giovedì 31 ottobre 2019

HILMA AF KLINT


Hilma af Klint

Un’artista da scoprire
Hilma af Klint (1862 – 1944) è stata una pittrice svedese e pioniera nell’ambito dell’astrattismo pittorico.
Radicale anticipatrice di un’arte che si allontana dalla realtà visibile, sviluppò già dal 1906 un linguaggio astratto. Le sue opere non sono però mere astrazioni di forme e colori, piuttosto la rappresentazione di ciò che è invisibile.


Chi ha realizzato il primo dipinto astratto? La risposta ci può aiutare a comprendere meglio quell’anomalia nella storia dell’arte che chiamano astrazione. Basta considerare la radicale riscrittura delle sue origini in corso da alcuni anni, in cui uno degli eventi più felici è la scoperta dell’opera e della figura della pittrice Hilma af Klint.

Con una produzione di oltre 1200 dipinti e 125 taccuini, c’è da sorprendersi che sia rimasta sconosciuta così a lungo. La colpa è anche dell’artista che, prima di scomparire a 81 anni, vietò l’esposizione pubblica delle sue opere per vent’anni, un lasso di tempo sufficiente, questa la sua stima, a un’evoluzione della sensibilità collettiva. Peccò di ottimismo, e i suoi dipinti restarono stipati nei magazzini del Moderna Museet di Stoccolma fino al 1986 quando furono esposti in The Spiritual in Art. Abstract Painting 1890-1985 (Los Angeles Country Museum of Art) e in modo più consistente nel 2005 in 3 x Abstraction: New Methods of Drawing by Hilma af Klint, Emma Kunz, and Agnes Martin (The Drawing Center, New York).

Solo allora ci si rese conto di trovarsi di fronte ad autentici capolavori, e che la nascita dell’astrattismo, tradizionalmente consegnato da Dio nelle mani di Kandinskij, in realtà aveva molti padri e madri. Come il drammaturgo svedese August Strinberg, il musicista estone Mikalojus Konstantinas Čiurlionis, il ceco František, il russo ascetico Kszimir Malevič, come Hilma. Tutti giunti da vie diverse alla medesima soluzione dell’enigma.

Buffo pensare alla nota che Kandinskij scrisse al suo gallerista di New York Jerome Neumann nel 1935, per rassicurarlo, ancora una volta, che era stato proprio lui ad aver dipinto per primo (tra il 1910 e il 1911) immagini astratte: <<In effetti è la prima immagine astratta del mondo, perché allora non un singolo pittore dipingeva in stile astratto>>.
E ormai sappiamo che non era così.
Hilma af Klint, per le sue sperimentazioni, non rinchiuse però nei limiti dettati dai formati standard, come i suoi colleghi, ma utilizzò tele di grandissime dimensioni, anche 2,40 x 3,20 m, che dipingeva fissandole a terra, come avrebbe fatto Pollock, per capirci. Misure utilizzate dall’espressionismo astratto americano degli anni Cinquanta e Sessanta e che fanno ancora più effetto se rapportate alla statura di Hilma, di poco superiore al metro e cinquanta, e che trasformano oggi una retrospettiva sul suo lavoro in una mostra di arte contemporanea. Opere che lei aveva realizzato per la decorazione del Tempio: centonovantatre quadri astratti prodotti in due tranche (1906-1908 e 1912-1915) e commissionati non da un mecenate, ma da un’entità spirituale Amaliel, nome in uso alle isole Faer Øer. Opere destinate a decorare un’architettura a cerchi concentrici, il Tempio, che non verrà mai alla luce e della quale lei stessa ignora il significato.

Nell’eccezione comune astrazione è un astrarre da qualcosa, e questo qualcosa è la natura. Ci si rivolge così a quanto precede l’opera, al mondo fenomemenico, a un sostrato fatto di prati, erba e nuvole, linee d’orizzonte senza le quali il gesto dell’astrazione è impensabile. L’albero si spoglierà progressivamente dei suoi elementi naturalistici, delle foglie e dei rami superflui per arrivare alla sua essenza, all’immagine ontologica dell’albero, all’<<alberità>> (pensiamo a Mondrian ovviamente). Alcuni riconosceranno ancora l’esoscheletro dell’oggetto di partenza, altri vedranno altro che un intrico di linee, un mondo concreto o non-oggettivo.


