lunedì 30 novembre 2015

ADOLFO WILDT

 Adolfo Wildt.
L’ultimo simbolista



Alla GAM – Galleria d’Arte Moderna di Milano si è aperta fino al 14 febbraio 2016 la mostra   Adolfo Wildt. L’ultimo simbolista (catalogo Skira).


Cinquanta sculture, in gesso, marmo e bronzo, e dieci disegni di Adolfo Wildt, insieme a sette opere di confronto di Antonio Canova, Fausto Melotti e Lucio Fontana (questi ultimi allievi dell’artista alla Scuola del Marmo da lui fondata nel 1922), sono esposte nelle sale della galleria in occasione della mostra dedicata all’artista milanese, scultore di straordinaria potenza ed eleganza.
L’esposizione, sotto la direzione di Paola Zatti, realizzata con la collaborazione dei Musées d’Orsay, l’Orangerie di Parigi e nell’ambito della partnership fra GAM e l’istituto bancario UBS, presenta un percorso espositivo diviso in sei sezioni cronologiche-tematiche che segue la carriera di Wildt degli anni della sua formazione presso la bottega di Giuseppe Grandi e l’Accademia di Belle Arti di Brera, sino quasi alla sua morte, avvenuta nel 1936, passando per il periodo dell’adesione al movimento del Novecento italiano (1922-1926) durante il quale l’artista si dedicò soprattutto a monumenti e ritratti. La mostra inoltre si propone di valorizzare tutte le testimonianze wildiane ancora esistenti a Milano attraverso un itinerario tematico diffuso per la città dedicato a questo grande artista che il critico Ugo Ojetti nel 1926 sulla pagina della rivista “Dedalo” definì capace <<d’esprimere l’invisibile e di torcere il corpo umano finchè ne sprizzi l’anima>>.

Nonostante il cognome d’origine germanica, Wildt nasce e muore a Milano dove trascorre larga parte della sua vita e svolge la sua intera attività artistica. La sua opera infatti è ampiamente rappresentata nelle raccolte della GAM che, pur esponendo nel percorso permanente il solo Uomo antico (marmo, 1914),

conserva in deposito numerose opere e bozzetti e la magnifica composizione in marmo della Trilogia
( il Santo, Il Giovane, Il Saggio), esposte alla Triennale di Brera nel 1912 e giunta nel parco della GAM nel 1926 dopo molte traversie.


Adolfo Wildt è senza dubbio il maggiore scultore del principio del secolo scorso, ma ciò nonostante è stato ed è ancora oggi sconosciuto al grande pubblico, vittima, dopo la sua morte, di una condanna all’oblio decretata dalla critica, che non condivideva la sua poetica né il suo stesso concetto di scultura, e dalla cultura del secondo dopoguerra, che lo accusava erroneamente di essere stato un artista di regime.
Durante la sua vita d’artista, infatti, Wildt è stato amato e odiato dagli uomini e dalle donne del suo tempo, osannato e disprezzato dalla critica, suscitando ammirazione e ribrezzo, commozione e ripulsione, mai lasciando, però, indifferenti.
Wildt nasce e svolge la sua intera attività artistica in una Milano in fermento, terreno fertile della Scapigliatura di Giuseppe Grandi, ma anche della scultura impressionista di Medardo Rosso, poi del giovane movimento futurista affascinato dall’industriale <<città d’oro e di ferro>>.


Personalità indipendente, Wildt rimane al margine delle avanguardie e conserverà sempre un solido legame con la tradizione artistica italiana, dall’Antichità al Barocco, con una netta predilezione per la pittura del Rinascimento. Questa mostra monografica pone in risalto tali rapporti, come pure l’unicità di Wildt e le sue affinità con i contemporanei, attraverso una selezione di opere dello sculture, a cui fanno da contrappunto quelle di altri artisti.

