sabato 26 dicembre 2020

Antelami a Parma. Il lavoro dell'uomo, il tempo della terra

 


Le raffigurazioni scultoree dei Mesi di Benedetto Antelami

Nel Battistero di Parma.


Talvolta per fare una grande mostra basta una piccola idea, come per esempio portare a terra delle preziose sculture solitamente collocate in alto, in modo da poterne ammirare da vicino l’originalità, l’armonia delle forme e la raffinatezza dei dettagli. Proprio a partire da questa semplice idea è stata allestita nel battistero di Parma, con la curatela di Barbara Zilocchi, la mostra Antelami a Parma. Il lavoro dell’uomo, il tempo della terra: protagoniste assolute sono le opere attribuite a Benedetto Antelami (1150 circa – 1230 circa) e raffiguranti le personificazioni dei Mesi, un tema tutto medioevale e diffusissimo sia in aerea padana sia in tutta l’Italia ed Europa.


A quell’epoca la rappresentazione personificata dei Mesi veniva scelta per tradurre in immagini simboliche il tempo ciclico della vita umana scandita dai lavori agricoli e che si interseca con il tempo divino, quest’ultimo lineare perché comincia con la Genesi e termina con il Giudizio e l’eternità dei beati e dei dannati.



La vicenda delle sculture conservate nel battistero parmense è in parte misteriosa, ma senza dubbio si colloca nei decenni in cui l’artista lavorò a Parma, e quindi tra la fine del XII secolo e i primi decenni del successivo. Lo sappiamo perché Antelaqmi firmò, datandola 1178, un’opera capitale per la storia medioevale, la lastra con la Deposizione di Cristo conservata nell’attigua cattedrale, mentre nel 1196 suggellò con un’iscrizione pure l’inizio della costruzione del battistero.


Ma chi era Benedetto? Lo chiamiamo con il solo nome proprio perché a quei tempi “antelami” non designava tanto un cognome, quanto un mestiere: così infatti erano chiamati i costruttori provenienti dalla val d’Intelvi e particolarmente attivi nell’area di Genova, da cui partirono per raggiungere varie località, compresa Parma. Benedetto non fu solo un raffinatissimo architetto a capo del cantiere del battistero: ce lo dice lui stesso definendosi <<sculptor>>. Sotto la sua la sua mano e sua regia furono realizzate i tanti rilievi che adornano l’edificio sacro che adornano l’edificio sacro che con l’enorme mole rivestita di breccia di Verona nelle sue varie sfumature di rosa, domina piazza Duomo.


Le parti più ricche di figure, così “classiche” sono i tre portali, dove stipiti, archivolti, lunette raccontano storie sacre, tra cui quelle di san Giovanni Battista e l’ Adorazione dei Magi; la Resurrezione nel giorno del Giudizio e Cristo in trono con angeli e simboli della passione, mentre sul portale meridionale Antelami narra l’inconsueta leggenda di Barlaam: per sfuggire a un drago che lo insidia, un uomo sale su un albero, vi trova dei favi di miele e, distratto dalla delizia, non si accorge che il tronco sta per essere rosicchiato e abbattuto da due grossi roditori; ai lati con il Giorno e la Notte e il Sole e la Luna. Tutt’attorno all’ottagono del battistero corre invece un zooloro con animali fantastici.

Anche l’interno si caratterizza per un abbondante decorazione plastica: nelle lunette, nei capitelli e poi lassù nella prima loggia dove a fino poco fa stavano i rilievi dei Mesi abbinati ai rispettivi segno zodiacali; un ciclo probabilmente mai del tutto finito visto che è privo di tracce di policromia. Tuttavia a quell’epoca la scultura indipendente dall’architettura era rarissima e il fatto che questi pezzi siano ricavati da blocchi che, con tutta evidenza, prevedevano il loro montaggio in una struttura più complessa, fa pensare che essi rimasero inutilizzati in tal senso, forse a causa della scomparsa del “magister”.