Per Hilma le tele sono cariche di simbologie: le forme (prima organiche, quindi geometriche), i colori (giallo per l’entità maschile, blu per quella femminile), le lettere (<<u>> per lo spirituale, <<w>> per il materiale), i salti di scala (dall’atomo al cosmo), le polarità (bianco/nero, vuoto/pieno). Tele straordinarie anche nel loro aspetto formale e compositivo, studiate nei minimi dettagli.
Esiste tuttavia anche il processo opposto che alla natura circostante predilige un mondo altro, in cui non vigono le regole della nostra società, una cosmologia affrancata dal centro gravitazionale del pianeta Terra. Questa predilezione per una dimensione invisibile è senza dubbio metafisica ed esoterica, come nel caso della teosofia che conquistò, appunto, Mondrian quanto af Klint. Ma è anche radicata nella ricerca scientifica dell’epoca, preoccupata di rendere visibile l’invisibile con le onde elettromagnetiche, i raggi X, la quarta dimensione, la teoria della relatività, la microbiologia, la radioattività; negli studi sulla percezione dei colori e nell’ottica di Goethe; nel progresso tecnologico, della telegrafia al codice Morse; nella ricerca para-scientifica, tipica della telepatia e di altri tentativi di materializzazione del pensiero. Non a caso molti dei dipinti londinesi, dell’artista, evocano dei generatori di energia.

Hilma ha diciasette anni quando partecipa alla sua prima seduta spiritica, ma ora il gioco le prende letteralmente la mano, e dona finalmente un senso alla sua esistenza. Nel 1896, insieme a quattro donne forma il gruppo De Fem (I Cinque). Hanno preso contatto con “maestri di alto livello” provenienti da un’altra dimensione e raccolgono appunti meticolosi delle sedute spiritiche, tanto da pubblicare il volume di messaggi mistici. (i Grandi Maestri).


Nel 1908 conosce Rudolf Steiner, futuro fondatore della società antroposofica, che concepisce la realtà universale come una manifestazione spirituale in continua evoluzione.
Quando, alla fine, rompendo gli indugi, decide finalmente di condividere con lui il suo lavoro e le scoperte, viene respinta, considerata una mezza pazza. Hilma af Klint ne può trarre solo una conclusione: il suo tempo non è ancora pronto a capirla. Si ritira nell’isola Munsõ, nei luoghi della sua infanzia, dove rimarrà a ripercorrere e scrivere le sue esperienze, cercando di trovare una spiegazione. Alla morte viene sepolta, accanto al padre, nel cimitero navale di Galärvarvskyrkgärden.


M.P.F.

mercoledì 30 ottobre 2019

L'Eterna Musa


L’Eterna Musa
L’universo femminile tra ‘800 e ‘900

Quaranta donne normali, di famiglia o della porta accanto. Mai dive, se non – fosse – tra le mura di casa.
A formare una smagliante e cangiante galleria di personalità, ognuna a suo modo protagonista in una frazione di tempo e in un angolo di spazio.
Di questa galleria di tipi femminili, la Fondazione Matteucci presenta fino al 3 Novembre – (a cura di Giuliano Matteucci) un’affascinante selezione, che muove dal primo Ottocento e approda al Novecento, con affondi internazionali e suggestivi nei due dopoguerra, entrambi forieri di grandi mutamenti. Opere sceltissime, talvolta mai prima esposte, di Fattori e Lega, Induno, Favretto, Casorati e Sironi, tra gli altri.

In questa parata di donne ritratte o idealizzate, nessuno dei modelli prevalenti manca all’appello: l’eterna Eva si presenta di quadro in quadro in condizioni mutevoli di status e umore, angelo della famiglia o sirena ammagliatrice, popolana o borghese, lavoratrice o padrona di casa della buona società, lieta o malinconica, operosa o riflessiva.
In esse si riconosce la filigrana non solo la Musa ispiratrice, ma anche gli infiniti altri prototipi stratificati nell’immaginario culturale dell’Occidente. La purissima Maria Vergine e la peccatrice Maddalena, Lia e Maria simboleggianti la vita attiva con Rachele e Maria allegorie della vita contemplativa, la carnale Venere e la materna Giunone, Salomè la seduttrice e Circe la maga.

