Coloro che amano Ferrara, che in essa vivono, o sono
stati – almeno una volta nella vita –
visitatori non superficiali o disattenti
di questa città “radiosa e magnetica”; hanno attinto a piene mani alle sorgenti
della sua bellezza; ne hanno ammirato la struttura urbanistica di “prima città
del Rinascimento”; sono rimasti abbagliati da quella luce che taglia il
diamante – palazzo dei Diamanti e la Cattedrale ne sono l’emblema -; oppure,
avvolti nelle nebbie
autunnali hanno
sperimentato un’atmosfera magica e diversa: ebbene, tutti noi – ché mi ci metto
anch’io – ci sentiamo orgogliosi di queste esperienze, che costituiscono un
tratto distintivo, una forma d’ essere prima che di vivere. Le sensazioni visive, olfattive, che
catturano i sensi e rimandano ad universi immaginifici, quantunque
costituiscano
un’esperienza unica, sembrano tuttavia essere generate all’interno
di un caleidoscopio e quello che, in un primo tempo pareva favoriva un percorso
facilitato, può diventare – paradossalmente – un ostacolo. Come direbbe Italo Calvino, ≪per vedere una città
non basta tenere gli occhi aperti. Occorre per prima cosa scartare tutto ciò
che impedisce di vederla, tutte le idee ricevute, le immagini precostituite che
continuano a ingombrare il campo visivo e la capacità di comprendere. Poi
occorre saper semplificare, ridurre
all’essenziale l’enorme numero di elementi
che ad ogni secondo la città mette sotto gli occhi di chi la guarda e collegare
i frammenti sparsi in un disegno analitico e insieme unitario≫. “Sgombrare il
campo visivo”, “ridurre all’essenziale”: sono verbi che decliniamo nell’ambito
della percezione ottica: ma quando si tratta di “collegare i frammenti sparsi
in un disegno unitario” sorge spontaneo il sospetto che dall’estetica (kantianamente
intesa) si passi ad una cifra esistenziale:
dalla stanchezza delle ombre che si allungano in ≪un tardo pomeriggio
ontologico≫ come direbbe George Steiner, alla tensione verso ≪un colpo d’ala che
vinca le sue resistenze ancestrali che la relegano verso i livelli infimi delle
statistiche≫, Più che elementi di una
ricomposizione gestaltica, sono” frammenti di un discorso amoroso”, citando un
celebre testo di
Roland Barthes degli anni ’70. Tutto questo pensavo in
occasione dei 91 anni di Carlo Bassi che cadono tra alcuni giorni. Carlo non ha
certamente bisogno delle mie parole per essere celebrato in questa fausta
ricorrenza né “scoperto” per qualche cosa che non sia nota: vive e lavora a
Milano pensando a Ferrara, ha detto di se stesso. Questo amore di loco natìo
sostanzia molte delle riflessioni che Carlo Bassi, architetto come Biagio
Rossetti, ci dona costantemente.
Sollecitato – per sua ammissione - da Claudio Magris nel suo Microcosmi
ecco Jorge Luis Borges: quel paziente labirinto di linee con cui l’uomo si
propone il compito di disegnare il mondo traccia l’immagine del suo volto. Grazie, Carlo!
martedì 30 dicembre 2014
venerdì 26 dicembre 2014
MIRO' L'impulso creativo
MIRÓ
L’impulso creativo
“Ciò che conta non è un’opera, ma la
traiettoria dello spirito nell’arco di un’intera vita, ma quello che si è fatto
nel corso di essa, bensì ciò che essa lascia intravedere e permetterà che altri
facciano in una data più o meno lontana”.
Joan Mirò
Si è aperta alle Fruttiere di
Palazzo Te di Mantova la mostra “Mirò. L’impulso creativo”, aperta fino al 6
aprile 2015, realizzata in collaborazione con la Fundaciò Pilar i Joan Mirò a
Mallorca e curata da Elvira Cámara Lòpez, direttore della
Fondazione.
Joan Mirò (Barcellona, 1893 –
Palma di Maiorca, 1983) opera con una pittura che nasce spontaneamente, in uno
stato di grazia che gli permette di immaginare forme, di accostarle, di
colorarle vivacemente, con una fantasia simile a quella del fanciullo, in una
sorta di perenne <<primitivismo>> ingenuo che ha fatto dire di lui
a Breton: la sua <<personalità è rimasta allo stadio infantile>>.
Accettando la poetica del
<<fanciullino>> pascoliano che è istintiva,
si può concludere che Mirò è pittore puro.
Ciò non significa che sia un naïf , anche se, qua e là, affiorano spesso nelle sue opere
elementi che sembrano collegarlo alla pittura ingenua del dilettante.
Per esempio ne La fattoria, l’ultimo quadro di Mirò in
cui è chiaramente riconoscibile il tema paesistico, la cura meticolosa con cui
ogni elemento è realizzato sembra caratteristica del pittore naïf che tende all’analisi piuttosto che alla sintesi.