Nella mostra introducono il percorso due figure interpretate come le stagioni: un’elegante Primavera (o Primavera/Estate) coronata di fiori e un barbuto Autunno/ Inverno, per metà vestito e affiancato a un ramo secco, e per metà nudo con ramo fogliato. Come altri cicli medievali, l’anno doveva iniziare a marzo, secondo l’antica tradizione del calendario romano: il mese della rinascita suona il corno e ha i capelli arricciati (il suo segno è l’Ariete, che al pari di altri segni è scolpito su una pietra separata e incastonata nella muratura); viene poi il regale Aprile, coronato, togato, con un fiore in mano e una sorta di scettro nell’altra. Maggio è “cavaliere” – perché in quel mese si ricominciavano le guerre dopo la pausa invernale – e ha in mano un falcetto per poter tagliare il foraggio per il suo cavallo, Giugno miete il grano, Luglio lo batte sull’aia facendolo calpestare da due animali da soma, Agosto prepara le botti e Settembre vendemmia, con ai suoi piedi il segno della Bilancia.



Ottobre è un uomo maturo che semina, vigilato dallo Scorpione, Novembre raccoglie le rape in compagnia del Sagittario e Dicembre fa scorta di legna. Gennaio, seduto su uno scranno, è un uomo barbuto con vesti decorate; ha due volti, uno davanti e uno dietro, per guardare sia all’anno futuro sia a quello passato, come l’antico Giano bifronte. Infine Febbraio vanga la terra, sovrastato dal segno dei Pesci.


L’esposizione, in una “location” di per sé stupefacente per complessità architettonica e decorazione pittorica, è un’occasione per riflettere sul sapere teologico del XIII secolo e sulla lettura che ne diede Benedetto Antelami, nonché per riaccendere i riflettori sulle incognite storiche e sui dibattiti relativi al lavoro del maestro, aperta fino al 12 settembre (salvo proroghe o chiusure per emergenza Covid-19.


M.P.F.

mercoledì 23 dicembre 2020

BANCHETTO DI ERODE (MASOLINO)

 


Banchetto di Erode (Masolino)

Il Banchetto di Erode è un affresco di Masolino da Panicale nel Battistero di Castiglione Olona. Fa parte delle Storie di san Giovanni Battista, dipinte nel 1435, delle quali è uno dei migliori affreschi. Probabilmente parteciparono alla realizzazione anche gli aiuti dell’epoca, Vecchietta e Paolo Schiavo.


La scena è ambientata in una sontuosa architettura rinascimentale, composta su un vertiginoso scorcio centrale secondo le regole della prospettiva lineare centrica. A sinistra, sotto una loggetta architravata aperta, una sorta di architettura ideale umanistica, si svolge il banchetto vero e proprio, con Erode a capotavola e tre ospiti, tra i quali quello accanto a lui potrebbe essere il ritratto del cardinale Branda Castiglioni, committente del ciclo. Davanti ad essi stanno alcuni dignitari in piedi, tra cui due personaggi col mazzocchio, copricapo allora in voga, che ricordano le figure simili nell’affresco della Cappella Brancacci Guarigione dello storpio e resurrezione di Tabita (1424-1425), anche se qui sono trattate con maggior realismo e saldezza volumetrica.


Sopra la loggia si trova, oltre un fregio di putti e festoni ripreso dai sarcofagi classici, un’altra loggetta con archi. A destra si trova invece la scena della consegna di Salomè a Erodiade della testa di san Giovanni Battista, alla cui vista una fanciulla dai lineamenti finissimi si ritrae spaventata. Questa scena si svolge sotto un lunghissimo portico con colonne ed archi a tutto sesto. Questa loggia rinascimentale va immaginata nel contesto del piccolo paese della provincia lombarda dove venne affrescata, caratterizzato da un’architettura prevalentemente gotica e in mattoni, completamente diversa da quella dipinta

.

Sullo sfondo si vede un paesaggio montuoso, dove è dipinta e lontana, la sepoltura del Battista.

L’opera era anticamente arricchita da decorazioni a rilievo in pastiglia e da dorature, quasi completamente perdute.



L’affresco è importante per descrivere il ruolo di mediatore di Masolino tra le dolcezze episodiche del gotico internazionale e le novità del Rinascimento fiorentino, che fuse in uno stile intermedio dove la spazialità è nuova, ma l’aristocratica eleganza lineare delle figure è ancora legata alla matrice tardogotica. Il suo stile risultò più comprensibile ed assimilabile da parte dei pittori dell’Italia settentrionale, ancora molto legati alla cultura figurativa gotica, rispetto a quello di artisti più radicali, permettendo la diffusione nelle novità oltre i confini della Toscana.


Le indicazioni spaziali appaiono qui iperbolicamente sottolineate, quasi a evidenziare l’originalità dell’autore rispetto alla cultura lombarda.