Una galleria d’istantanee tratte da un ideale album di famiglia che è andato formandosi nelle stagioni più diverse segretamente carpite, per la facilità con cui l’artista ha conferito al modello una personale dignità, facendone emergere il celato fascino.
Sbaglierebbe chi immaginasse una parata di persone, di figure di solo contorno. Al contrario le donne protagoniste di questa esposizione sono fiere del loro essere, perfettamente consapevoli del loro valore, ricche di una sensualità che, proprio perché non platealmente esibita, cattura sguardo e sentimento.
Una galleria di antidive, nella quale si troverebbe certamente a disagio la determinata femminilità di una Marie Curie o di Coco Chanel, poiché a prevalere è un altro tipo di donna che non ha difficoltà a confermarsi moglie e madre, in quei ruoli, insomma, che nella routine del quotidiano ne nobilitano i sentimenti e lo spirito.
Anche due artisti come Hayez e Boldini, che sul modello della Venere senza veli, carnale e sensuale, messa in posa da Tiziano, Fragonard, Goya o Courbet, hanno costruito gran parte della loro fortuna, figurano qui con opere che non lasciano spazio all’immaginazione. Lo stesso dicasi dei nudi di D’Ancona e Casorati, tanto casti che più non si può.
Ciascuna di loro sollecita la nostra fantasia, parlando di stagioni più o meno felici. Spetta a noi farle rivivere, nella loro trattenuta e schietta espressività, come protagoniste di storie ed esperienze, successi e delusioni, cogliendo nella semplice naturalezza del carattere, degli umori, delle passioni, dei sentimenti quanto d’insondabile è in ogni donna.


M.P.F.

lunedì 28 ottobre 2019

IL RINASCIMENTO DI PORDENONE




Il Rinascimento di

Pordenone




Secondo una voce che godette di un certo credito tra i contemporanei  ”Porsenone” Giovanni Antonio de’Sacchi, questo il suo vero nome – esuberante, sorprendente, eclettico protagonista della stagione artistica della prima metà del Cinquecento, non solo in Friuli e in Veneto ma in un più ampio contesto padano – sarebbe morto avvelenato dal suo eterno rivale, Tiziano, mentre si trovava a Ferrara su richiesta del duca Ercole II, che gli aveva commissionato una serie di cartoni per arazzi.

Di leggenda in realtà si tratta, ma capace di farci percepire da un lato le tensioni e lo spirito di “concorrenza” – per usare un’espressione cara a Vasari – che dovettero caratterizzare il mondo artistico, dell’epoca, dall’altro la fama e il valore già allora riconosciuti al Pordenone, in grado di far ingelosire perfino il sommo Tiziano. Era dunque tempo che, a distanza di oltre trent’anni dall’ultima mostra dedicatagli, si organizzasse una nuova rassegna che permettesse non solo di fare il punto degli studi, ma anche presentare l’artista da un diverso punto di vista: non più egemone in un ambito provinciale, bensì grande tra i grandi del suo tempo.

Curata da Caterina Furlan e Vittorio Sgarbi, con l’organizzazione di Villaggio Globale International, la spettacolare mostra ospitata negli spazi della Galleria d’Arte Moderna/Parco Galvani sarà aperta fino al 2 febbraio 2020, così, il pubblico può ammirare, accanto a quaranta dipinti e disegni dell’artista, quasi altrettante opere spettanti a esponenti di spicco della pittura veneta e padana del XVI secolo: da Giorgione, Sebastiano del Piombo, Lotto, Romanino a Correggio a Dosso Dossi, Savoldo, Moretto, Schiavone, Bassano, Tintoretto e altri ancora.

Fanno parte integrante del percorso espositivo un cospicuo numero di dipinti conservati in Duomo e presso il Museo Civico di Pordenone, dove sono presentati in un rinnovato allestimento, insieme con una selezione di stampe, libri e documenti d’archivio.