Ma se si osserva la sapienza
compositiva e cromatica ci si rende conto che, sotto l’ingenuità, c’è al
contrario un’alta professionalità e una profonda maturazione intellettuale.
Questa felicità espressiva,
questa serenità resterà fondamentale per tutta l’attività di Mirò, anche quando
giunto definitivamente a Parigi, dopo avere alternato ai soggiorni nella nativa
Barcellona e nella campagna spagnola quelli nella capitale francese, compie il
salto verso una pittura apparentemente diversa.
Parigi è la meta agoniata da
Mirò per liberarsi dagli impacci provinciali:<< Bisogna andare a Parigi
come un lottatore>>, dice; <<PARIGI, PARIGI, PARIGI>>, scrive
ad un amico in lettere maiuscole; oppure: <<preferisco essere
assolutamente un fallito, mortalmente fallito a Parigi, piuttosto che
galleggiare sulle acque putride di Barcellona>>. Parigi è veramente il centro
culturale più importante d’Europa; a Parigi vivono, o vi hanno soggiornato, gli
ingegni più vivi del mondo, europei e americani, pittori, scultori, poeti,
letterati, filosofi.
A Parigi entra in contatto
con l’avanguardia, a Parigi espone, a Parigi aderisce al surrealismo. Anzi,
prima ancora che Breton pubblichi il manifesto surrealista compone quel Carnevale d’Arlecchino che è opera
altamente rappresentativa del particolare surrealismo di Mirò.
Mirò è pittore fecondissimo;
la sua fantasia non conosce pause, pur restando sempre fedele alla propria
concezione serena, che si incrina soltanto nelle ore drammatiche che vive tutta
l’Europa negli anni successivi al ’30. In modo particolare Mirò, spagnolo,
soffre il terribile momento della guerra civile in Spagna.
In questi anni crea le
cosiddette <<pitture selvagge>> e la serie dei mostri, quasi ricordando Goya, opere in cui non tanto il tema
drammatico, quanto lo stile si ammanta di dolore con i colori che incupiscono e
le forme degli oggetti che si contraggono drammaticamente.
Più tardi, mutata la
situazione, la pittura di Mirò si rasserena nuovamente, per esempio nella serie
delle Costellazioni, nei pannelli per
il Palazzo Unesco a Parigi, nelle ceramiche, sempre con uguale ricchezza nella
<<germinazione spontanea di immagini nuove>> perché, come ha detto
lui stesso, <<la pittura deve essere feconda; dovrebbe far nascere un
mondo>>.
Nella mostra di Palazzo Te,
il visitatore, attraverso 5 sezioni – Il
gesto, la forza del nero, il trattamento dei fondi, L’eloquenza della
semplicità e la sperimentazione con i materiali – può percepire la forza,
il bisogno di ricerca e rinnovamento, nonché l’assenza di vincoli che
rappresentano il fil rouge del processo creativo e realizzativo di Mirò.
Lungo il percorso di visita
sono stati, inoltre, ricostruiti i due atelier in cui, a Maiorca, Mirò realizzò
le sue creazioni: il primo, lo studio Sert, l’ampio salone illuminato di luce
naturale in cui, il maestro catalano, circondato da cavalletti, tele di tutte
le dimensioni e stadi di avanzamento di lavoro, oggetti di uso quotidiano,
terrecotte, piccoli ninnoli, ritagli di giornale appesi alla parete e dalla
natura, creava le sue tele senza eguali; il
secondo, è lo studio Son Boter, uno spazio più spartano e raccolto, voluto fortemente da Mirò per continuare la propria ricerca creativa e la sperimentazione di materiali. È questo un atelier dedicato soprattutto alla scultura e alla realizzazione delle tele di grande formato. La sua particolarità sono i numerosi graffiti lasciati dall’artista sulle pareti degli ambienti: una testimonianza diretta del modo di assembleare elementi diversi e di farli divenire il proprio “punto di partenza”.
secondo, è lo studio Son Boter, uno spazio più spartano e raccolto, voluto fortemente da Mirò per continuare la propria ricerca creativa e la sperimentazione di materiali. È questo un atelier dedicato soprattutto alla scultura e alla realizzazione delle tele di grande formato. La sua particolarità sono i numerosi graffiti lasciati dall’artista sulle pareti degli ambienti: una testimonianza diretta del modo di assembleare elementi diversi e di farli divenire il proprio “punto di partenza”.
giovedì 25 dicembre 2014
Una meditazione sul Natale di don Franco Patruno per l'Osservatore Romano del dicembre 1999
Il cammino della storia della salvezza si presenta
come paradossale, come è dimostrato dal fatto che una teologia biblica della
storia non può totalmente coincidere con
il divenire degli eventi in quanto tali.