Tuttavia fino dagli anni intorno al 1890, quando Wildt comincia a lavorare per suo conto, il realismo di impronta alla Grandi che caratterizza il suo fare, già è infarcito di troppe astruserie letterarie o sovraccaricato di troppi significati.
La vedova, Il Martirologio, Quando l’uomo tace, L’uomo che dorme, sono i titoli delle sue prime sculture fin che nel 1900 crea Sulla terra ogni animale tace quando l’uomo tace, oggi a Köenigsberg.



Nella quale scultura, ove appaiono evidenti i richiami all’arte classica, l’impressionismo pittorico di Grandi si risolve nella definizione di piani e volumi sui quali la luce si diffonde serena.
Poi, nei primissimi anni del Novecento, Wildt ha un periodo di involuzione e di turbamento spirituali che, nella sua maniera, si riflettono in saltuari ritorni al Grandi, allo studio degli antichi, dei quattrocentisti lombardi ed anche di Michelangelo.
È anche il tempo nel quale lo scultore incontra Franz Rose
un ricco signore tedesco che gli assicura l’indipendenza economica permettendogli di lavorare senza preoccupazioni d’ordine pratico. In questo momento Wlldt evolve ancora il suo stile nel quale gli elementi già acquisiti si pongono su di un piano che ha molti contatti con l’espressionismo perfino con il surrealismo.


Evoluzione sempre accompagnata da un continuo affinarsi della tecnica per cui il marmo scavato, assottigliato, reso trasparente, levigato, lustrato con pazienza infinita, finisce con l’essere snaturato, e divenire all’apparenza materia che talvolta dà l’impressione dell’avorio prezioso tal’altra della celluloide. La Trilogia (1912) nel giardino della villa Reale di Milano, il <<Vir temporis acti>> (1913) che è nel museo di Küenigsberg, Un rosario (1915) nella collezione Oberti a Genova, la Madre adottiva (1918) nel cimitero di Milano, Maria dà luce ai pargoli cristiani che è a Rebbio
nell’Istituto di Maternità e Infanzia.

La Concezione della collezione Rossi di Milano, il Sepolcro Boschi a Castiglione delle Stiviere sono le cose principali scolpite da Wildt nel periodo centrale della sua attività, quello appunto delle più intense crisi spirituali e delle figurazioni più tormentate, dolorose, contorte.

Poi gradualmente, forse anche confortato dal successo e dai pratici riconoscimenti, le concezioni di Wildt sempre infarcite di letteratura sembrano rasserenarsi, le forme divenire meno involute e contorte mentre la tecnica, spinta ormai ai vertici delle proprie possibilità, assume essa stessa dignità di stile, Alcuni suoi ritratti quale quello di Toscanini (1925) della Galleria d’Arte Moderna di Roma, ove è anche un suo S.Francesco,




quello di Mussolini della Galleria d’Arte Moderna di Milano, quello di Pio XI (1926) e di Vittorio Emanuele III,


come il S. Ambrogio nel monumento ai Caduti di Milano (1929) sono con La Casa del Sonno (1927), il monumento Körner (1928) e quello della Famiglia Rovera (1929) nel cimitero milanese, le espressioni più caratteristiche e raggiunte dell’ultimo periodo dell’attività dello sculture, conclusasi con l’efebico



Puro Folle (1930), un marmo nel quale, dopo tante esperienze e ricerche per rendere trasparente, traslucida la materia, intenda egli medesimo consolidare le forme semplificate, classicheggiando secondo la tendenza in quegli anni anche codificata dal Manifesto del gruppo del <<Novecento>> al quale lo scultore, pur essendone spiritualmente lontano, volle aderire.