È un “viaggio” affascinante quello proposto al visitatore, non privo di sorprese ed emozioni, perché Pordenone, senza rinnegare il suo background veneziano, ha saputo assimilare e rielaborare con assoluta originalità gli stimoli provenienti non solo dalla cultura figurativa centro-italiana e in particolare da Michelangelo e Raffaello, ma anche dal mondo d’oltralpe e dall’ambito padano.
Il risultato è una pittura potente, caratterizzata da un vigoroso plasticismo e ricca di effetti illusionistici, che susciteranno, già all’epoca, una vasta eco non solo a Venezia, ma anche in aerea padana.

Le numerose opere in mostra, comprese imponenti e delicate pale provenienti da chiese e parrocchiali, oltre a scandire il percorso dell’artista (dalla giovanile paletta della sacrestia di Santa Maria della Salute a Venezia, proveniente dal castello di San Salvatore di Collalto, alle fondamentali opere delle chiese di Susegana e Torre di Pordenone, fino alla Madonna e santi della cattedrale di Cremona, su commissione dell’arciprete Giacomo Schizzi) permettono di comprendere appieno il ruolo svolto dal Pordenone nella precoce introduzione in ambito veneto di stilemi provenienti da culture figurative diverse, seguendo lo sviluppo della sua arte. Ma non solo.

Com’è risaputo, egli esercitò un notevole influsso oltre che in Friuli (dominato, dopo la sua morte, dal genero e allievo Pomponio Amalteo), anche su diversi artisti veneziani della generazione successiva, quali Giulio Licino, Tintoretto, Jacopo Bassano e Giovanni Demio. Senza dimenticare che stando a Vasari, egli avrebbe insegnato “il buon modo di dipingere ai Cremonesi”.
Con importanti prestiti concessi dai vari musei italiani e stranieri, la mostra si è dunque posta un obbiettivo che la differenzia dalle precedenti, del 1939 e del 1984, incentrate sul Pordenone e sull’ambiente friulano mostrare, attraverso le sue opere più significative, alcune delle quali mai esposte prima in Friuli, un artista in dialogo con alcuni tra i più importanti esponenti nella cultura figurativa del suo tempo.

Ecco allora la possibilità di confrontare nientemeno che la Nuda di Giorgione – prestito eccezionale delle Gallerie dell’Accademia di Venezia – con la Madonna della Loggia dei Civici Musei di Udine, frammentaria superba opera del Pordenone su cui s’incentra il dibattito dei suoi contatti con Roma e sul rapporto con il Maestro di Castelfranco, oltre che testimonianza dell’attività del Pordenone frescante; ecco ancora l’ Eterno Padre del de’ Sacchis – lunetta superiore di un’Annunciazione già nella chiesa udinese di San Pietro Martire  con il Padre Eterno benedicente del Boccaccino (prestato dal Museo “Ala Ponzone di Cremona) databile tra il 1525 e il 1530 e dunque spettante a un momento in cui i punti di riferimento del cremonese sono Tiziano e per l’appunto il Pordenone.

Cuore spettacolare della mostra sono le monumentali portelle della chiesa veneziana di San Rocco (San Cristoforo e San Martino), esposte accanto alla grande pala realizzata da Lorenzo Lotto per la basilica di Loreto, San Cristoforo tra i santi Rocco e Sebastiano, dove evidenti appaiono i richiami al gigantismo del Pordenone, che forse ebbe modo di incontrare a Venezia sullo scorcio degli anni Venti
Tuttavia “L’’apice del patetismo espressivi” lo si raggiunge con la grande Deposizione proveniente dalla chiesa dei Francescani di Cortemaggiore, affiancata dal Compianto eseguito da Correggio per la cappella del Bono, nella chiesa parmense di San Giovanni Evangelista.

Nello spazio esagonale ricavato a pianoterra della Galleria d’Arte Moderna, oltre a tali dipinti, trovano posto altre opere provenienti da Cortemaggio e alcuni frammenti di un Compianto di Guido Mazzoni conservati nei Musei Civici di Padova, che dimostrano come Pordenone abbia saputo infondere nuova linfa in una tradizione figurativa particolarmente radicata in area padana.