Il Natale, infatti, non è il punto culminante di una
evoluzione, nè un ritorno ciclico ad una età primigenia, quasi un ritorno al
Paradiso terrestre. Quando si parla di “pienezza del tempo”, questa non può
essere intesa come un vertice geometricamente misurabile: è sempre l’intervento
divino, assolutamente libero e trascendente, che realizza lo splendore cantato
nel prologo di Giovanni, cioè il Verbo che si fa carne. Non appaia inopportuno
un parallelo, puramente analogico s’intende, con il possibile cammino delle
forme d’arte. Come segno offertoriale della creatività umana, l’arte stessa
riflette in un modo particolare quell’immagine e somiglianza che il Creatore ha
partecipato all’uomo e al suo destino. Una riflessione sul pellegrinaggio delle
forme artistiche può quindi aiutare una meditazione su quell’itinerario di fede
che culmina con l’intervento definitivo del Padre nella storia degli uomini: il
Natale.
L’idea di un cammino dell’arte, cioè di un procedere
verso una meta, può presupporre uno sviluppo ed una evoluzione. Bisogna però
liberare i due termini dall’illuministica concezione che le opere d’arte, come
pure quella che noi chiamiamo “storia dell’arte”, abbiano urgenza o interna
necessità di “andare verso il meglio”.
In altri termini: il pellegrinaggio dell’arte non prevede che, avvicinandosi ad
una meta che si crede simbolicamente significativa, ciò che un giorno si
realizzerà sarà “necessariamente” più qualitativo di ciò che lo ha preceduto.
Cioè: più bello e più artistico. Purtroppo, un’implicita prospettiva
evoluzionistica governa altrettanto impliciti giudizi: l’opera dei “primitivi”
deve liberarsi progressivamente da ambigue e “grossolane” forme per accedere
alla superna bellezza della perfezione classica, raggiunta, e non è un caso si
ripeta il termine classico, nel periodo “aureo” dell’arte greca. Ricordiamo gli
effetti di questa filosofia dell’arte: in un determinato periodo storico si è
raggiunta la perfezione degli equilibri formali, specchio degli equilibri che
devono presiedere la vita sociale. Allora ad un cammino verso una meta che si è
concluso in passato, deve corrispondere un “salto all’indietro”, cioè un
percorso a ritroso; ed anche gli edifici ecclesiastici, come pure le singole
rappresentazioni pittoriche e plastiche, troveranno misura, equilibrio e giusta
proporzione riproducendo schermi che manifestino il “pondus” dell’arte greca
nel suo periodo aureo.
Altro cammino ambiguo e fascinoso è quello che percorre la storia secondo ritmi biologici e che rivive romanticamente i cicli delle stagioni. Strano pellegrinaggio questo, ma largamente accettato anche da chi non ne conosce le premesse ideologiche: ad un periodo di fioritura e di pienezza naturalistica, fa seguito la decadenza dell’autunno e del gelido inverno, nell’attesa della primavera delle rinnovate intuizioni creative. Questa visione ciclica della storia porta con sé il cammino non solo delle forme ma pure del pensiero: è in questo contesto che anche l’arte cristiana patisce indebite “decadenze”. Si pensi alla puntualizzazione delle forme barbariche che, secondo un errato concetto di imitazione della bella natura, vengono interpretate come rozze stilizzazioni senza “grazia né beltade”.
Altro cammino ambiguo e fascinoso è quello che percorre la storia secondo ritmi biologici e che rivive romanticamente i cicli delle stagioni. Strano pellegrinaggio questo, ma largamente accettato anche da chi non ne conosce le premesse ideologiche: ad un periodo di fioritura e di pienezza naturalistica, fa seguito la decadenza dell’autunno e del gelido inverno, nell’attesa della primavera delle rinnovate intuizioni creative. Questa visione ciclica della storia porta con sé il cammino non solo delle forme ma pure del pensiero: è in questo contesto che anche l’arte cristiana patisce indebite “decadenze”. Si pensi alla puntualizzazione delle forme barbariche che, secondo un errato concetto di imitazione della bella natura, vengono interpretate come rozze stilizzazioni senza “grazia né beltade”.
Si potrebbe tracciare un grafico sia del modello
evolutivo che di quello ciclico-biologico: nell’uno e nell’altro caso la
ricerca della meta non è la forma in se stessa, ma la semplice verifica
dell’intreccio di elementi che la compongono e che la qualificano come minore o
maggiore secondo la fase storica che sta vivendo. Storicismi di vecchia e nuova
data si alternano in una lettura predisposta non solo alla precomprensione ma
al pregiudizio. E’ penoso notare che la condanna generica del secolo che stiamo
vivendo, (incluso, per facilità di schemi immediatamente gratificanti, nella
categoria della “modernità”) abbia invece liberato il nostro sguardo da questa
incapacità di vedere e comprendere il cammino dell’arte. Recependo con stupore
la bellezza della “Deposizione” di Rosso Fiorentino a Volterra, ci si è accorti
dell’assoluta novità di quella “maniera” un tempo disprezzata. Ma se si osa ben
oltre, la meraviglia per gli spazi inediti delle formelle del portale di San
Zeno a Verona hanno abilitato l’occhio vigile e attento a non includerle in un
augusto cammino verso la pienezza di forma tardo medioevale. Il cammino
dell’arte, come hanno inteso felicemente Focillon e Pareyson, è costruito e
definito dalle forme in se stesse. La loro autonomia non è un’arte per l’arte
che può ricordare il limite dello stadio estetico descritto da Kierkegaard.