M.P.F.

martedì 22 dicembre 2020

Il volto di Maria e il volto di San Francesco

 

Il volto di Maria e il volto di san Francesco di Cimabue ad Assisi


 

Se fosse possibile trovare un Francesco d’Assisi con una verosimiglianza nella pittura all’immagine del Santo reale, se questo nostro sforzo dovesse cioè avere il senso di rintracciare una fototessera o una memoria del volto, sicuramente dovremmo guardare al Francesco dipinto da Cimabue. Non so se questo pensiero mi sia venuto ponendo attenzione alle cose che si studiano quando si guardano le opere di Cimabue o se invece sia dovuto alla presunzione della fedeltà a un’immagine e la capacità di restituirla nella pittura siano più probabili in chi è più vicino cronologicamente al soggetto che dipinge.

A distanza di poco più di sessant’anni dalla morte del Santo, avvenuta nel 1226, il primo pittore che ci lascia un’immagine di Francesco d’Assisi è certamente Cimabue. Mentre le altre immagini – Margaritone d’Arezzo o i pittori ancora più antichi – rimangono comunque legate a una iconografia bizantina, in cui si vede sì la volontà di definire la realtà in modo più preciso, ma si sente anche la strettoia della natura nella ricerca stilistica più formale della scuola orientale Quando noi guardiamo la Madonna con bambino tra gli angeli e San Francesco della Basilica inferiore di Assisi, vediamo un uomo che è senza barba, che ha un’espressione sofferta e intensa e notiamo due orecchie a sventola che non possono essere state dipinte senza che l’autore ne avesse una nozione di rispondenza fisiognomica. Cimabue, infatti, avrà sicuramente incontrato qualcuno che conosceva il Santo e gli avrà chiesto informazioni, notizie utili per dipingere un volto simile al vero.


Mentre il gruppo pittorico principale, che racchiude la Vergine al centro e gli angeli, è composto da figure fortemente idealizzate che appartengono a una dimensione celeste e ultraterrena, con lineamenti regolari e abiti splendenti, anche soltanto lo spazio ristretto che il pittore lascia a Francesco indica la dimensione dell’umiltà, della misura, della volontà di far capire il senso delle proporzioni tra cose terrene e cose celesti che Francesco custodiva dentro di sé. Il risultato dal punto di vista spaziale è una dimensione pittorica eccentrica, perché, Cimabue, per lasciare spazio a San Francesco, è costretto a spostare a sinistra il gruppo principale; ma è eccentrica anche nel passaggio di linguaggio che si avverte nei tratti dei personaggi, poiché Francesco, con il suo volto magro e quella forma così particolare, indica un realismo opposto all’idealismo della Madonna e degli angeli. Ecco perché molta della critica ritiene che tra le raffigurazioni di Francesco la più corrispondente alla realtà sia di Cimabue. Le altre, di un Francesco giovane, dai lineamenti estremamente regolari, e prive del curioso particolare delle orecchie a sventola (come si vede nell’Omaggio dell’uomo semplice o nel Dono del mantello o nella Rinuncia degli averi delle storie francescane, rappresentano senz’altro più una figura dell’anima che non l’immagine reale.

Il volto di Cimabue, invece, con gli orecchioni, con la faccia smagrita, sembra essere il primo ritratto realistico forse della storia, in opposizione a una Madonna che, pur essendo anch’essa figura terrestre, è ormai assunta in cielo e, per forza di cose, naturalmente idealizzata.


M.P.F.

sabato 19 dicembre 2020

Masaccio "Adorazione dei Magi"

 

Adorazione dei Magi (Masaccio)


“Nato Gesù a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode, ecco alcuni Magi vennero da oriente a Gerusalemme e dicevano: <<Dov’è colui che è nato, il re dei Giudei? Abbiamo visto spuntare la sua stella e siamo venuti ad adorarlo>>. All’udire questo, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i capi dei sacerdoti e gli scribi del popolo, si informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Cristo. Gli risposero: << A Betlemme di Giudea, perché così è scritto per mezzo del profeta: E tu Betlemme, terra di Giudea, non sei davvero l’ultima delle città principali di Giuda: da te infatti uscirà un capo che sarà il pastore del mio popolo, Israele>>…”

Mt, 2,1-11)


L’ Adorazione dei Magi è un dipinto, che costituiva lo scomparto centrale della predella del Polittico di Pisa, eseguito nel 1426, a tempera su tavola, da Tommaso di Giovanni Cassai, detto Masaccio (1401 – 1428), proveniente dalla cappella di San Giuliano nella Chiesa di Santa Maria del Carmine a Pisa ed ora conservato presso la Gemäldegalerie di Berlino.