Non poteva mancare naturalmente il riferimento alla “concorrenza” con Tiziano, con l’esposizione della paletta con I santi Caterina, Rocco e Sebastiano, dipinti da Pordenone per l’altare dei Corrieri nella chiesa veneziana di San Giovanni Elemosinario, posta dal Vasari in relazione al “San Giovanni elemosinario” del Vecellio – opera satura di calore e atmosfera – collocata sull’altar maggiore della stessa chiesa. Ulteriori confronti sono proposti con artisti dell’aerea bresciana, come Romanino e Moretto, mentre la prova dell’importanza della lezione raffaellesca è affidata a una copia ottocentesca della celebre Madonna di Foligno, spettante al pittore Enrico Bartolomei.

Il percorso espositivo si sostanzia anche di una serie di opere volte a evidenziare l’influsso esercitato dall’artista non solo in Lombardia e in Emilia, ma anche sugli esponenti della più giovane generazione in Friuli e in ambito veneto, accanto alle figure di Pomponio Amalteo, Giulio Licino e Giovanni Demio, emergono quelle di Tintoretto e di Jacopo Bassano.

A tale proposito, poiché nella Venezia del Cinquecento il Pordenone si era distinto anche come decoratore di soffitti, (tra cui quello perduto della Sala della Libreria in Palazzo Ducale), i curatori hanno ritenuto opportuno presentare in mostra anche alcuni esempi delle soluzioni proposte in questo ambito da Tintoretto – con uno degli scomparti del soffitto del palazzo di San Paternian, su commissione di Vettor Pisani – e da Vasari che, circa nello stesso periodo (1542), lavorò in palazzo Corner Spinelli.

Per quanto riguarda Jacopo Bassano, l’interesse per Pordenone si manifesta molto chiaramente nella pala asolana raffigurante Sant’Anna con la Vergine Maria bambina in trono e santi (1541) dello stesso Museo Bassano, che, insieme con il Martirio di santa Caterina (1544) dello stesso Museo, segna l’avvio delle sperimentazioni manieriste degli anni Quaranta.

Anticlassico, manierista, proto barocco, precaravaggesco: tutte etichette della critica stanno in realtà strette al Pordenone, artista dalla “ Lingua tumultuosa e gigante” – come ebbe a dire Longhi – che, attraverso Tintoretto, avrà comunque un ruolo importante nello sviluppo dell’arte barocca.
“Ecco il Pordenone – scrive l’Aretino nell’edizione veneziana della Cortigiana (1536) – le cui opere fan dubitare se la natura dà rilievo all’arte o l’arte alla natura”

M.P.F

domenica 27 ottobre 2019


L’Egitto di Belzoni
Un gigante nella terra delle piramidi

Sono arrivate dal Louvre, dal British Museum e da altri prestigiosi musei prestatori, reperti, scritti e disegni che scandiscono tutto il percorso espositivo della mostra “L’Egitto di Belzoni”: un viaggio lungo le tappe biografiche più importanti del grande esploratore a Padova nella sede Centro Culturale Altinate San Gaetano, fino al 28 giugno, a cura di Francesca Veronese.
C’è una scena del film “Indiana Jones e i predatori dell’arca perduta” nella quale Harrison Ford cade all’interno di una tomba egizia e si ritrova immerso fra polvere, mummie e ossa: una sequenza cult che descrive lo spirito avventuroso dell’esploratore e archeologo immaginato da George Lucas. Quella stessa scena ha però uno sceneggiatore ante litteram: si tratta del padovano Giovanni Battista Belzoni, che nel suo diario di viaggio “Il Narrative”, descrive una scena identica. Non è un segreto, infatti, che il grande cineasta si sia ispirato alla figura poliedrica di Belzoni per costruire il personaggio di Indiana Jones. A duecento anni dal suo ritorno in Italia, la mostra “L’Egitto di Belzoni. Un gigante nella terra delle piramidi” celebra l’epopea di un grande esploratore, conosciuto in tutta Europa ma spesso poco celebrato in patria.
La mostra vuole far luce su una storia dimenticata, seguendo le tappe biografiche di Belzoni e far immergere i visitatori nel contesto geografico e culturale della sua epoca: la Padova e il Portello di fine Settecento, l’Inghilterra dei primi dell’800, dove visse per dieci anni in qualità di attore, ma soprattutto l’Egitto e la scoperta di questo straordinario scrigno di tesori. Belzoni fu un apripista nelle esplorazioni in Egitto e la sua avventura si inserisce in un periodo storico di grande fascinazione verso la cultura faraonica: lungo il Nilo si intrecciano le storie di studiosi, archeologi, diplomatici e avventurieri che contribuiranno a far conoscere in tutto il mondo la cultura, l’arte e la storia dell’Egitto.

