Il mondo che non c’era
L’arte precolombiana nella collezione
Ligabue
A “Il mondo che non c’era”, alle tante e diverse civiltà precolombiane
che avevano prosperato per migliaia di anni in quella terra, è dedicata la
spettacolare mostra che si è aperta a Firenze fino al 6 marzo 2016 al Museo
Archeologico Nazionale, con un corpus di
capolavori, quasi tutti mai visti prima d’ora, espressione delle grandi civiltà
della cosiddetta Meseoamerica (gran
parte del Messico, Guatemala, Belize, una parte dell’Honduras e del Salvador).
E il territorio di Panama. La mostra racconta le Ande (Colombia, Equador, Perù
e Bolivia, fino a Cile e Argentina): dagli Olmechi ai Maya, agli Aztechi; dalla
cultura Chavin, a quella Tiahuanaco e Moche, fino agli Inca.
Fu un fiorentino del resto, Amerigo Vespucci, a comprendere per
primo che le terre incontrate da Cristoforo Colombo nel 1492, non erano isole
indiane al largo del Cipango (Giappone) e neppure le ricercate porte dell’Eden,
ma un “Mundus Novus”,
un nuovo continente che pochi
anni dopo alcuni geografi che lavoravano a Saint-Denis des Vorges vollero
chiamare, in suo onore, “America”.
E i Medici, signori di
Firenze, risultarono i primi governatori europei a decidere di preservare nelle
loro collezioni alcuni degli affascinanti e spesso enigmatici manufatti
arrivati dalle “Indie” come quelli dei Taino, gli indigeni incontrati da
Colombo, che i
Conquistadores avevano
portato in Europa. Tra i primi a considerare quegli oggetti vere opere d’arte
fu Albrecht Dürer che, di
fronte ai regali di Montezuma a Cortes, giunti a Bruxelles nel 1520, scrisse: “Queste cose son più belle che delle
meraviglie
[…] Nella mia
vita non ho mai visto cose che mi riempissero di gioia come questi oggetti”.
A pochi mesi dalla scomparsa
di Giancarlo Ligabue (1931-1915), questa mostra vuole essere a lui dedicata da
parte del figlio Inti, che continua l’impegno nella ricerca culturale e
scientifica e nella divulgazione, attraverso il Centro Studi fondato oltre 40
anni fa dal padre Giancarlo: paleologo, studioso di archeologia e antropologia,
esploratore, imprenditore, illuminato, appassionato collezionista.
Oltre ad aver organizzato più
di 130 spedizioni in tutti i continenti, partecipando personalmente agli scavi
e alle esplorazioni – con ritrovamenti memorabili conservati ora nelle
collezioni museali dei diversi paesi – Giancarlo Ligabue ha dato vita negli
anni a un’importante collezione d’oggetti d’arte, provenienti da moltissime
culture.
Una parte di questa
collezione è il cuore della mostra fiorentina, (catalogo 5 continets edizioni)
a curata da Jacques Blazy specialista delle arti pre-ispinache della
Mesoamerica e dell’America del Sud.
Il viaggio, affascinante, nel
cuore della civiltà Meseoamericana prende il via dalle testimonianze della
cultura Tlatica e Olmeca (dal 1200
al 400 circa a.C.), con esempi di quelle figurine
antropomorfe di ceramica cava provenienti da necropoli – per lo più
rappresentazioni femminili, con un evidente deformazione cranica, elaborate
acconciature e il corpo appena abbozzato – che tanto affascinarono i pittori
Diego Rivera, la moglie
Frida Kahlo e diversi surrealisti.
Scultura Mezzala. Una manifestazione artistica tanto enigmatica nella sua semplicità
quanto misteriosa nelle origini, al punto che ne restarono suggestionati anche Andrè Breton, Paul Eluard e lo scultore
Henry Moore, artisti che diventarono anche collezionisti di quelle figure
di pietra.
Tra il 300 a .C e il 250 d.C.
l’Occidente del Messico si distinse per la realizzazione di tombe a pozzo
collocate nelle abitazioni. Il viatico funebre di queste tombe – formato da
ceramiche a forma di granchio, cane, armadillo, rospo – è eccezionale e offre
importanti informazioni sulla vita quotidiana e la religione. Tra le
varie culture associate a questa regione, quella di Chupicuaro (il cui apogeo si situa tra il 400 e il 100 a .C.) è conosciuta per le
statuette policrome di ceramica cava, delle
quali sono in mostra alcuni notevoli esemplari, come la Grande
Venere con le
mani congiunte sul ventre, la testa deformata e gli occhi aperti a mandorla.
Quindi Teotihuacan: il primo vero centro urbano del Messico centrale,
letteralmente “La città dove si fanno
gli dei” e dove furono costruiti monumenti emblematici come la Piramide del
Sole, quella della Luna e la Piramide del Serpente piumato. Leggendaria
l’abilità dei tagliatori di pietra di Teotihuacan; l’arte lapidaria appare
molto stilizzata, persino geometrizzata e ha prodotto pezzi monumentali ma anche
le famose ed inconsuete maschere di
Teotihuacan. Concepite secondo un modello standardizzato, con il volto a
forma di un triangolo rovesciato, fronte e naso larghi, labbra spesse e
sopraciglia marcate, le opere esposte in questa occasione (tra cui alcune
provenienti dalle collezioni antiche di André Breton e Paul Matisse) potrebbero
essere servite come maschere funerarie.