Maria Paola Forlani


sabato 28 novembre 2015

Schiavone

Splendori


 del Rinascimento
A Venezia
SCHIAVONE
Tra Parmigianino,
Tintoretto e Tiziano




Si è aperta al Museo Correr di Venezia, fino al 10 aprile 2016, la prima mostra dedicata ad Andrea Schiavone, inventore di uno stile nuovo. Una pittura dirompente e un artista “fuori dal coro” ammirato da Tintoretto, da Carracci e da
 El Greco, (catalogo 24 Ore Cultura).
Nello straordinario scenario della pittura rinascimentale veneziana, in quel concerto polifonico che vedeva eccezionali personalità primeggiare in laguna, e da qui in Europa, la figura e il “suono” di Andrea Meldola detto lo Schiavone (Zara, 1510 c. – Venezia, 1563)  spaccò l’opinione pubblica e divise la critica: chi come l’Aretino lo stimava e gli era amico, chi come Paolo Pino non nascondeva il suo disprezzo. L’esposizione a cura di Enrico Maria Dal  Pozzolo e Lionello Puppi riunisce per la prima volta oltre 80 lavori di Andrea Meldola, dipinti, disegni, incisioni, la maggior parte dei quali mai esposti in una mostra e provenienti da musei e collezioni di tutto il mondo, oltre ad alcuni inediti, si possono vedere insieme i capisaldi dell’opera pittorica di Schiavone e con essi importanti dipinti di confronto dei maggiori artisti del tempo, punto di riferimento per il dalmata e con cui egli ebbe contatti o rapporti di “dare” e “avere”.

Capolavori del suo maestro ideale Parmigianino – la grande “Madonna di San Zaccaria” degli Uffizi – del suo compagno di scorribande giovanili, Jacopo Tintoretto, di Tiziano – con la “ Madonna Aldobrandinidalla National Gallery di Londra – e ancora Vasari, Salviati, Bordon, Bassano, Polidoro da Lanciano, Lambert Sustris: tutte presenze importanti per Schiavone e per lo straordinario concerto dell’arte veneziana nell’età del Manierismo.


A ritardare il pieno riconoscimento di Schiavone, inventore di uno stile sintetico nuovo, di tocco e a tratti quasi “informale”, hanno contribuito sicuramente le nebbie che ancora avvolgono la sua biografia: in particolare la formazione tra la nativa Zara (in Croazia), l’Italia Centrale (Bologna? Firenze? Roma?) e la meta finale Venezia.
Eppure, le sue opere raggiungono vertici di straordinario livello; i suoi dipinti, disegni e incisioni impreziosiscono le dimore dei maggiori patrizi veneziani e finiscono nelle grandi collezioni reali europee; i suoi servigi vengono richiesti per la decorazione di numerose Chiese e tante repliche antiche di sue ideazioni attestano la fortuna delle sue invenzioni.

Fu Vasari a condizionare le biografie successive, definendo Schiavone esponente di
una certa pratica che s’usa a Venezia di macchie o vero bozze, senza esser finita punto”: un precursore dell’informale, verrebbe oggi da dire. Vasari lo criticò, ancor prima di recarsi a Venezia nel’41, gli commissionò la rappresentazione di una “Battaglia di Tunisi” per Ottaviano de’Medici.

Considerata la sua opinione sulla pittura lagunare, la cosa ha dell’eccezionale, spiegabile forse con la mediazione dell’Aretino, amico comune, se non con l’intento di dimostrare la superiorità sua o della scuola fiorentina. Certo è che il San Girolamo” che Vasari dipinse per l’Ottaviano l’anno successivo, ora a Palazzo Pitti ed esposto a Venezia in questa occasione, pare l’esatto contrario della proposta linguistica che Schiavone andava diffondendo in quegli anni.

Contro i commenti vasariani e in difesa di Schiavone – che addirittura viene posto da Giulio Cesare Gigli in apertura del corteo “De’ Veneziani” che seguono il carro della
“Pittura Trionfante” 1615 – furono molti a scagliarsi: grandi pittori come Annibale Carracci ed El Greco, e critici in testa ai quali Marco Boschini – rispondendo al Vasari – scrisse “ O machie senza machia, anzi splendori/che luse più de qual se sia lumiera”.

