I
Volti del Buddha
Dal perduto Museo Indiano di Bologna
A Bologna si è aperta la mostra I volti del
Buddha a
cura di Luca Villa con la collaborazione di Antonella Mampieri (Musei Civici
d’Arte Antica), allestita negli spazi del Museo Civico Medievale di Bologna
fino al 28 aprile 2019. L’evento vuole ricomporre per la prima volta un’ampia
parte delle raccolte appartenute al Museo Indiano di Bologna, oggi suddivise e
conservate in tre diverse sedi: lo stesso Museo Civico Medioevale, il Museo di
Palazzo Poggi di Bologna e il Museo di Antropologia dell’Università di Padova.
L’esposizione
consente di riscoprire un rilevante patrimonio di oggetti e fotografie che
illustrano l’archeologia e l’arte buddhista asiatica al tempo in cui il Museo
Indiano, noto anche come Museo d’Indologia e Museo Etnografico Indiana
Orientale, rimase aperto dal 1907 al 1935.
Il
Museo Indiano, allestito nel Palazzo dell’Archiginnasio nelle sale oggi in uso
alla Biblioteca, nacque per ospitare inizialmente la cospicua collezione di
oggetti, fotografie e manoscritti acquisiti da Francesco Lorenzo Pullè
(1850-1934), professore ordinario di Filologia Indoeuropea e Sanscrito dal 1899
alla Regia Università di Bologna, durante il viaggio compiuto nel 1902 in
Vietnam, Ceylon, India e Pakistan in occasione della sua partecipazione al
Congresso Internazionale degli Orientalisti ad Hanoi.
Lo
studioso aveva in animo di creare un museo che rappresentasse non solo l’area
geografica a cui dedicava da molti anni le sue ricerche, ma l’intero continente
asiatico. Tuttavia, il suo obiettivo potè dirsi raggiunto solo quando il Comune
e l’Università di Bologna, enti che avevano partecipato alla creazione del
Museo Indiano, si impegnarono a incrementare la collezione originale con
acquisti e prestiti temporanei.
Al
momento dell’apertura, nelle stanze riservate al Museo il pubblico poteva
osservare fotografie e oggetti raccolti durante le tappe del viaggio di Pullè
attraverso l’India britannica, acquistati allo scopo di illustrare gli aspetti
peculiari della regione e della tradizione artistica e artigianale del
subcontinente indiano, per come si erano manifestati nel corso dei secoli
precedenti e per come apparivano nel presente.
L’allestimento,
di cui si ha ancora traccia grazie alla pianta del museo, conservata presso l’Archivio
Storico Comunale di Bologna, comprendeva molte raffigurazioni di divinità del pantheon hindu e, rispetto ai
musei dell’epoca, si distingueva per la presenza di una vasta raccolta di
immagini che immortalavano le architetture templari dell’India, hindu, buddista
e islamiche.
Pullè
era convinto sostenitore dell’utilizzo della fotografia per far conoscere ad un
vasto pubblico l’arte e l’archeologia. Nella sua ricchissima collezione sono
presenti circa 350 stampe fotografiche in grado di documentare l’archeologia
indiana in maniera esauriente e innovativa per l’epoca. Fatta eccezione per un
piccolo rilievo proveniente da un monumento buddhista indiano, Pullè si
distinse per non aver prelevato dai paesi di origine reperti che altri invece
separarono dalla cultura d’origine.
La
parte più consistente della raccolta fotografica riguarda i ritrovamenti
archeologici allora conservati presso il Central Museum di Lahore,
nell’odierno Pakistan, dove nei decenni precedenti rispetto al viaggio del professore
di Sanscrito erano confluiti reperti e lastre figurate recuperate durante gli
scavi effettuati nella non lontana valle del Peshawar.
Questi oggetti rappresentano oggi l’eredità dell’arte buddhista
del Gandhãra,
antica area situata tra gli attuali
confini di Pakistan e Afghanistan, dove tra gli ultimi decenni del I sec. A.C.
e il IV-V sec. d.C. fiorì una tradizione artistica connessa alla devozione
buddhista.
Gli arricchimenti
successivi, a cominciare dall’acquisto di undici statue effettuato dal Comune
nel 1908, provenienti dalla raccolta Pellegrini e quasi tutte raffiguranti
divinità del pantheon buddhista cinese, confermano l’interesse per questa
tradizione filosofica e religiosa e l’ambizione del professore di Sanscrito di
voler creare un’ampia raccolta a testimonianza della ricchezza artistica e
culturale dell’Asia.
Vi si trova
inoltre testimonianza di un’attenzione alle tendenze estetiche dell’epoca, per
il cui tramite l’arte cinese e giapponese sovente era presente nei salotti e
negli studi delle case di illustri cittadini, così come nei saloni di
prestigiosi locali pubblici. A tale proposito, va ricordato come Pullè seppe
agire affinchè il Museo Indiano partecipasse dell’eredità Pepoli, grazie all’acquisizione
di alcuni vasi ora in mostra nelle sale delle Collezioni Comunali d’Arte,
anch’essi, in parte, di provenienza giapponese.
La vicenda del
Museo Indiano si concluse definitivamente nel 1935 e due anni più tardi si
redasse l’atto con cui le raccolte furono suddivise tra Comune e Università,
che ne rimangono ancor oggi custodi, e la famiglia Pullè. Quest’ultima pochi
anni dopo cedette almeno una parte della collezione pervenuta al figlio del
professore, Giorgio, all’Università di Padova, dove Pullè aveva insegnato a
lungo prima di passare all’Alma Mater.
Nato
dall’ambizioso progetto di recare un valido sostegno allo studio del sanscrito
a Bologna, il Museo Indiano di Francesco Lorenzo Pullè seppe essere trasformato
in una risorsa culturale capace di intercettare gli interessi e le esperienze di
tanti cittadini bolognesi. Una risorsa ancora oggi preziosa che questa mostra,
anche grazie a restauri e manutenzioni dei materiali realizzati per questa
occasione, offre l’opportunità di riscoprire la sua rilevanza come episodio
significativo per la storia culturale del Novecento a Bologna.
M.P.F.
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