La verità che si nasconde nella Tempesta
Giorgione, La tempesta; 1507-1510 (Venezia,
Gallerie dell’Accademia)
Le
opere d’arte sono come le persone, di diverso tipo e qualità. Tutte, in qualche
modo, ti parlano, ma pochissime hanno il potere di ammaliare.
È il caso della Tempesta di Giorgione, un
dipinto che ha stregato generazioni di studiosi: una specie di stupenda,
irresistibile sirena.
Il
colore tonale è evidente come nelle altre opere di Giorgione. È difficile dare
una spiegazione plausibile dei due personaggi: un uomo in piedi, a sinistra,
appoggiato a un lungo bastone, lo sguardo rivolto da un lato; una donna nuda, a
destra, seduta su un candido lenzuolo (con un lembo del quale si copre le
spalle), in atto di allattare un bambino. Di essi sono state date varie
interpretazioni: Mercurio e Iside, o l’infanzia di Paride, o la ninfa Io
sorvegliata da Mercurio, o una derivazione da un testo molto noto in quegli
anni (La Hypnerotomachia
Poliphili di
Francesco Colonna).
Ma, anche in questo caso, la difficoltà nel riconoscere la storia narrata è dovuta alla scarsa importanza che Giorgione le attribuisce. L’uomo e la donna sono protagonisti di una storia.
Sono il simbolo dell’umanità, una delle composizioni del mondo, compartecipi del luogo ove vivono, nell’attesa dell’evento naturale che sta per accadere: il prossimo scrosciare della pioggia dal cielo carico di nubi minacciose, squarciate dal lampo improvviso di un fulmine. La nostra attenzione infatti è attratta non soltanto da loro, ma anche da questo evento, dal rialzo roccioso, dal prato, dai cespugli, dagli alberi, dai ruderi, dal corso d’acqua sulle rive sorge una cittadina veneta e dal ponte ligneo che lo attraversa: il mondo creato dalla natura e quello dell’uomo, che convivono paritariamente; la pioggia ristoratrice, che sta per scendere sulla terra, una terra feconda, ricca di verde, come è feconda l’umanità: non a caso in primo piano è la coppia umana, primo nucleo della società, e la donna è rappresentata mentre adempie a uno dei suoi compiti di madre. Tutto e la donna è vivente, tutto è mobile, per quella mobilità che è insita nel perenne rigenerarsi delle cose, per quella mobilità che è nel nostro stesso modo di guardare e che Giorgione rende rivoluzionariamente, con obliquità delle verticali (più sensibile nelle rovine, ma presente anche nei sostegni del ponte e nelle case), a torto ritenuta un tempo errore: mezzo, anche, per trasmettere allo spettatore il tremito del terreno allo scoppio improvviso del tuono.
Per
questo, dunque, il significato del tema – certamente noto ai pochi
intellettuali contemporanei che frequentavano casa Vendramin ove la tela era
conservata – scompare di fronte al significato naturista.
Il primo che ne scrisse fu Marcantonio Michiel, un patrizio veneziano appassionato d’arte, che tra il 1520 e il 1540 si appuntò in un quaderno le opere più interessanti viste nei luoghi pubblici e nelle collezioni private a Venezia e di altre città della Serenissima. Quel taccuino è giunto fino a noi e si conserva alla Biblioteca Marciana. Alla carta 65 registra <<el paesetto il tela cum la tempesta, cum cingara et soldato, fo de mano di Zorzi da Castelfranco>>. Si trovava nel palazzo di un ricco e colto mercante di saponi, Gabriele Vendramin.
Era il 1530 e di certo Michiel ammirò il quadro accompagnato dal proprietario, a cui si può presumere che abbia lumi sul “soggetto”. Quale che sia stata la risposta del Vendramin, al suo ritorno si appuntò solo la descrizione minimale degli elementi figurativi: ossia <<un paesaggio, un temporale, una zingara e un soldato>>. Erano passati vent’anni dalla morte, per peste, di Giorgione e almeno venticinque dall’esecuzione del dipinto, che in effetti non sappiamo per chi venne realizzato. L’ipotesi che il committente fosse lo stesso Vendramin, non escludibile, appare però meno probabile di quella che lo immagina sempre acquirente e ciò spiegherebbe anche le ragioni per cui questi non fornì a Michiel informazioni precise sul “tema”.
Ma c’era davvero un tema da riferire? <<Il soggetto è la natura>>, scrisse Lionello Venturi (1913), mentre più di recente Collin Elsier (2002) lo considerò il primo “capriccio” della pittura veneziana, ossia una raffigurazione fantastica, ottenuta ricombinando liberamente elementi eterogenei. Nonostante le raccomandazioni del Vendramin – che implorò che i suoi “tesori” non si potessero <<vender, né impegnar, né prestar, né tute né parte soto alcuna forma che dir et immaginar si possi>> - dopo varie vicissitudini, nel XVII secolo il quadro passò a Cristoforo Orsetfrin, prima del 1875 al principe Giuseppe Giovanelli e nel 1932 fu acquistato dallo Stato italiano per le Gallerie dell’Accademia. Da quel momento divenne non solo “il capolavoro” del maestro di Castelfranco, ma un icona del Rinascimento europeo.
Tanti specialisti si misero alla prova per risolvere l’enigma iconografico e ne scaturì una pioggia di letture divergenti. Quando nel 1978 un ancor giovane Salvatore Settis decise di pubblicare un libro sul dipinto (La “Tempesta” interpretata: Giorgione, i committenti, il soggetto) mise in fila poco meno di una trentina di proposte. Avanzò anche lui la sua (Adamo ed Eva), ma – nonostante l’eccezionale capacità argomentativa dell’autore – non troppi vollero credergli. E l’interrogazione della sfinge ripartì. Da allora, quasi ogni anno si pubblica una “nuova” interpretazione della Tempesta, in saggi e libri. L’ultimo è quello di Patrizio Turi – La Tempesta di Giorgione: (Caritas) nulli cedit (editore Gli Ori) -, ma è solo l’anello di una catena interminabile, che alterna letture più o meno plausibili ed altre improbabili, se non deliranti. Inutile dire che questi tentativi, spesso eruditi e ingegnosi, alla fine sembrano elidersi l’un con l’altro. Del resto, è proprio la tipicità iconografica a scatenare un simile, inarrestabile “accanimento ermeneutico”, che pare destinato a protrarsi in eterno. O almeno fino a quando non emergeranno inediti e inoppugnabili elementi di rilettura storica.
M.P.F.
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