De Chirico a Ferrara.
Metafisica e avanguardie
Come non dimenticare quel ‘tempio
di luce’, dopo la insuperabile mostra a Palazzo dei Diamanti dedicata a “ I de
Chirico dei de Chirico” (1970), (con l’insigne maestro presente all’evento),
che Franco Farina aveva creato a Palazzo Massari su la storia della Metafisica
per immagini luminose.
Giulio Carlo Argan la definì,
in un’intervista sull’Espresso, una delle più originali e geniali
esposizioni-didattiche di quegli anni e così Calvesi ed Andrea Emiliani la citarono
più volte, come straordinario esempio, in molte loro lezioni su la museologia.
Quella esperienza originale
ed unica è diventata nel tempo solo un ricordo e frutto di molte tesi di
laurea.
Ora a cento anni dalla loro
creazione tornano a Ferrara i rari capolavori metafisici che Giorgio de Chirico
dipinse nella città estense tra il 1915 e il 1918. La mostra, organizzata dalla
Fondazione Ferrara
Arte e dalla Staatsgalerie di Stoccarda in collaborazione con l’Archivio
dell’Arte Metafisica e curata da Paolo Baldacci e Gerd Roos celebra questa
importante stagione dell’arte italiana e documenta la profonda influenza che
queste opere ebbero su Carlo Carrà e Giorgio Morandi, e poco dopo sulle
avanguardie europee del dadaismo, del surrealismo e della Nuova oggettività.
Giorgio de Chirico, nato a
Volo in Tessaglia dove suo padre si era trasferito per incarichi inerenti alla
sua professione di ingegnere, aveva frequentato il Politecnico di Atene,
studiandovi ingegneria e belle arti. Deciso a consacrarsi definitivamente alla
pittura, nel 1906 de Chirico si reca a Monaco, richiamato dall’opera dei
romantici tedeschi, e soprattutto di Arnold Böcklin. Tre
anni dopo raggiunge l’Italia, soffermandosi a Milano e a Torino e trasferendosi
a Firenze.
Torino, che già aveva eccitato
la fantasia di Nietzsche, turbò profondamente anche il giovane artista: essa
favoriva in lui il sensibilizzarsi di quel nuovo rapporto con il reale in
ragione del suo stesso ordinamento urbanistico, per il quale i Castellamonte
avevano predisposto un geometrico disegno di lunghe prospettive di strade e di
viali, interrotte dalle ampie e solenni pause delle piazze.
Fra il 1910 e il 1911, a Firenze, dopo aver
accumulato tante esperienze insieme visive e spirituali, egli dipinge le prime
opere metafisiche, come L’enigma
dell’ora, e nel luglio dello stesso anno si reca a Parigi, dove esporrà al
Salon d’Automne e agli Indépendants. Fioriscono così, quasi per prodigio, quei
dipinti destinati a dischiudere un nuovo corso all’arte moderna: Melanconia e Stanchezza dell’infinito del
1912,
La torre, Composizione metafisica e Piazza
d’Italia del 1913 e il 1914.
<<Le piazze
italiane>> di de Chirico sono inaccessibili come un castello Kafkiano;
similmente a un labirinto
dispongono di cento aperture ma celano la chiave del proprio segreto. Esse
dichiarano per prime la condizione dell’uomo diventato straniero al proprio
mondo.
A Parigi de Chirico era
entrato in relazione d’amicizia con gli esponenti delle avanguardie e, in
particolare con Guillaume Apollinaire. Proprio nel 1914 egli dipinge il
ritratto del poeta, detto anche Ritratto
premonitore in quanto la testa di Apollinaire appare centrata da un
proiettile, ciò che purtroppo accadrà di lì a qualche anno sul fronte
occidentale. Apollinaire, come del resto Picasso, aveva subito intuito
l’importanza della proposta metafisica di de Chirico, tanto che non esitò a
definirlo <<il più stupefacente pittore del suo tempo>>.
Ritornato in Italia allo
scoppio della guerra, de Chirico viene mobilitato e inviato a prendere servizio
all’ospedale militare di Ferrara dove nel gennaio 1917, incontra Carlo Carrà,
inviatovi in degenza per disturbi nervosi.