Mentre l’autocompiacenza della forma per la forma, isolando questa dalla
storia, ne fa un semplice abbellimento salottiero, la forma in sé autonoma “si
tiene in mano”, come direbbe Guardini. Ciò significa che è nell’opera d’arte
che la storia è incisa. Si pensi, come esemplificazione, all’”Annunciazione” di
Cosmè Tura nel Museo dell’Opera del Duomo di Ferrara. L’intuizione dell’artista
ha saputo unire elementi cari alla tradizione medioevale con alti di evidente
impatto fiammingo.
Roberto Longhi ha reso familiari i modi del Tura per
quest’opera di acculturazione e di inculturazione, constatando la novità e
l’assoluta irripetibilità di questa intuizione felicemente realizzata
nell’opera. All’interno della pala del Tura, gli studi iconologici hanno
interpretato sogni e simboli della cultura del tempo, compreso il fascino di
astrologiche inclusioni. La storia, quindi, nell’opera; e l’opera stessa
testimonianza storica a tutti gli effetti. Ma non sarebbe completo questo
cammino di lettura se si fermasse alla sola ricognizione dei segni e dei simboli
in essa presenti. E’ un giudizio globale invece che, come sguardo non ingenuo,
ci porta a dire che l’opera è “riuscita”, nel senso che nessun elemento le
manca per essere quella che è. In questa globalità di sguardo e di giudizio
abita lo stupore e la meraviglia per tale compimento. Allora il cammino
dell’arte si fa meno impreciso, soprattutto se liberato da preconcetti di
evoluzione o involuzione, da ciclici ritorni o avvertenze di decadenza
autunnale.
Certo, in questo cammino del quale è complesso disegnare
la mappa del percorso, l’evoluzione dei mezzi tecnici non viene negata; anzi,
questa conferma che da sola non è sufficiente per definire la qualità
dell’opera.
Se il Novecento che è giunto al termine ha vissuto
un’accellerazione stupefacente delle possibilità tecniche al limite della
virtualità, lo la velocità che ha caratterizzato il suo cammino non ha avuto
tempo di interiorizzarne le possibilità e nell’illusione di far coincidere la
progressione di mezzi con la qualità delle forme e delle opere.
Suo enorme pregio l’aver valutato e conservato il
cammino precedente anche attraverso il restauro che ridona primitivo splendore.
Il cammino dell’arte segue un ritmo che è di
formazione e trasformazione. Sono debitore da molti decenni, anche nell’uso di
alcuni termini, del pensiero estetico del Luigi Pareyson che, reagendo sia ad
una visione intimistica (o di pura espressione interiore) che ad una
prospettiva meramente sociologica delle forme intenzionalmente artistiche,
rivaluta l’antica tradizione della formatività che vede la contemporaneità
dell’operare personale dell’artista e della materia “in via di formazione verso
la riuscita”. Dal punto di vista dell’esperienza artigianale, formazione
significa un lento percorso di assimilazione e di “officina”: Botticelli e
Leonardo, pur nella già presente originalità del loro tratto pittorico,
dipingono due famosi angeli nel “Battesimo di Cristo” del loro maestro
Verrocchio. Esempio classico ma sempre efficace. L’originalità fiorisce nella
continuità. Il cammino è simile ad un tessuto nel quale l’imitazione del
maestro già suppone una metamorfosi.
Nel “Tributo della moneta” di Masaccio l’esemplificazione è eclatante: il maestro Masolino deve essere rimasto stordito dalle novità dell’impeto realista dell’allievo. La Cappella Brancacci al Carmine diventa così esempio di come l’originalità dell’impostazione spaziale, l’individuazione psicologica dei soggetti rappresentati e la centralità teologica del Cristo all’interno di un cilindro prospettico, non sono per nulla compromesse dal vincolo generativo, cioè dalla bottega di Masolino. Nel cammino delle forme intenzionalmente artistiche , alcune di esse manifestano una così prepotente novità che sembra interrompere la tradizione per indicare vie totalmente inedite. Si pensi, oltre al significativo esempio del “Tributo” masaccesco, all’impatto popolare con “La morte della Vergine” del Caravaggio o con la tragicità del non finito michelangiolesco nella “Pietà Rondanini”. Non c’è solo un cammino delle opere, ma anche della fruizione e dell’interpretazione, anche se questo non sempre è parallelo o simmetrico alle novità delle opere in quanto tali. Modalità espressive di realismo apparentemente popolare possono creare disagi nella continuità di una lettura abituata a sintesi plastiche più docilmente accattivanti. Ma Caravaggio è ben consapevole di non essere fuori da un cammino delle forme: la sua intuizione è prevalentemente luminosa, quasi giovannea nello svelare il massimo di verità dei volti in contrasti di ombre che subitaneamente evitano l’equivoco di un realismo di facile consumo crepuscolare.
