IL RIGORE E LA GRAZIA
La compagnia di San Benedetto Bianco
Nel Seicento Fiorentino
Un “tesoro” ritrovato. Un
nucleo di opere poco conosciute, dipinte da grandi artisti del Seicento
fiorentino e accuratamente restaurate, sono restituite alla fruizione del pubblico
e esposte in mostra fino al 17 maggio 2016 negli ambienti annessi alla Cappella
Palatina di Palazzo Pitti. Realizzata in epoca lorenese per volere di Pietro
Leopoldo, la Cappella è ancora oggi aperta al culto, ma era visibile fino ad
ora in rare occasioni. La mostra costituisce una grande opportunità che vede
unirsi il principio della tutela del patrimonio territoriale fiorentino con
quello della sua valorizzazione, grazie ai restauri effettuati appositamente e
alle nuove sale espositive, anch’esse recuperate e inserite nel circuito di
visita del Museo degli Argenti.
Il tesoro esposto in mostra
proviene quasi interamente dal patrimonio della compagnia di San Benedetto
Bianco, che è stata una fra le più importanti e prestigiose aggregazioni
laicali fiorentine. Fondata nel 1357 presso il monastero camaldolese di San
Salvatore, ma trasferitasi presso (1383) nel convento domenicano di Santa Maria
Novella, la Compagnia entrò sotto la stretta influenza spirituale dell’ordine
dei Predicatori e trovò inizialmente sede nell’area dell’attuale Chiostro
Grande e poi, in via definitiva, in alcuni locali appositamente edificati da
Giorgio Vasari nel 1570 all’interno del Cimitero Vecchio.
In questa sede rimase fino alla costituzione di Firenze Capitale, quando il Comune decise di allargare via degli Avelli con l’abbattimento del recinto cimiteriale di Santa Maria Novella e dei locali di San Benedetto Bianco. La Compagnia continuò tuttavia la sua attività prima in un nuovo oratorio di via degli Orti Oricellari e successivamente presso la parrocchia di Santa Lucia sul Prato, dove si estinse. Uno degli ultimi atti della Compagnia fu la cessione alla Curia arcivescovile di Firenze di tutto il patrimonio artistico che aveva accumulato nel corso dei secoli, tramite commissione dirette o attraverso donazioni dei confratelli: la maggior parte delle opere fu depositata durante
Il desiderio di rendere
sempre più sontuoso l’oratorio e la sede della confraternita aveva infatti
spinto molti confratelli a donare dipinti, oggetti sacri e paramenti per di
più, tra i membri della Compagnia, oltre a componenti della famiglia Medici,
nonché teologi, filosofi, letterati e scienziati, vi furono anche numerosi
artisti: Matteo Rosselli, Jacopo Vignali, Carlo Dolci, il Volterrano e Vincenzo
Dandini, solo per citarne alcuni.
Molti di loro dipinsero per propria devozione alcune opere presentate in mostra che ben esprimono, per lo stile e la scelta dei soggetti raffigurati, la spiritualità penitente di San Benedetto Bianco, testimoniataci dalle opere a stampa e manoscritte del frate correttore Domenico Gori, quali gli Esercizi spirituali ad uso esclusivo dei confratelli, esposti in mostra.
Il centro della spiritualità
della Compagnia, tanto per l’originaria devozione quanto per l’influsso del
Gori, era il sacrificio di Cristo, sommo modello di perfezione a cui si poteva
avvicinare con un lento e faticoso processo di elevazione spirituale, svolto attraverso
penitenze e lunghe visualizzazioni interiori.
La meditazione frequente di quel
mistero doveva sortire nei confratelli l’effetto di una vera e propria
‘immedesimazione’, al punto da provare gli stessi ‘effetti’ – cioè i sentimenti
– sperimentati da chi fu presente alla Passione, come
Il Cristo sul Calvario, gli
strumenti della Passione e la Croce erano i soggetti più rappresentati. Nel
ricetto d’ingresso, Vincevo Dandini aveva dipinto una pala d’altare con l’Orazione nell’orto, poi sostituita nel
1646 da un dipinto dello stesso autore raffigurante Cristo caduto sotto la
croce. Il soggetto della prima pala fu rivisitato poco dopo da
Matteo Rosselli in un affresco situato nella testata di una loggetta che
fiancheggiava il cortile interno della
Compagnia, denominato appunto ‘orto’, in una stretta analogia con l’Orto degli
ulivi dove Cristo diede principio alla propria agonia.
In una stanza situata
dietro la chiesa principale e dove erano collocati i confessionali, venne posta
nel 1653 la tela che, in catalogo, è attribuita ad Agostino Melissi,
raffigurante la Flagellazione di Cristo alla colonna, il cui
soggetto va inteso in rapporto alla pratica della ‘disciplina’ – cioè
l’autofustigazione – che i confratelli praticavano in quell’ambiente (la corda
in primo piano del dipinto la richiama esplicitamente).
Oltre che con i dipinti
presenti in Compagnia, il tema della Passione veniva divulgato mediante piccoli
quadri o immagini di stampa – ad esempio l’Ecce
Homo di Carlo Dolci o il Cristo piagato
del Volterrano, artisti entrambi membri di San Benedetto Bianco – destinati
spesso a confratelli amici, per uso privato e domestico, come continui richiami
visivi a rivolgere il pensiero al sacrificio amoroso del Cristo, e al suo
patimento, atto di redenzione per l’umanità.
La donazione più importante
ricevuta dalla Compagnia è la serie di otto tele a soggetto biblico che il
confratello Gabriele Zuti si era fatto dipingere per la propria abitazione
nella seconda metà degli anni Quaranta del XVII secolo, e che lasciò a San
Benedetto Bianco alla propria morte nel 1680. Si tratta di un ciclo unico, con
capolavori di alcuni fra i maggiori artisti del Seicento fiorentino, i cui
soggetti tratti dal Vecchio Testamento – scelti con l’ausilio di qualche dotto
confratello – alludevano ad eventi precisi della vita familiare dello Zuti,
segnata indelebilmente dalla tragedia della peste del 1630.
Si ricordano Giacobbe ed Esaù, di Lorenzo Lippi, Giaele e Sisara di Ottavio Tannini, Ritrovamento di Mosè di Jacopo Vignali, Geroboamo e il profeta Achia, di Vincenzo Dandini, Ripudio di Aga di Giovanni Martinelli, Guarigione di Tobia di Mario Balassi, Susanna e i vecchioni di Agostino Melissi, Lot e le figlie di Simone Pignoni.
Una menzione particolare
meritano le due tavole di Cristoforo Allori (che l’odierno restauro ha
meritoriamente riportato alla vita, arrestando i danni subiti dall’alluvione
del 1966), raffiguranti San Benedetto e
San Giuliano esse erano in origine
unite a formare la grande pala che schermava le reliquie collocate nell’enorme
altare-reliquario della Compagnia e che, grazie ad un meccanismo di corte,
poteva essere scenograficamente alzata per la loro ostensione.
La mostra, come il catalogo edito da Sillabe, è a cura di Alessandro Grassi, Michel Scipioni e Giovanni Serafini.
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