Sguardo di Donna
Da Diane Arbus a Letizia Battaglia
Il passato non si può
riscrivere ma si può reinterpretare e attraverso le immagini di quel passato
possiamo fermarci e creare nuove traiettorie nel presente. La cultura materiale
porta alla luce nuove presenze nella storia delle donne. Le donne in
fotografia, per esempio, come Alice Austen(1866-1952), pioniera della
fotografia, la cui casa di Staten Island è oggi museo. Le donne in fotografia
sono state tante e bravissime, ed oggi sono protagoniste delle più rilucenti
sfaccettature di un diamante purissimo.
“L’anatomia è il destino” sentenziò Sigmud Freud, condannando
drasticamente l’umanità in gabbie di ruolo ben definite: maschio e femmina.
Dimenticò tutte le varianti possibili di coloro che, oltre a rifiutare i ruoli,
non si sentono nel destino anatomico dell’anagrafe.
Il dottor Freud, con le sue
teorie, ha radicalizzato, purtroppo gli stereotipi della società occidentale,
con gravi danni proprio nell’ambito delle arti.
Una sua discepola, Karen
Horney, già nel 1923 cominciò a confutare questa pericolosa, e ingannevole,
dottrina e argomentò che è la cultura e non la biologia ad incidere in modo
determinante e primario sulla personalità.
Anne Turker, storica
dell’arte e studiosa di arte al femminile scrive
“È l’anatomia
un destino? Siamo molto lontani da rispondere a questa domanda. Tutti i dati al
momento disponibili riflettono le differenze fra donne e uomini imposte dalla
società patriarcale nella quale viviamo. Fino a che le divisioni saranno così
rigidamente definite ed imposte, sarà impossibile sapere se le differenze sono
naturali, e se lo sono, in ogni caso forzano le relazioni ai tradizionali
stereotipi. Certe sensibilità sono esclusive del femminile? Si possono
decifrare tali sensibilità in particolare nell’arte di un individuo? L’arte può
e potrebbe essere distinta come femminile e maschile?
…Esiste di fatto un’arte femminile? O, ponendo la
questione in altro modo, si può identificare il sesso dell’artista attraverso
la sua arte?...La gente spesso presume certe distinzioni fra arte maschile e
femminile. Trova delle differenze nelle attitudini e descrive queste differenze
usando gli aggettivi con i quali abitualmente si descrivono i comportamenti.
Gli uomini sono ritenuti più distaccati dai loro soggetti, clinici, piuttosto
che compassionevoli nell’osservazione. Arguti, le donne prive di senso
dell’umorismo. Le donne realizzano morbide delicate immagini. Non sono dure,
ostili o crudeli.”
È chiaro che è impossibile stabilire “il sesso” dell’immagine,
inoltre vi sono donne che usano la macchina fotografica come un bastone
piantato nello stomaco ed uomini di una delicatezza così leggera da commuovere
il cuore di pietra.
Era dunque necessario che una
scrittrice come Simone de Beauvoir nel
1949 avesse scosso il mondo dell’editoria francese, pubblicando un testo dal
titolo Il secondo sesso. Testo che
rimane ancora oggi
un’ opera importante ed attuale. L’autrice
ricostruisce e ricompone magistralmente ciò che nessuno fino a quel momento
aveva fatto con tanta completezza: l’essere donna analizzata nelle sue infinite
sfaccettature. Con naturalezza a lei consueta scrive di lesbismo, maternità e
prostituzione, di aborto e controllo delle nascite….
Non manca di individuare
quanti nel corso del tempo hanno alimentato la costruzione sociale della donna
recepita come “altro”, offrendo un riferimento fondamentale ai movimenti
femministi che arriveranno più tardi.
Non accontentarsi di essere
seconde, affrontare l’ignoto scabroso, le realtà più crude, sconfinare
nell’ambiguità, entrarci dentro con veemenza è quello che fanno le 25 artiste
chiamate a raccolta da Francesca Alfano Miglietti nella mostra Sguardi di donne, aperta fino all’8
dicembre a Venezia alla Casa dei Tre Oci con un suggestivo allestimento di
Antonio Marras.
È una mostra potente, che parla della cura delle
relazioni, del rapporto con l’altro, dello sguardo sul mondo, a partire dal
proprio senso di responsabilità. Un progetto ambizioso che rimarca come la
fotografia negli ultimi decenni ha scelto di divenire una sorta di conoscenza
del mondo, facendosi testimone anche di quello che spesso viene occultato.
L’essere che ama è per antonomasia la donna, capace del “dono totale dell’anima
e del corpo” (Nietzsche, La gaia scienza), con una dedizione incondizionata. Ed
è per questo che la curatrice ha scelto delle artiste, delle autrici che usano
la fotografia come mezzo per esprimere, tutte donne, di ogni parte del mondo,
tutte sensibili a cogliere la stessa umanità, unicità, in-differenza delle
infinite varietà dei soggetti ritratti, nell’intento di sottrarsi alla paura
della diversità.
Il desiderio di rimanere
giovani, di essere belle, di regalare seduzione anche al prezzo di apparire
mostruose è ciò che propone Diane Arbus con il suo occhio impietoso – lo stesso
che la condusse al suicidio nel 1971 – esponendoci il corpo panciuto di una
giovane trapezista o il collo sfatto di una signora a carnevale.
Letizia Battaglia vive a
Palermo e ha raccontato la sua città di bagliori e lutti. Nel suo bianco e nero
si piange di fame e di morte. O ci si sorprende su di una bambina che rosicchia
a Palermo un pezzo di pane appena tolto dal sacchetto. La stessa autrice
propone i cadaveri degli uccisi: la schiena riversa nel sangue di un uomo che
vi ha tatuato un Cristo crocifisso o la prostituta riversa su una poltrona,
proprio sotto un calendario con ragazza in topless. Spesso il mondo di queste
artiste è in posa. Come i gemelli scovati dappertutto da Martina Bacigalupo o
le lesbiche e i transessuali inquadrati da Zanele Mugoli.
Donna Ferrato ci porta sulle
occhiaie nere di una povera malmenata, tra gli specchi di un bagno dove si
svolge uno stupro, tra i poliziotti che cercano di fermare crudi litigi. Una
violenza dello sguardo fotografico più raffinata è quella che coglie il poeta
Ezra Paund negli scatti di Lisetta Carmi, malato, in vestaglia, i capelli
diritti, lo sguardo vuoto, sequestrato dal silenzio più cupo.
Lo spettatore viene risucchiato
tra le malinconie del circo e degli spogliarelli di San Francisco inquadrate
alla fine degli anni Sessanta da Diane Arbus.
Le immagini di Melena Yemchuk
sono immediatamente riconoscibili, indipendentemente dal soggetto che
fotografa. La sua è una visione che ibrida una fantasia surreale e un
romanticismo dark. Nelle serie
Untitled Project Yelena sembra scattare istintivamente, in bianco e nero,
creando immagini che riguardano una forma di rappresentazione del sé: una sorta
di “messa in posa” che il soggetto sceglie per se stesso, facendo diventare le
fotografie quasi un’esperienza intima.
La mostra è una complessa
drammaturgia, ricca di rimandi a varie fonti: sembra, a volte, indispensabile
il recupero della tradizione del reportage, altre volte una poeticità
struggente e malinconica, altre ancora il linguaggio della denuncia e della
compassione.
Maria Paola Forlani
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