Una di queste, la maschera in onice verde, conservata al
Museo degli Argenti è appartenuta alla collezione dei Medici ed è un esemplare
davvero notevole di quella produzione.
Interessante per la perizia
tecnica dell’ampia decorazione, sono i due
punteruoli realizzati in ossa di giaguaro, animale emblematico del mondo
meseoamericano associato alle più alte funzioni politiche e sacre. I due
strumenti, originari di Michoacan – con
una iconografia tipica di Teotihuacan, glifi, testa di felino, fiamme – sono di
probabile uso rituale, destinati per l’autosacrificio o pratiche che implicano
la perforazione della carne: è incisa l’immagine del destinatario divino al
quale il penitente offriva il sangue.
Della cultura Zapoteca – che si diffonde nel Centro
del Messico nella regione di Oaxaca dal 500 a .C. al 700 d.C. e vede il suo centro nella
città di Monte Albàn –
sono altresì in mostra alcune
famose urne cinerarie che appaiono
dal 200 a .C.
al 200 d.C. (II fase). Con la
loro effige spesso antropomorfa, rappresentante un personaggio seduto con le
gambe incrociate e le mani sulle ginocchia – probabilmente Coeijo, dio zapoteco della pioggia, del fulmine e del tuono – sono
state trovate in diverse inumazioni: e resta da chiarire la loro funzione.
Singolari anche le statuette realistiche in ceramica della
cultura classica della Costa del Golfo (o cultura di Veracruz) decorate con
bitume dopo la cottura, come anche le repliche in pietra di accessori del gioco cerimoniale della palla e le
statuette che rappresentano personaggi
sorridenti o ridenti, davvero eccezionali nell’arte mesoamericana che
frequentemente propone esseri impersonali e inespressivi.
A introdurre nella cultura e
nella società Maya sono i sacerdoti, le divinità, gli animali addomesticati
come tacchini, i nobili riccamente adornati negli abiti e con bellissimi
gioielli (spettacolare la collana di
giada esposta) raffiguranti in piatti,
sculture o stele.
Ma sono soprattutto i bellissimi preziosi vasi Maya d’epoca classica, riccamente
decorati, che forniscono informazioni sulla società e sulla scrittura di questa
civiltà. Le divinità dell’inframondo, i giocatori della palla, i
signori-cervidi e signori-avvoltoi, il drago celeste, il dio K’awiil o giovani
signori dai copricapo piumati sono i protagonisti che popolano i vasellami in
mostra.
Sono Aztechi invece gli importanti propulsori
– utilizzati per lanciare frecce –
provenienti dalle wunderkammer
medicee e ora nel Museo di Antropologia di Firenze: sono tra i pochissimi
strumenti di questo tipo decorati in oro.
Il viaggio continua con le
testimonianze dal Sud America: dalla
spettacolare produzione delle prime ceramiche delle Veneri ecuadoriane di Valdivia,
agli oggetti Incas: dal mondo
dell’ antico Chavin, dai tessuti e
vasi della regione di Nazca, all’affascinante
cultura Moche. Ma sarà l’oro – come
quello dei Tairona
(puro o in una lega con rame
chiamata “tumbaga”) – a spingere nelle Ande spagnoli ed avventurieri alla
ricerca dell’ “El Dorado”, uno dei
grandi miti, vero motore della Conquista.
L’America, che aveva stupito
e affascinato con i suoi “strani” indigeni, la natura così diversa e le sue
meravigliose opere, in breve viene considerata solo per le tonnellate d’oro e
d’argento che giungono sui galeoni in Europa. E se i Medici a Firenze
conservano nelle loro raccolte le testimonianze del Mondo che non c’era – tra i
capolavori in mostra anche un collier
Taino del XIV-XV secolo – gli Spagnoli fondono quegli oggetti in metallo
prezioso per usarlo poi come moneta.
In pochi decenni dall’arrivo
di Colombo (nessuno degli oggetti riportati si è conservato) le culture degli
Aztechi e degli Incas saranno annichilite con le armi e con la schiavitù e quella
dei Taino praticamente annientata: già verso il 1530, secondo gli storici, non
esisteva più un solo Taino vivente. Milioni di indio morirono anche a causa
delle malattie arrivate dal Vecchio Mondo.
Dovranno passare almeno
quattro secoli, prima che l’Europa prenda nuovamente coscienza della grandezza
dell’arte dell’america antica e ancora oggi sfuggono molti aspetti delle culture
precolombiane, di quella parte di umanità che, all’improvviso, nell’ottobre del
1492, comparve all’orizzonte dei navigatori in cerca delle Indie.
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