Il Polittico di Pisa, oggi purtroppo, è smembrato in molteplici parti e diviso in vari musei del mondo. L’opera, faceva parte della predella nello scomparto centrale, sotto la Maestà oggi alla National Gallery di Londra. La scena dell’Adorazione dei Magi è presentata come consueto di profilo (solo Botticelli rinnoverà questa iconografia), e sembra dipinta per contrastare la celebre Adorazione di Gentile da Fabriano, che nel 1423 aveva incantato i fiorentini.



La composizione di Masaccio è pacata e simile a un fregio, in contrapposizione con l’affollata e sontuosa “frivolezza” di Gentile. A sinistra si vede la capanna, dove il bue e l’asinello stanno alle spalle, accanto a una cavalcatura per il dorso dell’asino. Subito dopo si vede la Sacra Famiglia, con le aureole scorciate in prospettiva. Maria è seduta in un seggio dorato con protomi e zampe leonine (il faldistorio con le teste leonine imperiali), e tiene in braccio il Bambino che benedice il primo dei Magi, il quale è già inginocchiato e tolto la corona deponendola in terra; il suo dono è già nelle mani di san Giuseppe. Dietro di lui sta un altro Magio con tunica rosa, la cui fisionomia assomiglia molto a un personaggio dell’affresco del San Pietro risana gli infermi con la sua ombra nella Cappella Brancacci; esso si è intanto inginocchiato e la sua corona è nelle mani di un servitore. Il terzo Magio è appena arrivato, è in piedi e un servo gli sta togliendo la corona, mentre un altro ne porta il dono. Dietro i re si trovano due personaggi entrambi emblematici, non presi dall’iconografia tradizionale, vestiti di cappelli alla moda dell’epoca e da lunghi mantelli grigi, che lasciano scoperte le gambe coperte da calzamaglie. Si tratta probabilmente delle figure dei committenti: il notaio ser Giuliano di Collino, più alto in secondo piano, e suo nipote, più basso e in primo piano, posto sopra una montagnola del terreno.

A destra stanno infine i cavalli e i servitori, tra i quali si scorge qualche affinità sia con Gentile (il cavallo con la testa in scorcio in lato), sia con altre opere come l’Adorazione di Nicola Pisano scolpita nel pulpito del Battistero di Pisa (1260 circa), come il cavallo intento a pascolare.

Lo stile della pittura è a tratti morbido e sfumato, come nello sfondo, a tratti forte e incisivo, come nei mantelli dei due committenti. In ogni caso la luce e la ricca cromia unificano tutta la rappresentazione, senza squilibri.


M.P.F.

ADORAZIONE DEI MAGI

 

Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano


Ne catasto fiorentino del 1427, il primo della storia, Palla Strozzi risultava essere il cittadino più facoltoso della città. La pala d’altare di Gentile venne da lui commissionata non appena quest’ultimo giunse a Firenze (ospitato nelle stesse case degli Strozzi), nel 1420 ed era destinata alla nuova cappella nella basilica di Santa Trinita che Lorenzo Ghiberti stava terminando in quegli anni. Terminato tre anni più tardi, con l’aiuto dei pittori venuti al suo seguito quali Arcangelo di Cola da Camerino, Giovanni da Imola e Michele d’Ungheria, il dipinto era una felice espressione dello stile gotico internazionale allora dominante, pur essendo già noti gli esperimenti “rinascimentali” di Masaccio e Brunelleschi. Si conosce il documento del saldo del pagamento, che era per sé un notevole esborso, 150 fiorini d’’oro. Molto si è discusso sulla Pala Strozzi, uomo colto, raffinato umanista e amante della cultura greca, di un’opera in stile internazionale piuttosto che un lavoro più all’avanguardia, nello stile rinascimentale. In realtà si deve tener conto della coesistenza di più di un tipo di gusto nella Firenze dell’epoca, dove il passaggio da uno stile all’altro non fu immediato.


Nel 1806 durante le soppressioni napoleoniche, la tavola venne spostata in un deposito, per venire poi trasferita nel 1810 alla Galleria dell’Accademia, per l’istruzione dei giovani allievi. Nel 1812, durante le spoliazioni napoleoniche del Granducato di Toscana, venne privato dello scomparto della predella con la Presentazione al tempio, che da allora si trova al Museo del Louvre. Nel 1919 la pala approdò alla galleria fiorentina con una copia della predella al posto dell’originale.