Tutto il cammino dell’arte europea fino all’Olanda è conquistata da questo solco tracciato. Sembra, per alcuni decenni, che questo solco diventi “canonico” e quasi legge di perfezione. Ma già in Italia il “caravaggismo” assimila nuovi elementi dalle Fiandre, come dimostrano scuole che, come quelle di Genova, riescono ad intrecciare la luce caravaggesca a complesse scenografie simili alle scenotecniche teatrali. Ma ogni vera opera riuscita non è il frutto evolutivo che dal “basso” finalmente raggiunga vette insospettabilmente alte. Il cammino è sempre, anche quando l’originalità appare a tal punto impetuosa da non sopportare origini, di continuità e singolarità. In altri termini: pur essendo complesso l’intreccio di relazioni evidenti nella riuscita forma d’arte, l’opera non può esaurirsi in questa rete di rapporti. La sua compiuta ed autonoma realtà è oltre gli influssi evidenti, i richiami ad una scuola e l’uso di simbologie care ad un’epoca. Ciò vuol dire che il cammino interpretativo non può fermarsi solo alle necessarie metodologie di approccio, anche se queste hanno indubbia rilevanza per liberare lo sguardo da facili e spontaneistiche letture. La meta, quindi, non è solo un orizzonte futuro assicurato in anticipo: il suo divenire coincide con altre opere che ancora non sono, ma di cui il presagio e, in un qualche modo, l’anticipo è presente nell’apertura dell’opera stessa. In questo senso l’arte riflette, anche se solo per analogia, il destino dell’uomo che troverà compimento solo nel mistero di Dio.
Nel “Tributo della moneta” di Masaccio l’esemplificazione è eclatante: il maestro Masolino deve essere rimasto stordito dalle novità dell’impeto realista dell’allievo. La Cappella Brancacci al Carmine diventa così esempio di come l’originalità dell’impostazione spaziale, l’individuazione psicologica dei soggetti rappresentati e la centralità teologica del Cristo all’interno di un cilindro prospettico, non sono per nulla compromesse dal vincolo generativo, cioè dalla bottega di Masolino. Nel cammino delle forme intenzionalmente artistiche , alcune di esse manifestano una così prepotente novità che sembra interrompere la tradizione per indicare vie totalmente inedite. Si pensi, oltre al significativo esempio del “Tributo” masaccesco, all’impatto popolare con “La morte della Vergine” del Caravaggio o con la tragicità del non finito michelangiolesco nella “Pietà Rondanini”. Non c’è solo un cammino delle opere, ma anche della fruizione e dell’interpretazione, anche se questo non sempre è parallelo o simmetrico alle novità delle opere in quanto tali. Modalità espressive di realismo apparentemente popolare possono creare disagi nella continuità di una lettura abituata a sintesi plastiche più docilmente accattivanti. Ma Caravaggio è ben consapevole di non essere fuori da un cammino delle forme: la sua intuizione è prevalentemente luminosa, quasi giovannea nello svelare il massimo di verità dei volti in contrasti di ombre che subitaneamente evitano l’equivoco di un realismo di facile consumo crepuscolare.
Tutto il cammino dell’arte europea fino all’Olanda è conquistata da questo solco tracciato. Sembra, per alcuni decenni, che questo solco diventi “canonico” e quasi legge di perfezione. Ma già in Italia il “caravaggismo” assimila nuovi elementi dalle Fiandre, come dimostrano scuole che, come quelle di Genova, riescono ad intrecciare la luce caravaggesca a complesse scenografie simili alle scenotecniche teatrali. Ma ogni vera opera riuscita non è il frutto evolutivo che dal “basso” finalmente raggiunga vette insospettabilmente alte. Il cammino è sempre, anche quando l’originalità appare a tal punto impetuosa da non sopportare origini, di continuità e singolarità. In altri termini: pur essendo complesso l’intreccio di relazioni evidenti nella riuscita forma d’arte, l’opera non può esaurirsi in questa rete di rapporti. La sua compiuta ed autonoma realtà è oltre gli influssi evidenti, i richiami ad una scuola e l’uso di simbologie care ad un’epoca. Ciò vuol dire che il cammino interpretativo non può fermarsi solo alle necessarie metodologie di approccio, anche se queste hanno indubbia rilevanza per liberare lo sguardo da facili e spontaneistiche letture. La meta, quindi, non è solo un orizzonte futuro assicurato in anticipo: il suo divenire coincide con altre opere che ancora non sono, ma di cui il presagio e, in un qualche modo, l’anticipo è presente nell’apertura dell’opera stessa. In questo senso l’arte riflette, anche se solo per analogia, il destino dell’uomo che troverà compimento solo nel mistero di Dio.
…-12-1999
mercoledì 24 dicembre 2014
Omaggio a Piero Tosi
Omaggio al Maestro Piero Tosi
L’arte dei costumi di scena dalla
donazione Tirelli
Fino all’11 gennaio 2015 la Galleria del Costume di Palazzo Pitti ospita la
mostra dedicata a Pietro Tosi nell’anno
del conseguimento del premio Oscar onorario alla carriera con la seguente
motivazione “Pietro Tosi, un visionario i
cui incomparabili costumi superano il tempo facendo vivere l’arte nel film”.