Il dialogo fra Carrà e de
Chirico si svolge intenso, con reciproci contributi d’idee, ma, in particolare,
sull’onda dell’entusiasmo per un rinnovato contatto con la grandezza della
tradizione italiana, quella che riesce magicamente ad esprimere
la <<seconda
realtà>>.
A Ferrara - <<la più
metafisica delle città d’Italia>> come dice de Chirico – prende avvio
così la Pittura Metafisica.
Ai due artisti si affiancherà anche Giorgio Morandi (1890 –
1964), proveniente dalla vicina Bologna, egli pure interessato analista del
muto dialogo delle forme e degli oggetti. Fra la quiete è il fratello di de
Chirico, Andrea, in arte Andrea Savinio (1891 – 1952).
La cultura aggiornata e
cosmopolita di Savinio, scrittore e musicista oltre che pittore, sarà di
stimolo per tutti: i discorsi di Savinio contemplano infatti le cento
significazioni diverse che una cosa può assumere ove sia rappresentata in modo
tale da abdicare a quella misura di conoscenza che è costituita dalla sua
stessa destinazione strumentale, ma si dilatano fino a investire le possibilità
evocative insite nelle associazioni desuete delle immagini e ad inquisire
l’arte visionaria del passato.
Il repertorio iconografico
dei pittori metafisici intanto si allarga e si arricchisce con l’assunzione del
manichino. I manichini potrebbero assumere a monumenti all’uomo senza qualità,
condannato dal progresso meccanico di cui generalmente reca i simboli: la
squadra, gli strumenti di precisione, la lavagna che attende le formule
che condizioneranno la nostra
esistenza. L’artista, sempre più solo, si è rifugiato nella contemplazione
delle cose e le ha trovate derubate del loro senso ordinario:
da loro non attende una
risposta logica, ma occulta. Cerca di indovinare se stesso in quel mondo,e si
trova, appunto, dinanzi a un manichino. Se un ultimo spunto dell’antica
saggezza gli rimane, questo è l’ironia: e talora i manichini sono proprio
intrisi d’un velo d’ironia. Se poi un ultimo slancio della perduta
<<humanitas>> riaffiora, ecco il manichino tentare un abbraccio con
un altro essere di analogo destino, come in Ettore
e Andromaca.
Aveva detto Carrà:
<<Nell’opera d’arte c’è talvolta Iddio, più spesso vi si nasconde il
diavolo>>. La
Pittura Metafisica sfugge al regno del sublime e a quello del
demoniaco per situarsi in un’altra categoria: nel limbo del magico. Un limbo:
il territorio ideale che non ha l’apertura per la fuga, né il baratro per la
perdizione.
Altrettanto importante è la
presenza di Giorgio Morandi, il cui percorso verso la sospensione metafisica e
il realismo magico è documentato da un ristretto gruppo di tele realizzate tra
il 1916 e il 1919: dalla famosa Natura
morta rosa fino a quelle coi busti di manichino e con i vasi sul tavolo
rotondo del 1919.
Attraverso poche ma
essenziali opere di Filippo de Pisis, il primo e più fedele compagno ferrarese
di de Chirico, si può seguire il singolare percorso che sviluppa una visione
personale della metafisica, dai primi collage dadaisti fino alle opere degli
anni Venti, dense di citazioni dalle opere dell’amico: Natura morta accidentale, 1919-20, I pesci sacri, 1926, Natura
morta con gli occhi, 1923.
L’influenza capillare della
pittura metafisica sulle avanguardie europee del dopoguerra, avvenuta
soprattutto tramite la diffusione della rivista << Valori
plastici>> e le mostre itineranti organizzate dal suo editore Mario
Broglio – è documentata da una serie importante di opere di Man Ray, Raul Hausmann,
Gorge Grosz, René Magritte,
Salvator Dalì e Marx Ernest, che realizzarono straordinari capolavori ispirati
ai temi e alle iconografie ferraresi di de Chirico e Carrà.
Maria Paola Forlani
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