La storia e le scoperte de Belzoni hanno avuto una grande eco in Europa. Prova ne è il fatto che sono esposte in preziosi musei a Londra e a Parigi. Dal British Museum, infatti sono arrivate a Padova una sfinge a testa di falco rinvenuta da Belzoni ad Abu Simbel: i mostra si possono vedere, accoppiati, sia il disegno che l’esploratore fece della sfinge sia il reperto vero e proprio.
Dal Louvre, invece, è giunta una coppa in oro, decorata a sbalzo, che faceva parte in un corredo funerario, e oggi parte della collezione Drovetti, il grande amico e nemico di Belzoni. Da Bristol sono arrivati invece alcuni disegni, realizzati da Belzoni e da Alessandro Ricci, altro collega esploratore del padovano, che rappresentano le decorazioni della tomba di Sethi I. Sempre appartenenti alla tomba di SethiI sono le statuette in legno in arrivo da Bruxelles, mentre dalla Cambridge University Library sono in mostra alcuni disegni di Johann Ludwig, grande studioso e amico di Belzoni. Di Burckhardt è presente un interessante quaderno di grammatica araba, utilizzato all’epoca per comunicare con gli egiziani.
Grande esploratore e mai mosso da interessi economici verso i reperti scovati in Egitto, Giovanni Battista Belzoni, nel 1819, donò alla sua città natale due statue della dea Sekhmet, rinvenute a Tebe: un omaggio e un regalo alla città del Santo da cui era partito, lasciando la casa dei genitori al Portello. Le due statue furono esposte a lungo alla porta Orientale del Palazzo della Ragione e ora sono conservate al Museo Archeologico di Padova, ma riprodotte anche all’interno della Sala Egizia del Caffè Pedrocchi.

Le 150 opere esposte – fra scritti, disegni, tavole e reperti – ricostruiscono un panorama suggestivo e inedito dell’Egitto: è, appunto, l’Egitto di Belzoni, quindi quello di inizio 800, territorio ancora tutto da esplorare e da conoscere che è stato luogo di amicizie e collaborazioni, ma anche di dispute tra i vari archeologi e personaggi che gravitavano nell’area del Nilo. In mostra, infatti, sono presenti sia reperti che raffigurano il grande culto delle divinità in Egitto, come la statuetta di Thot in forma di ibis o il rilievo della dea Maat, ma anche alcuni frammenti che raccontano, per esempio, la centralità della musica nella cultura egizia. Infine, le tavole e i disegni che arricchivano il Narrative scritto da Belzoni con le raffigurazioni delle sue “imprese impossibili”: una graphic novel ante litteram, che ha di fatto reso famoso nel mondo, più che in Italia, la figura di Giovanni Battista Belzoni.

