De Chirico e la Metafisica
Al Palazzo Blu di Pisa
<< Per emulsioni e il mio olio emplastico, che possano dare
alla materia della mia pittura sempre maggior trasparenza e densità, sempre
maggior splendore e fluidità, io mi perdo in sogni bizzarri davanti allo
spettacolo della mia pittura e mi sprofondo in riflessioni sulla scienza della
pittura e sul grande mistero dell’arte>>.
Lo affermava Giorgio de
Chirico, padre della
Metafisica, uno dei fondamentali contributi dell’Italia alle avanguardie
storiche del’ 900. Ed è proprio all’artista che è dedicata la mostra antologica
De Chirico e la Metafisica allestita a Pisa, all’interno delle sale di Palazzo Blu aperta
fino al 9 maggio 2021.
L’esposizione
ripercorre la ricerca, in continua evoluzione, di De Chirico che,
dopo aver dato i natali alla Metafisica nel 1910, è tornato costantemente ad
alimentarsi alla sua fonte, dando vita, in periodi diversi alle stagioni della
cosiddetta “seconda
Metafisica” e della “Neometafisica”: Stagioni
a lungo sottovalutate, a causa di un diffuso
pregiudizio alimentato dal poeta André Breton – autore del
Manifesto del Surrealismo – secondo il quale un’infelice e precoce senescenza
avrebbe colpito l’artista dopo le sue prime, geniali, opere metafisiche.
Un’interpretazione parziale e tendenziosa che, dopo aver restituito per un lungo periodo anche in Italia, entra in crisi nei primi anni Settanta, quando un’importante retrospettiva di de Chirico a Palazzo Reale a Milano segna un considerevole mutamento nella ricezione critica della sua opera.
La figura di de Chirico, così inizia a non essere
più vista esclusivamente come quella, prestigiosa ma pur sempre riduttiva, di
precursore del Surrealismo, ma viene valutata guardando all’intera sua
produzione.
La retrospettiva racconta l’opera del ‘Pictor
optimus’ attraverso un percorso fatto di immagini e parole, ma anche partenze e
ritorni, che hanno segnato profondamente il ventesimo secolo e che ancora oggi
sono fonte di ispirazione per le nuove generazioni di artisti.
Il fulcro di questa mostra è rappresentato dai “de Chirico di de Chirico”, un grande numero
di opere provenienti dalla Galleria
Nazionale di Roma – donate nel 1987 dalla moglie del pittore,
Isabella – e dalla Fondazione Giorgio e Isa de Chirico.
Inoltre, grazie al supporto delle più
prestigiose istituzioni nazionali d’arte moderna, come la Pinacoteca di
Brera e il Museo di arte moderna di Trento e Rovereto (MART), è possibile
ammirare all’interno di Palazzo Blu, una serie di capolavori dell’artista.
L’esposizione presenta le opere di tutta la
prestigiosa carriera del pittore e scultore, seguendo un percorso cronologico
che attraversa il lavoro di de Chirico in ogni suo sviluppo, fase e nodi
tematici.
De Chirico immagina vedute di città antiche
che si sovrappongono a città moderne riprese da luoghi di vita vissuta, prima
Volos e Atene, poi Monaco di Baviera, Milano, Firenze, Torino, Parigi, Ferrara,
New York, Venezia, Roma.
Sono luoghi in cui lo spazio pubblico disabitato dall’uomo viene popolato da oggetti – frammenti, rovine, archi, portici, angoli di strade, muri, edifici, torri, ciminiere, treni, statue, manichini – che, estraniati dal loro abituale contesto, emergono con tutta la loro forza iconica diventando irreali, misteriosi, enigmatici.
Un esempio calzante è quello del famosissimo
dipinto Le muse inquietanti, realizzato tra il
1917 e il 1918, dove de Chirico fissa per sempre una concezione del mondo e del
rapporto tra l’uomo e la realtà.
Il mondo, attraverso la metafora della città di Ferrara, è un insieme di cose dominate da una fatalità illogica, un mistero incomprensibile che solo l’intuizione poetica può tentare di comprendere. L’opera è dominata da un clima di silenzio ed inquietudine, angoscia e disperazione, che traspaiono anche dalle figure senza occhi, che prendono spunto dall’idea dell’enigmatico uomo-manichino del fratello dell’artista, Alberto Savino.
Superata la concezione di un de Chirico
geniale solo nel breve periodo che va dal 1910 al 1923, è possibile rileggere
l’intero sviluppo della sua lunga ricerca come un lucido ed eclettico percorso
attraverso le sale di un museo ideale, che dagli esordi classico-romantici,
ispirati da Böcklin e Kliger,
conduce alla pittura metafisica, e del periodo “neo-barocco” del dopoguerra
alla rivoluzione di se stesso e alle nuove ispirazioni della Neometafisica.
In questa progressione, anche il periodo
metafisico assume un significato più organico rispetto al resto della carriera
e divenire perfettamente coerente parlare – come ha ripetutamente fatto
Maurizio Calvesi – di una “Metafisica continua”.
La mostra ha anche il merito di rimettere in
luce quella che oggi possiamo considerare la disseminazione della visione
metafisica che, inventata da de Chirico nel 1910, ha poi portato fioriture
internazionali che ritroviamo nelle diramazioni di grandi artisti come Carrà, , Savino e
de Pisis, ma anche di Sironi e Martini.
Questi artisti, presenti in mostra grazie ad
alcuni prestiti, più che formare una scuola o un movimento, hanno saputo
recepire e rielaborare in modo personale la potente influenza di de Chirico
che, alla metà degli anni Dieci, aveva già prodotto dei capolavori fondamentali
per l’arte del Novecento, come, ad esempio le piazze d’Italia, Il Canto
d’amore (1914) o Il Vaticinatore (1915).
<<Perché un’opera d’arte sia veramente immortale, deve uscire completamente dai confini dell’umano: l’intelligenza media e la logica le nuocciono. La concezione di un’opera d’arte che afferra una cosa che come tale non ha alcun senso, alcun tema, che dal punto di vista della logica umana non vuole assolutamente dir nulla. Lo dico che una tale rivelazione o concezione dev’essere in noi così forte, deve apportare tal gioia o tale dolore, che noi siamo costretti a dipingere, come il morto di fame a addentare un pezzo di pane che gli capita tra le dita>>.
Queste parole
rappresentano, in maniera simbolica, la potenza espressiva che par venir fuori
dalle stesse opere di de Chirico; capolavori immortali, in continuo dialogo tra
la storia, le varie correnti artistiche e gli enigmi esistenziali, del passato
e del presente.
E non sorprende che, a partire del 1968, a ottant’anni, l’artista ritorni ai temi che aveva trattato più di mezzo secolo prima. In Visione metafisica di New York, 1975, per esempio, dipinge cataste di squadre triangolari in una stanza magica, come quando era militare a Ferrara, ma ormai non esprime più l’angoscia dell’assurdo, anzi ci raggiunge con un senso di gioco. Con Palazzeschi avrebbe potuto dire: “E lasciatemi divertire”.
M.P.F.
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