martedì 16 dicembre 2014

IL COLORE DELL' OMBRA

Il colore dell’ombra
Dalla mostra internazionale del Bianco e Nero
Acquisti per le gallerie
Firenze 1914

La mostra “Il colore dell’ombra”, aperta alla Galleria d’arte moderna di Palazzo Pitti, nell’Andito degli Angiolini  fino all’8 marzo ( catalogo Sillabe), a cura di Rossella Campana, si inserisce nell’ambito delle manifestazioni volte a celebrare il centenario dell’inaugurazione della Galleria d’arte moderna di Firenze e si collega quindi strettamente a “Luci sul ‘900”, la grande rassegna di pittura e scultura inaugurata lo scorso 28 ottobre.
È la primavera del 1914, quando non lontano dalle sale presso la Galleria dell’Accademia dove è allestito il primo nucleo della Galleria d’arte Moderna, apre i battenti a Firenze, nei locali espositivi della Società di Belle Arti in via Colonna, un’importante esposizione internazionale dedicata esclusivamente alla grafica, che comprende disegni, ma anche acqueforti, xilografie e litografie.
Il titolo, voluto dagli organizzatori di questa esposizione, vuole essere un’allusione alla favola antica sull’invenzione del disegno narrata da Plinio il Vecchio, nella quale una fanciulla traccia sul muro il profilo dell’ombra dell’amato per serbarne il ricordo, ma anche un omaggio a quell’evento di cento anni fa che offrì l’opportunità di conoscere quasi duemila opere di grafica.
Fra coloro che furono selezionati allora dalla Galleria d’arte moderna, per la quale fu deciso di circoscrivere la scelta degli artisti italiani, oltre ad alcuni nomi illustri del recente passato, come Antonio Fontanesi e Gaetano Previati, entrambi con disegni di grande qualità, venne dato spazio a personalità di spicco della ricerca contemporanea quali; Adolfo De Carolis, Celestino Celestini, Piero Bernardini o Francesco Chiappelli.
La storica raccolta degli Uffizi si arricchì invece, prevalentemente, di opere di artisti
stranieri. Tra questi, nomi illustri della grafica di fine ottocento, quali Alphonse Legros e Robert Goff, ma anche di contemporanei che si facevano notare alle Biennali veneziane (pittori come Charles Cottet o Eugène Carrière), o ancora personalità già affermate il cui ruolo d’illustratori della realtà sociale contemporanea già indicava la direzione non più elitaria verso cui il genere si stava ampiamente orientando (il belga Costantin Meunier o lo svizzero Théophile Steinlen, la tedesca Käthe Kollwitz, coi loro minatori e operai in rivolta), o, infine, giovani sconosciuti come Ernest Collebout, le cui due opere acquisite, poetici paesaggi delle Fiandre, sono esemplari invece di come la stampa d’arte potesse mantenere anche, e anzi esaltare, un ruolo di opera d’arte autonoma.
Per la grande varietà di opere, di soggetti e di tecniche che caratterizzò l’esposizione del 1914 e conseguentemente le acquisizioni delle Gallerie, la mostra è stata divisa in nove sezioni che intendono individuare alcuni temi portanti.
Il percorso parte proprio dall’afflato ideale del grande
 disegno a matita di Gaetano Previati

 Gli ostaggi di Cremona (1900) (il tema è tratto da un episodio delle guerre comunali contro l’Impero e ha una forte valenza di contemporaneità, nell’imminenza del conflitto mondiale), cui si contrappone l’elegante ‘manifesto’ dell’inglese Spencer-Pryse, prodromo del ruolo di comunicazione sociale che la grafica assumerà nel nuovo secolo, la sezione “Artisti e ritratti” presenta volti e opere di protagonisti della grafica di primo novecento (come Adolfo De Carolis e Steinlen), ma non solo: se infatti il bel ritratto a sanguigna della pittrice Evangelina Alciati parla ancora il linguaggio di una nobile tradizione figurativa, Gli occhi chiusi, di Eugène Carrière, ci introduce alla sezione successiva, intitolata “Incubi e sogni”, nella quale soggetti disparati sono tuttavia accomunati dalla capacità propria del mezzo grafico nelle sue diverse accezioni anche tecniche di evocare l’ignoto o meglio quello che, visti i tempi, con Jung potremmo definire l’inconscio.
Per contro, se l’inquietante La morte e la donna della Kollwitz o lo scheletro arlecchino che sega il portone su cui danzano incoscienti mascherine dell’austriaco Von Divecky ben interpretano un mondo alle soglie della catastrofe bellica, il clima della sezione “Presenze” rispecchia un universo vario e prevalentemente femminile, nel quale sono già in nuce spunti e tematiche di stile e sociali che saranno ampiamente sviluppati nel dopoguerra.
Analogamente nelle “Vedute”, nei “Paesaggi d’acqua” e nei “Paesaggi urbani”, è possibile apprezzare il trascorrere del paesaggio ‘romantico’ delle finezze grafiche di Fontanesi e della scuola inglese sulla scia do Whistler, , o belga, fino alle sintesi squisite influenzate dal giapponismo e dal linguaggio elegante della Secessione viennese, ma anche fino alla semplificazione astrattiva derivata da Cézanne nel sorprendente
carboncino del giovane toscano Guido Ferrosi che già parla il linguaggio del decennio a venire. Di tale linguaggio, che aveva il suo punto di riferimento ideale nel magistero di Giovanni Fattori, e quindi interprete Celestino Celestini, la cui Cupola bella c’introduce a una sezione interamente dedicata al tema delle grandi “Cattedrali” urbane, immagini di grande suggestione visiva per gli artisti oltre che emblematiche, in quel momento storico, dell’acceso dibattito intellettuale al ruolo della Chiesa nella società civile e sulla laicità dello stato.
Il passo successivo è dedicato infine al “Lavoro”, con una rassegna che dai campi alle officine ci presenta una varietà di volti e di situazioni di grande pregnanza espressiva, rassegna che ci segnala una sensibilità non effimera per un tema sempre attuale, ma cui proprio allora la grafica cominciò a dare ampio spazio adottando dimensioni che se oggi ci sono familiari, all’epoca costituivano ancora una novità, collocandosi autorevolmente in un ruolo di comunicazione attiva intermedio fra stampa d’arte e manifesto che fa ormai parte della storia visiva del novecento.


Maria Paola Forlani

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