Era la “furia Dalmatica”, dal pennello veloce come freccia. Una forza della natura. E
 già Ridolfi, nelle “Meraviglie dell’arte” (1648), ricordava che Jacopo Tintoretto era
solito ripetere “ch’era degna di riprensione quel Pittore che non tenesse in casa sua un quadro d’ “Andrea”, qualche anno più tardi Boschini precisa – su fonte diretta del figlio Domenico – che Tintoretto addirittura “teneva avanti di sé, come esemplare, un quadro di questo Auttore per impressionarsi di quel gran Carattere di Colorito, così forzuto e punto”.

Certamente l’influenza di Schiavone su Jacopo Robusti e gli indizi di una loro frequentazione non episodica sono ormai accertati (non per nulla in passato furono parecchie le confusioni attributive tra i due), così com’è condiviso dalla critica che il pittore dalmata sia stato il principale diffusore del Parmigianino in area Veneta.
Dal grande artista emiliano Schiavone trae modelli figurativi che rende propri e soprattutto una forma di disegno pittorico che “è un aspetto fondamentale del suo contributo alla storia della pittura veneziana”.
I disegni pittorici del Meldola impressionano per qualità e freschezza, ma anche nelle incisioni Andrea raggiunge vertici assoluti, dimostrando una vera passione che metterà per tutta la vita (quasi maniacale per le numerose varianti, i ritocchi, la ricerca della precisione), sviluppando la sua ricerca di pari passo a quella pittorica, utilizzando in modo straordinario la puntasecca insieme al bulino e realizzando circa 150 soggetti declinati in più varianti.

La grafica di Schiavone – per la quale, oltre a Parmigianino, egli trae spunti da molti artisti veneti e del Centro Italia – costituisce senza dubbio un momento capitale nella storia del disegno veneziano e del Rinascimento lagunare e il corpus di disegno, incisioni e stampe presente in questa eccezionale occasione al Museo Correr rivela la magia di un tocco unico, senza paragoni.

Tra tutte va segnalato il “ Ratto di Elena”: incisione prestata dal British Museum insieme ad altri 13 importanti lavori dell’artista, unica opera dello Schiavone firmata e datata, 1547.


Per quanto riguarda l’interesse e la fama di Schiavone in Laguna era stato lo stesso Vasari a scrivere, nel medaglione dedicato all’artista nella seconda edizione delle Vite, che “La maggior parte delle sue opere sono stati quadri, che sono per le case de’ gentiluomini”, sottolineando così l’apprezzamento delle prove di Schiavone – che si adoperava anche nei formati minori da fregio e da cassone – tra le mura dei palazzi veneziani.
Nel Sei e Settecento la fortuna collezionistica del Meldola si spinge anche oltre i confini veneziani. Leopoldo de’Medici nel 1654 acquista un quadro “grande” di Schiavone identificato come il “Caino e Abele” della Galleria palatina – esposto al Museo Correr – ammirato per il “terribile colorito che fa stupire” e Leopoldo Guglielmo d’Asburgo vanta nelle sue collezioni numerose sue opere, oggi in gran parte confluite al Kunsthistorishes Museum di Vienna che per questo eccezionale evento ha prestato ben sei dipinti dell’artista.

Schiavone, insieme a Tintoretto, risulta l’artista del Cinquecento veneto più rappresentato anche nella collezione di Francesco Algarotti che come consulente di Augusto III di Sassonia, chiamato a completare il museo di Dresda, procura un imponente “Giove fanciullo in mezzo alle Grazie” (riconosciuto, recentemente come  l’“Infanzia di Giove”), il dipinto è un’altra presenza eccezionale nella mostra di Museo Correr.

Il mito del Rinascimento veneziano trova in Schiavone un altro grande protagonista, che in Laguna porta una pittura nuova e audace, fatta di colore, luce e movimento; una pittura a tratti “informale”, che sorprenderà Tiziano, anticiperà Rembrandt e intuirà alcune scoperte della più alta pittura del Novecento.


Maria Paola Forlani