista e tanto più nel secondo
dopoguerra, un artista che, come pochi altri in Italia, si era dedicato con
perseverante dedizione e ferma convinzione a ricercare una saldatura tra
impegno politico e sociale ed esperienza creativa, nella persuasione che
l’arte, nel suo caso la pittura, possa e debba svolgere una funzione civile e
sia costitutivamente dotata di una valenza profondamente morale.
A poco più
di cinquant’anni dalla pubblicazione dell’articolo e nella ricorrenza del
cinquantenario del ’68, la GAM di Torino si propone di riconsiderare il
rapporto tra politica e cultura, attraverso una mostra dedicata all’esperienza
dell’artista siciliano, raccogliendo alcune delle sue opere maggiori di
soggetto politico e civile.
A partire da
un dipinto quale Fucilazione in campagna del
1938, ispirato alla fucilazione di Federico Garcia Lorca, che a buon diritto
può essere assunto a incunabolo di una lunga e ininterrotta visitazione del
tema delle lotte per la libertà, per giungere alla condanna della violenza
nazista, nei disegni urlati e urticanti del
Got mit uns (1944) e successivamente, dopo i
giorni tragici della guerra e della tirannia, alle intonazioni di una
reinventata epica popolare risuonanti in opere nuove per stile e sentimento
come: Marsigliese contadina (1947) o Lotta
di minatori francesi (1948).
Un grande, ininterrotto racconto che approda,
negli anni Sessanta a risultati di partecipe testimonianza militante, come in Vietnam (1965)
o a espressioni di partecipe affettuosa vicinanza, come avviene, nel richiamo
alle giornate del maggio parigino, con Giovani
innamorati (1972) e in cui si condensa la storia delle lotte e delle
speranze di un popolo e le ragioni della militanza di un uomo e di un artista.
Nel secondo
dopoguerra negli ambienti della cultura di sinistra si discuteva tra
avanguardia formalista e realismo figurativo. Ci si chiedeva quale fosse più
rivoluzionaria e quale più reazionaria. Oggi paradossalmente, nell’era della
realtà aumentata e della virtualità, la pittura di Guttuso può sembrarci tanto
reale e materica quanto il mondo che stiamo perdendo.
A fronte
dell’antologia di tali dipinti e in dialogo con essi, la mostra offre anche un
repertorio variegato di opere di differente soggetto: ritratti e autoritratti,
paesaggi, nature morte, nudi, vedute di interno, scene di conversazione.
Quadri
tutti coevi ai tempi di esecuzione dei dipinti di ispirazione politica e
sociale, selezionati con il proposito di offrire indiscutibile prova dei
traguardi di alta qualità formale conquistati da Guttuso nell’esercizio di una
pittura che – afferma il curatore Pier Giovanni Castagnoli – per comodità,
potremmo chiamare pura, con
l’intendimento di saggiare, attraverso il confronto dei diversi orizzonti
immaginativi, l’intensità dei risultati raggiunti su entrambi i versanti
ideativi su cui si è esercitato il suo impegno di pittore e poter consegnare
infine all’esposizione, pur nel primato assegnato al cardine tematico su cui la
mostra si incerniera, un profilo ampiamente rappresentativo della ricchezza dei
registri espressivi presenti nel ricchissimo catalogo della sua opera e della
poliedrica versatilità del suo estro creativo.
I
riferimenti a Michelangelo, a Raffaello, a Caravaggio, a Botticelli, la
trasformazione in senso allegorico e sapienziale delle sue ultime grandi tele
ne sono la prova e il frutto. Dai Funerali
di Togliatti del 1972 all’estremo Il
bosco d’amore del 1984 non ci sono più fratture, scarti, contraddizioni, ma
soltanto un occhio lucido e una composta malinconia.
Maria Paola
Forlani
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