La sorpresa finale di tutto il percorso espositivo: nel grande atrio del San Gaetano è riprodotto in scala 1 a 15 la grande piramide di Chefren, alta circa 10 metri e con base di 15 metri. Fra le principali piramidi dell’area di Giza e all’epoca di Belzoni ritenuta ancora impenetrabile, l’esploratore riuscì, dopo lunghi giorni e tentativi, a scoprire un varco di accesso. Una volta entrato, scavando e strisciando lungo i cunicoli e i corridoi arrivò alla camera sepolcrale dove pose la firma: “Scoperta da G.Belzoni. 2 mar. 1818.
Il fascino di Giovanni Belzoni ha oltrepassato l’oceano, grazie a un pioniere, Alvarez Fisk, che dal 1830 era andato alla ricerca di fortuna lungo il fiume Mississippi. Dopo aver dato vita a un impero di piantagioni, denominato Belzoni Landing proprio in onore dello scopritore dell’Egitto che, ai suoi occhi, era divenuto un mito, fondò poco più a nord la cittadina a cui diede il nome di Belzoni City.
M.P.F.

lunedì 21 ottobre 2019

LA FIRENZE DI GIOVANNI E TELEMACO SIGNORINI



 La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini





La scoperta del carteggio inedito tra Telemaco Signorini, il padre Giovanni e il fratello minore Paolo, ha condotto Elisabetta Mateucci e Silvio Balloni a ideare questa raffinata esposizione che vanta due protagonisti, i Signorini da un lato e la loro Firenze dall’altro.
Il tratto di marcata “fiorentinità” che caratterizza la mostra, unito all’indubbio spessore storico-critico, è tra le ragioni che hanno spinto la famiglia Antinori a realizzare il progetto con l’istituto Mateucci.

La mostra quindi non poteva trovare sede più appropriata di Palazzo Antinori, edificio storico nel cuore di Firenze, casa di una Famiglia che ha contribuito a fare la Storia della città oltre che della viticultura di massimo pregio.

Per la prima volta, in occasione di “La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini”, il pubblico ha la possibilità di ammirare i Saloni storici del Piano Nobile di Palazzo Antinori, opportunità che da sola merita un viaggio a Firenze. Sono essi che accolgono le opere in mostra, capolavori notissimi ma anche tele che trovano qui la propria prima esposizione pubblica.

Alle suggestive immagini della “città gioiello” è dedicata la mostra La Firenze di Giovanni e Telemaco Signorini che vede, per la prima volta, affiancate le opere di quella che, nel clima culturalmente fecondo di menti brillanti come Giovanni Pietro Vieusseaux, Pietro Giordani e Nicolò Tommaseo, Diego Martelli e Carlo Lorenzini, si è imposta come una vera e propria dinastia pittorica.

A fornire lo spunto per accendere un focus su Giovani Signorini (1808-1864), soprannominato per le qualità di vedutista prediletto da Leopoldo II di Lorena “Il Canaletto fiorentino”, e sul figlio Telemaco, dando conto del ruolo determinante di Firenze nel definirsi delle rispettive personalità, è stato il fortunato recupero di un importante carteggio di Telemaco con l’illustre genitore e con il fratello Paolo.

Oltre a fare rivivere l’affascinante scenario entro cui si è dipanata la loro vicenda artistica, la mostra si prefigge sia di fare emergere le ascendenze del capostipite sul figlio pittore, sia di documentare l’evoluzione della pittura di paesaggio in Toscana, dalla raffigurazione tardo romantica, secondo i modelli di Claude Lorrain e Nicolas Poussin, alla moderna estetica figurativa del periodo di maggior combustione della macchia, in cui Telemaco è stato tra gli sperimentatori più audaci, promuovendone un’inedita interpretazione, anticipatrice dell’aggiornamento della cultura figurativa del XIX secolo.

La rassegna, curata da Elisabetta da Elisabetta Matteucci e Silvio Balloni, negli ampi saloni di Palazzo Antinori, si articola in otto sezioni che, attraverso una mirata selezione di oltre sessanta dipinti tra i più celebri dei due Signorini affiancati da attentissimi confronti, fanno rivivere una delle stagione più fertili della cultura, che tanto ha contribuito a conferire a Firenze quell’immagine ideale” di città europea.

Il visitatore si trova, così, al centro di un percorso a dir poco magico, evocato nella rappresentazione straordinaria di un’anima urbana, da tempo dimenticata dalle guide, specchio di un microcosmo pulsante di vita, spettacolare nella sua monumentalità e al tempo stesso raccolto nella calda dimensione domestica. È di questo mondo lontano e nostalgico ancora improntato ad la Toscana ha prodotto.

M.P..F