Il tema dell’adorazione dei Magi ben si prestava per una messa in scena sfarzosa e opulenta, che celebrasse la ricchezza del committente e la bravura dell’artista. Gentile si trovò a perfetto agio con la commissione, potendosi dedicare ad accostare più singolarmente, secondo il modello letterario offerto dalle ekphrasis bizantine, le descrizioni e interpretazioni di opere d’arte circolanti a Firenze almeno dal 1415. Il committente aveva infatti una vera e propria “passione bizantina”, che manifestava acquistando codici antichi e studiando greco con Emanuele Crisolora da Costantinopoli.


Il corteo dei Magi si dispiega su tutta la parte centrale del dipinto, sfruttando la forma tripartita nella parte alta per dare origine a più focolai d’azione, arricchiti da una di dettagli naturalistici e di costume, che creano un effetto vibrante dove l’occhio dello spettatore si sposta da un particolare all’altro.

Vi è una grande profusione di applicazioni in oro e argento, nelle vesti, nei finimenti dei cavalli, dei cani da caccia, nelle corone, nelle spade e nei doni. I metalli, applicati in foglie sottilissime, venivano poi incisi a mano libera, punzonati o coperti da leggere velature, che creano un effetto di luce diffusa. Altre volte sono ottenuti effetti a rilievo tramite l’applicazione di “pastiglia” (gesso e colla) rivestita d’oro e di pigmenti.

Lo spazio prescinde da qualsiasi regola prospettica, nonostante la profondità della scena, con i personaggi che si sovrappongono in maniera caotica e festosa, creano un insieme irreale e fiabesco.

Grandissima abilità di Gentile è inoltre quella di riuscire a rendere l’idea della componente materica delle stoffe, la morbidezza degli incarnati, la freschezza della vegetazione.

La pala non rappresenta un’unica scena ma racconta il cammino dei tre saggi orientali che seguirono la stella cometa per giungere al cospetto di Gesù bambino. La narrazione ha inizio nelle tre lunette da sinistra            , dove si vedono i tre Magi, vestiti doro, che vedono la stella cometa dall’alto del monte Vettore, raffigurato come una rupe a picco sul mare; subito il corteo si mette in moto ed arriva, nella lunetta centrale, nei pressi della città di Gerusalemme, dipinta in un paesaggio incantato di campi coltivati e boschetti fioriti; infine si vede l’entrata nella città.


Completamente inedito per Firenze doveva risultare il tono del corteo, che assomiglia più a gruppi di eleganti aristocratici a una battuta di caccia che a una scena religiosa.

Il corteo riappare quindi da destra ed occupa tutta la metà inferiore del dipinto. A sinistra si trova il punto d’arrivo della grotta della Natività dove si posano la cometa luminosa e dove si trovano il bue e l’asinello davanti alla mangiatoia. Davanti al riparo di una capanna diroccata si trovano san Giuseppe, la Madonna assisa col Bambino e due servitrici. Davanti al Bambino si stanno inginocchiando i tre Magi: il primo quello anziano, ha già deposto la corona ai piedi della Sacra Famiglia ed è prostrato a ricevere la benedizione del Bambino; il suo è già tra le mani delle servitrici; il secondo, di età matura, si sta per accovacciare e con la mano destra sta sfilandosi la corona, mentre con la sinistra tiene il calice dorato del suo dono; il terzo è appena sceso da cavallo, un servitore gli sta infatti ancora smontando gli speroni, ma con lo sguardo guarda già il bambino e tiene in mano un’ampolla doro da donare. I tre Magi, sono rappresentati nelle tre età dell’uomo: giovinezza, maturità e vecchiaia. I loro vestiti sono di incredibile sfarzo, con broccati d’oro finemente arabescati, copricapi sfavillanti e cinture con borchie preziose, ottenute a rilievo tramite punzonature e applicazioni.

Dietro di loro, in posizione centrale, si trovano due personaggi due ritratti ben riconoscibili: l’uomo col falcone in mano, dal vestito più ricco dopo quello dei Magi ( un damasco con disegni vegetali, ma privo di dorature), è probabilmente il suo figlio primogenito Lorenzo, anche se Giorgio Vasari indicava al suo posto un autoritratto di Gentile, improbabile in una posizione così preminente, inoltre l’indicazione degli artisti di evidenziare i propri ritratti dipingendosi con lo sguardo rivolto allo spettatore è leggermente più tarda, contenuta nelle opere di Leon Battista Alberti.