Il Maestro ha lavorato per
anni come costumista teatrale, poi affermandosi soprattutto nel cinema a fianco
di grandi registi fra i quali vanno ricordati Luchino Visconti ed altri che
hanno contribuito a fare la storia del cinema italiano come Vittorio De Sica,
Federico Fellini, Mauro Bolognini, Liliana Cavani, Franco Zeffirelli e Pier
Paolo Pasolini. Tosi si è avvalso di sartorie teatrali di prestigio, come
quella di Umberto Tirelli, con la quale collabora ancor oggi a distanza di anni
dalla scomparsa di quest’ultimo.
La mostra dal titolo “Omaggio
al Maestro Piero Tosi. L’arte dei costumi di scena dalla Donazione Tirelli” a
cura di Cristina Chiarelli (catalogo Sillabe), propone una quindicina
di abiti di scena di Piero Tosi; questi
sono esposti nella sala da ballo del museo, nell’allestimento coordinato
dall’architetto Mauro Linari, e costituiscono un nucleo di grande importanza
storica e di innegabile fascino della ricca donazione fatta da Umberto Tirelli
alla Galleria del Costume nel 1986, comprendente abiti storici, costumi
teatrali e cinematografici.
Tra i costumi di scena
disegnati da Tosi che è possibile ammirare in mostra ricordiamo Medea (film;
Medea, regia di Pier Paolo Pasolini, interprete: Maria Callas), Elisabetta
(Sissi) (film: Ludwig, regia di Luchino Visconti, interprete Romy Schnaider),
Giuliana Hermil (film: L’innocente, interprete: Laura Antonelli); questi due
ultimi sono frutto di un sodalizio con Luchino Visconti che diede vita a vari
capolavori fondati su un rigore filologico perfetto.
La mostra si presenta come un
palcoscenico animato da figure di epoche diverse; ricche di colori, queste si
riflettono negli specchi della sala e sembrano raccontare ciascuna la sua
storia, sebbene in stretta relazione fra loro, unite dal fatto di essere tutte
costumi di scena realizzati dallo stesso artista. È
interessante scoprire singolarmente l’aderenza al vero, raggiunta dal Maestro
attraverso un’attenta osservazione dalla realtà e una profonda conoscenza
supportata da una ricca documentazione storica e iconografica. Ancor più
interessante è osservare come Piero Tosi, sempre partendo dall’osservazione
della realtà, raggiunga livelli altissimi nella sintesi geometrica del costume
di Mirandolina o nell’evocazione della cultura ancestrale in cui si svolge il
dramma di Medea nel film di Pasolini, espressa dalla materia dei tessuti e dei
decori.
Mentre l’abito storico è
legato alla persona per cui è stato confezionato, della quale illustra una
parte di vita e la sua posizione nella società, nel costume di scena alla
valenza storica del personaggio che si intende rappresentare, sia esso oggetto
di un riferimento storico, sia esso frutto della fantasia dell’autore del
testo, si aggiunge quella dell’attore che lo interpreta.
Il costume di scena diviene
così testimone del legame che si stabilisce fra il protagonista letterario e
l’attore e acquisisce quindi una duplice valenza: quella storica legata al
personaggio rappresentato e quella personale dell’attore, sia che egli indossi
un abito appositamente costruito per lui, sia che si metta addosso un costume
originale. Così nei costumi del Ludwig, dove
moderno e antico si fondano per completare l’illusione del vero, l’immagine
della principessa Elisabetta, Sissi, rimarrà sempre legata all’interpretazione
di Romy Schneider, mentre la figura iconica di un’arcaica Medea nel film di Pasolini,
non verrà mai scissa dal personaggio di Maria Callas. Per Medea
Pasolini aveva chiesto a Tosi “un assemblaggio delle cose più antiche, delle civiltà più lontane nel tempo e di tutte le tradizioni popolari”. Ma il lavoro divenne subito faticoso – ricorda Tosi – per i mutismi totali di Pasolini” sulle scelte del costumista. Solo dinanzi ai prototipi veri e propri, il regista aveva dato piena libertà al lavoro di Tosi. E rischiare sui materiali, reinventare il corpo del costume, sperimentare materiali inusuali completò la ricerca di Tosi verso quell’arcaicità della materia che più aveva convinto Pier Paolo Pasolini. Per i costumi della Colchide, delle sequenze che furono girate in Capadocia, vennero usate “terre naturali, ocre, marroni. Per quelli di Corinto mi ispirai al Pontormo, a Rosso Fiorentino: rosa, rossi, verdi pistacchio”.