Numerosi sono gli animali che animano la scena, a partire dal gruppo di cavalli che, spaventati da un leopardo, creano un movimento di linee centrifughe. In basso si trova un levriero, ritratto con precisione naturalistica, che si stira tra le zampe di un cavallo, con un magnifico collare dorato ottenuto a rilievo. Più indietro si trovano un altro leopardo, un dromedario, due scimmiette, un falcone in volo e altri uccelli, che creano un vivace campionario esotico.

Tra i personaggi del corteo spiccano numerosi servitori, tra i quali uno in primo piano che regge la spada di uno dei re ed ha una banda tracolla che ricorda, in lettere dorate a rilievo, i caratteri cufici.


M.P.F.

 

martedì 15 dicembre 2020

Natività Mistica - Sandro Botticelli

 


Natività  mistica

La Natività  mistica è un dipinto a tempera su tela (108,5 x 75 cm) di Sandro Botticelli, datato 1501 e conservato nella National Gallery di Londra.

L’opera è l’unica firmata e datata da Botticelli; nonostante ciò la sua storia è piuttosto oscura. Si pensa che fosse originariamente destinata alla devozione privata di qualche famiglia nobile fiorentina ed è spesso citata come ultimo capolavoro dell’artista, prima di un periodo di inattività prima della morte, testimoniato anche da una lettera a Isabella d’Este del 1502. Dal punto di vista stilistico si nota una consapevole “regressione”: la prospettiva è sconvolta; le figure, seppure in movimento, sono rigide, innaturali e proporzionate in modo non realistico, bensì gerarchico; i colori sono violenti mentre la linea, da fluida e sinuosa che era, si fa spezzata e nervosa.

Il titolo di Natività mistica è stato assegnato dalla critica moderna per sottolineare il complesso simbolico della scena.

La grotta


Il soggetto della tela è la natività di Cristo, interpretata come un’adorazione del Bambino da parte di Maria con Giuseppe, dei pastori e dei Magi tra cori angelici. Al centro si trova la grotta della natività, forata sul dietro per lasciar intravedere il bosco e coperta da una tettoia di paglia retta da tronchi, con il Bambino al centro su un giaciglio coperto da un telo bianco, la giganteggiante Vergine a destra e l’adorante e meditante Giuseppe a sinistra; dietro si vedono il bue e l’asinello, simboli tradizionali di ebrei e pagani che assistettero all’evento senza prendervi parte.

Gli angeli nella metà  superiore


Sopra la tettoia tre angeli, con le vesti che ricordano i colori delle tre Virtù teologali (da sinistra bianco per la Fede, rosso per la Carità e verde per la Speranza) intonano un canto reggendo un corale tra le mani. Più in alto, oltre il boschetto che circonda la grotta, fatto di slanciati alberelli disposti a semicerchio, e il cielo azzurrino, si apre un fulgido brano di paradiso, su fondo oro, dove un gruppo di dodici angeli inscena un vorticoso carosello tenendosi per mano e reggendo rametti d’ulivo a cui sono appesi nastri svolazzanti e corone. Questo fantastico girotondo venne probabilmente ispirato da una reale sacra rappresentazione messa in scena da Filippo Brunelleschi in San Felice in Piazza. Si tratta di una ricreazione dell’Annunciazione, in cui dei fanciulli stavano sospesi nel vuoto, sostenuti da una struttura dorata a forma di cupola, simulando un coro angelico. Questo tipo di rappresentazione ebbe un successo tale che venne a lungo replicata per cui non è escluso che Botticelli l’avesse potuta osservare direttamente. Il disegno conservato agli Uffizi e noto come Lunetta con tre angeli volteggianti potrebbe essere preparatorio alle tre figure di angeli cantori.


Interpretazioni

 

L’opera combina il tema della nascita di Cristo con quello della sua seconda venuta, cioè il ritorno sulla Terra prima del Giudizio Universale come promesso nel Libro della Rivelazione. In quell’occasione si assisterà alla completa riconciliazione tra gli uomini e Dio, come sembrano preannunciare le figure abbracciate in primo piano. Oppure le tre coppie potrebbero indicare i mezzi per vincere la presenza del male, ovvero la fratellanza e, tramite l’esempio degli angeli, la preghiera.


Sicuramente il soggetto venne ispirato dalla situazione religiosa e politica fiorentina all’alba del nuovo secolo, memore ancora dei tragici eventi che avevano visto la calata di Carlo VIII, la cacciata di Piero

de’ Medici dalla signoria della città e la presa di potere del partito di Girolamo Savonarola. Botticelli in particolare dovette essere molto colpito dalla figura del frate ferrarese, e in tutte le sue opere dell’ultima fase, dagli anni ottanta in poi, si assiste a un ripiegamento verso forme sempre più drammaticamente religiose, ricche di significati escatologici e caratterizzate da convenzioni stilistiche volutamente arcaizzanti, che lasciarono sostanzialmente isolato l’artista nel panorama artistico dell’epoca.


Il pathos che si respira nel quadro è eloquente e ricorda il canto del partito savonaroliano Al vaglio, al vaglio, venite tutti quanti e con amari pianti. Non mancano però elementi della cultura umanistica, come la scritta in greco che corre lungo l’estremità superiore della tavola, che riporta la data e alcuni riferimenti alle condizioni dell’Italia in quel frangente, che vengono definite “torbide”. Per molti studiosi l’iscrizione sarebbe un riferimento indiretto al Savonarola e all’avverarsi delle profezie catastrofiche.


Stile

La tela è caratterizzata da colori squillanti ripetuti ritmicamente (come nelle vesti alternate degli angeli) e da una disposizione estremamente libera delle figure, ormai lontana dalla rigida geometria prospettica della cultura fiorentina del primo Quattrocento. Numerosi sono gli elementi arcaizzanti, a partire dal fondo oro, per proseguire con le proporzioni gerarchiche, che rimpiccioliscono gli angeli rispetto alla Sacra Famiglia, fino alla presenza dei cartigli legati ai rami d’ulivo.



Simbologie

Il cerchio degli angeli rappresenta la danza della vita, simbolo di fecondità e rigenerazione spirituale. Il motivo della caverna è strettamente correlato alla missione terrena di Cristo, il Salvatore delle anime dei giusti. Alla vista del Redentore i demoni fuggono dalla superficie terrestre per rifugiarsi nell'oscurità degli inferi. In basso, il ramoscello di olivo e l’abbraccio degli angeli simboleggiano la pace universale, che si diffonderà sulla terra dopo la venuta del Salvatore.


M.P.F.

lunedì 14 dicembre 2020

La Tempesta di Girgione

 

La verità   che si nasconde nella Tempesta


Giorgione, La tempesta; 1507-1510 (Venezia, Gallerie dell’Accademia)

Le opere d’arte sono come le persone, di diverso tipo e qualità. Tutte, in qualche modo, ti parlano, ma pochissime hanno il potere di ammaliare.

È il caso della Tempesta di Giorgione, un dipinto che ha stregato generazioni di studiosi: una specie di stupenda, irresistibile sirena.

Il colore tonale è evidente come nelle altre opere di Giorgione. È difficile dare una spiegazione plausibile dei due personaggi: un uomo in piedi, a sinistra, appoggiato a un lungo bastone, lo sguardo rivolto da un lato; una donna nuda, a destra, seduta su un candido lenzuolo (con un lembo del quale si copre le spalle), in atto di allattare un bambino. Di essi sono state date varie interpretazioni: Mercurio e Iside, o l’infanzia di Paride, o la ninfa Io sorvegliata da Mercurio, o una derivazione da un testo molto noto in quegli anni (La Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna).

Ma, anche in questo caso, la difficoltà nel riconoscere la storia narrata è dovuta alla scarsa importanza che Giorgione le attribuisce. L’uomo e la donna sono protagonisti di una storia.


Sono il simbolo dell’umanità, una delle composizioni del mondo, compartecipi del luogo ove vivono, nell’attesa dell’evento naturale che sta per accadere: il prossimo scrosciare della pioggia dal cielo carico di nubi minacciose, squarciate dal lampo improvviso di un fulmine. La nostra attenzione infatti è attratta non soltanto da loro, ma anche da questo evento, dal rialzo roccioso, dal prato, dai cespugli, dagli alberi, dai ruderi, dal corso d’acqua sulle rive sorge una cittadina veneta e dal ponte ligneo che lo attraversa: il mondo creato dalla natura e quello dell’uomo, che convivono paritariamente; la pioggia ristoratrice, che sta per scendere sulla terra, una terra feconda, ricca di verde, come è feconda l’umanità: non a caso in primo piano è la coppia umana, primo nucleo della società, e la donna è rappresentata mentre adempie a uno dei suoi compiti di madre. Tutto e la donna è vivente, tutto è mobile, per quella mobilità che è insita nel perenne rigenerarsi delle cose, per quella mobilità che è nel nostro stesso modo di guardare e che Giorgione rende rivoluzionariamente, con obliquità delle verticali (più sensibile nelle rovine, ma presente anche nei sostegni del ponte e nelle case), a torto ritenuta un tempo errore: mezzo, anche, per trasmettere allo spettatore il tremito del terreno allo scoppio improvviso del tuono.