Pasolini aveva chiesto a Tosi “un assemblaggio delle cose più antiche, delle civiltà più lontane nel tempo e di tutte le tradizioni popolari”. Ma il lavoro divenne subito faticoso – ricorda Tosi – per i mutismi totali di Pasolini” sulle scelte del costumista. Solo dinanzi ai prototipi veri e propri, il regista aveva dato piena libertà al lavoro di Tosi. E rischiare sui materiali, reinventare il corpo del costume, sperimentare materiali inusuali completò la ricerca di Tosi verso quell’arcaicità della materia che più aveva convinto Pier Paolo Pasolini. Per i costumi della Colchide, delle sequenze che furono girate in Capadocia, vennero usate “terre naturali, ocre, marroni. Per quelli di Corinto mi ispirai al Pontormo, a Rosso Fiorentino: rosa, rossi, verdi pistacchio”.
Il risultato, visibile ancora
oggi, è impressionante e unico: questi costumi, nella fattura, nei mantelli,
nei copricapo, nei gioielli, restituiscono una visione lontana dagli stereotipi
della Grecia antica. Il lavoro di Tosi ha come filo conduttore le civiltà
arcaiche del Mediterraneo (Ittiti, Fenici, Greci), ma il risultato è
un’interpretazione libera di queste forme, unite a suggestioni dal folklore e
dai retabli spagnoli del Cinquecento.
Al colore delle vesti di Medea (Maria Callas), quasi una Madonna, si
contrappone la pazienza dai ricami
blu e oro come paramenti sacri, con sopra gioielli in filigrana, quasi un
tutt’uno con la corona e il velo che chiudono l’abito in una drammatica icona
senza tempo.
Tosi ricorda come alcuni
registi, per primo Visconti, erano soliti assistere alle prove del costume. Con
Visconti decidevamo addirittura insieme “la ampiezze, i volumi, i tagli”. Come per rivivere un’epoca di
dettaglio in dettaglio; almeno nella resa visiva, almeno nella reale consistenza
formale delle stoffe e dei materiali.
Tosi non ha mai creduto ad un
figurino perché il figurino è sottoposto a una infinità di ripensamenti
affinché aderisca al personaggio. “La scelta definitiva di un costume dipende
dall’ambientazione, dallo stato sociale del personaggio, dalla sua azione”.
Solo costruendo l’interno dell’abito si può arrivare a una architettura non
visibile e raggiungere la forma precisa che restituisce la fedeltà dell’epoca.
“È
la forma a darti la verità – sostiene Tosi – se uno deve raggiungere quella
forma precisa, quella forma che inquieta perché lontana dai nostri occhi, pochi
centimetri sono tutto. La forma determina questo impatto, una cosa estranea che
ti dà l’inquietudine e t’inquieta perché ci credi”.
Maria Paola Forlani
martedì 23 dicembre 2014
L'altra metà del cielo
L’altra metà del cielo
Sante e devozione privata
Nelle grandi famiglie fiorentine
Nei secoli XVII – XIX
Si è aperta a Firenze, fino
all’8 marzo, la mostra “L’altra metà del cielo. Sante e devozione privata nelle
grandi famiglie fiorentine nei secoli XVII – XIX” (catalogo Sillabe). In tutto
si possono ammirare 165 opere – tra cui vari inediti – tra dipinti, sculture,
reliquiari, oggetti sacri, elementi curiosi di una sacralità ormai lontana.
L’esposizione è composta da
due sezioni che hanno luogo rispettivamente al Museo di Casa Martelli (via Zannetti 8) ed a Villa La Quiete
(via di Boldrone 2).
Diretta da Monica Bietti e
curata da Francesca Fiorelli Malesi, l’esposizione nasce dalla collaborazione
tra la soprintendenza per il Polo Museale Fiorentino e l’Università degli Studi
di Firenze. La mostra propone al pubblico il tema della devozione privata delle
grandi famiglie fiorentine fra Seicento e Ottocento, declinata soprattutto al
femminile, con approfondimento in particolare sulla famiglia Martelli.
Il felice convergere di molti
studi sui rapporti tra fede, arte e storia ha visto fiorire in questi ultimi
tempi vari e qualificati eventi ospitati nei musei fiorentini, come la mostra Sacri Splendori allestita nel Museo
degli Argenti di Palazzo Pitti, (da poco conclusa) accanto si è aperta presso
il Museo Martelli e il Conservatorio di Villa
Se nel primo caso il tema
affrontato è stato quello della devozione della famiglia Medici e del ‘tesoro’
di reliquie un tempo raccolto nella Cappella del palazzo (che certo per
ricchezza delle teche e dei vasi destinati a contenere i sacri resti di santi e
beati assolveva anche al compito di esibire il potere e il fasto del
granducato.