Per questo, dunque, il significato del tema – certamente noto ai pochi intellettuali contemporanei che frequentavano casa Vendramin ove la tela era conservata – scompare di fronte al significato naturista.

Il primo che ne scrisse fu Marcantonio Michiel, un patrizio veneziano appassionato d’arte, che tra il 1520 e il 1540 si appuntò in un quaderno le opere più interessanti viste nei luoghi pubblici e nelle collezioni private a Venezia e di altre città della Serenissima. Quel taccuino è giunto fino a noi e si conserva alla Biblioteca Marciana. Alla carta 65 registra <<el paesetto il tela cum la tempesta, cum cingara et soldato, fo de mano di Zorzi da Castelfranco>>. Si trovava nel palazzo di un ricco e colto mercante di saponi, Gabriele Vendramin.


Era il 1530 e di certo Michiel ammirò il quadro accompagnato dal proprietario, a cui si può presumere che abbia lumi sul “soggetto”. Quale che sia stata la risposta del Vendramin, al suo ritorno si appuntò solo la descrizione minimale degli elementi figurativi: ossia <<un paesaggio, un temporale, una zingara e un soldato>>. Erano passati vent’anni dalla morte, per peste, di Giorgione e almeno venticinque dall’esecuzione del dipinto, che in effetti non sappiamo per chi venne realizzato. L’ipotesi che il committente fosse lo stesso Vendramin, non escludibile, appare però meno probabile di quella che lo immagina sempre acquirente e ciò spiegherebbe anche le ragioni per cui questi non fornì a Michiel informazioni precise sul “tema”.

Ma c’era davvero un tema da riferire? <<Il soggetto è la natura>>, scrisse Lionello Venturi (1913), mentre più di recente Collin Elsier (2002) lo considerò il primo “capriccio” della pittura veneziana, ossia una raffigurazione fantastica, ottenuta ricombinando liberamente elementi eterogenei. Nonostante le raccomandazioni del Vendramin – che implorò che i suoi “tesori” non si potessero <<vender, né impegnar, né prestar, né tute né parte soto alcuna forma che dir et immaginar si possi>> - dopo varie vicissitudini, nel XVII secolo il quadro passò a Cristoforo Orsetfrin, prima del 1875 al principe Giuseppe Giovanelli e nel 1932 fu acquistato dallo Stato italiano per le Gallerie dell’Accademia. Da quel momento divenne non solo “il capolavoro” del maestro di Castelfranco, ma un icona del Rinascimento europeo.


Tanti specialisti si misero alla prova per risolvere l’enigma iconografico e ne scaturì una pioggia di letture divergenti. Quando nel 1978 un ancor giovane Salvatore Settis decise di pubblicare un libro sul dipinto (La “Tempesta” interpretata: Giorgione, i committenti, il soggetto) mise in fila poco meno di una trentina di proposte. Avanzò anche lui la sua (Adamo ed Eva), ma – nonostante l’eccezionale capacità argomentativa dell’autore – non troppi vollero credergli. E l’interrogazione della sfinge ripartì. Da allora, quasi ogni anno si pubblica una “nuova” interpretazione della Tempesta, in saggi e libri. L’ultimo è quello di Patrizio Turi – La Tempesta di Giorgione: (Caritas) nulli cedit (editore Gli Ori) -, ma è solo l’anello di una catena interminabile, che alterna letture più o meno plausibili ed altre improbabili, se non deliranti. Inutile dire che questi tentativi, spesso eruditi e ingegnosi, alla fine sembrano elidersi l’un con l’altro. Del resto, è proprio la tipicità iconografica a scatenare un simile, inarrestabile “accanimento ermeneutico”, che pare destinato a protrarsi in eterno. O almeno fino a quando non emergeranno inediti e inoppugnabili elementi di rilettura storica.

M.P.F.