In questo ultimo evento dedicato alla
devozione delle grandi casate fiorentine, (con ovvia e necessaria attenzione
alla famiglia Martelli), la storia si tinge ora di toni più intimi e familiari
e, se vogliamo, di una fede meno conclamata e forse più profonda. La mostra si
concentra specialmente sui culti dedicati alle sante e alle beate fiorentine e
pone lo spettatore di fronte ad agiografie poco note e a culti desueti, attorno
ai quali fiorì un attività artistica a scopi devozionali tracciabile anche
attraverso cappelle, altari,
suppellettili e memorie nelle chiese di Firenze;
fin alla corte, dove le reggenti vedove del primo Seicento, poi Vittoria della
Rovere, infine l’Ellettrice, esercitarono complesse pratiche religiose
supportate da una quantità strabiliante di oggetti per il culto pubblico e
privato, personale e collettivo. Una storia di sante e di principesse che,
valorizzando il passato della famiglia Martelli strettamente legato alla Chiesa
fiorentina schiude una finestra sul vivido scenario delle arti applicate
nell’età barocca, dalle lavorazioni preziose di metallo o d’avorio ai modesti
manufatti in legno o perline, inducendo una volta di più all’ammirazione per la
sapienza progettuale e manuale che ne guidò la creazione.
La prima sezione della mostra
che ha sede a Casa Martelli inizia con un’introduzione storica sulla devozione
a Firenze e sul culto che la famiglia Medici e il patriziato fiorentino
riservarono, tra XVII e il XIX secolo, ai santi loro concittadini e alla
Santissima Annunziata di cui si espongono testimonianze della devozione
all’immagine attraverso i riti, le cerimonie e i doni di cui il santuario è
stato testimone.
Il percorso prosegue con
l’illustrazione, nei suoi aspetti più privati, del culto come la spiritualità
vissuta nell’intimità dei palazzi – espressa attraverso il possesso di
reliquie, libri, piccoli altari portatili e immagini devozionali – per i grandi
santi fiorentini, ma soprattutto per la santità femminile di cui le maggiori
testimoni sono
Maria Maddalena de’Pazzi (Firenze, 1566 – 1607), Caterina de’ Ricci (Firenze, 1522 – Prato, 1590), illustre ava
della Caterina che sposò nel 1802 Niccolò Martelli, e
Giuliana Falconieri ( Firenze, 1271 – 1341).
Allestita presso alcuni
ambienti di Villa La Quiete ,
si apre una sezione che approfondisce le origini e i caratteri di un importante
aspetto della devozione femminile fiorentina tra Sei e Settecento. La Quiete , istituzione
secolare d’ispirazione religiosa fondata da Eleonora Raminez de Montalvo alla
metà del XVII secolo, accoglieva donne per lo più provenienti dalla nobiltà,
desiderose di vivere liberamente, senza voti, nella separatezza e nella
preghiera; a questo si aggiungeva la missione educativa delle bambine, che
venivano loro affidate dalle famiglie affinché
si formassero secondo la
morale cristiana e, giunte alla maggiore età, decidessero se sposarsi oppure
prendere i voti. Fondatrici e, pertanto figure – chiave di questa istituzione
furono Eleonora Raminez de Montalvo (Genova,
1602 – Firenze, 1659) e la Granduchessa Vittoria della Rovere (Pesaro, 1622 – Pisa,
1694): l’una ispiratrice della congregazione e autrice delle sue costituzioni;
l’altra superiora e “madre” della stessa. La spiritualità che emerge dalle
Costituzioni è piuttosto austera – si sarebbe tentati di scrivere che appare
molto gesuitica – perché privilegia la meditazione e la devozione trinitaria e
dell’incarnazione e, pur riservando una forte attenzione alla Madonna, non
sembra scivolare in nessun devozionismo.
La fede e la scienza convivono
organicamente nel medesimo habitat concettuale
e fattuale. Parimenti la fondatrice raccomandava alle “Ancille” di tenere
comportamenti benevoli e pazienti, in modo da testimoniare l’amore di Dio con
il loro esempio, e di favorire l’espressione delle migliori virtù di ciascuna.
Nel testo normativo trova spazio anche il teatro: Eleonora considera la
rappresentazione teatrale un mezzo educativo estremamente efficace. Se è vero
che coltiva la passione per la scrittura – come
dimostrano la composizione
della propria autobiografia in versi e la scrittura di numerose operette
letterarie – e se ciò avrà sicuramente pesato nell’assunzione della
drammaturgia quale sistema formativo, nondimeno è assai probabile che la
frequentazione dei Gesuiti di San Giovannino l’abbia ulteriormente persuasa
della potenza educatrice della recitazione. Il teatro gesuitico costituisce,
infatti, uno dei capitoli più interessanti per la storia della cultura e della
formazione delle coscienze nell’Europa Moderna. Il fine dell’azione teatrale,
per Eleonora così come per i gesuiti, è la predisposizione dell’anima
all’azione della grazia.
La sezione si sviluppa in
alcuni ambienti, fra cui la chiesa e il coro basso. Nella chiesa sono esposte –
in aggiunta alle opere d’arte già presenti – alcune testimonianze sulle due
fondatrici appena ricordate, contestualmente ai monumenti loro dedicati che qui
hanno luogo, nonché sulla vita del conservatorio nel XVII secolo.
Nel coro basso, si possono
ammirare le commissioni di Anna Maria Luisa de’Medici, nipote di Vittoria, ultima
dei Medici, legatissima alla Quiete, e alcuni manufatti di eccezionale valore
artistico e documentario per la spiritualità delle Montalve.
Maria Paola Forlani
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