I VIVARINI
Lo splendore della pittura
Tra Gotico e Rinascimento
Si è aperta a Palazzo Sarcinelli di Conegliano, fino al 5
giugno 2016 la prima mostra mai realizzata sui Vivarini, la famiglia di
artisti muranesi in primo piano nel magico panorama dell’arte veneziana del
Quattrocento, che giunse a contendere il primato alla celebre bottega dei
Bellini.
L’evento promosso dal Comune di Conegliano e da Civita
Tre Venezie è a cura di Giandomenico Romanelli (catalogo Marsilio) con il
titolo I
Vivarini lo splendore della pittura tra Gotico e Rinascimento.
I tre artisti Vivarini, (Antonio, il fratello Bartolomeo
e il figlio di Antonio, Alvise) furono tra i principali e più originali interpreti
della pittura veneziana nella stagione di passaggio tra la cultura figurativa
gotica e l’affermazione del Rinascimento.
La loro attività copre un arco cronologico di circa sei
decenni (tra il 1440 e il 1503) e ha lasciato un imponente numero di opere nei
territori della Repubblica di Venezia (dalla capitale al confine occidentale
verso il Ducato di Milano, con particolare densità a Bergamo) come sulle coste
adriatiche, sia in Istria e nella Dalmazia che nelle Marche, in Abruzzo, in
Puglia e nelle province del regno di Napoli.
La bottega artistica dei Vivarini ha sviluppato una sua
poetica e un suo peculiare linguaggio: a fianco e talvolta in competizione con
l’altra celebre famiglia di pittori veneziani, quella dei Bellini, essa si è
confrontata e ha recepito l’esperienza dei grandi innovatori dell’arte del
primo Rinascimento: Paolo Uccello, Donatello, Masolino da Panicale, Filippo
Lippi, Andrea del Castagno; quindi Andrea Mantegna e Antonello da Messina, poi
Perugino e altri ancora. Tracce di questi contatti e di questi confronti si
possono riconoscere nella pittura dei Vivarini, che si è venuta aggiornando e
arricchendo in maniera assai evidente nel corso dei decenni senza perdere in
originalità e novità.
L’intenzione dei curatori della mostra, la prima mai
dedicata ai Vivarini, è quella di illustrare l’importante percorso da loro
compiuto.
Di sfatare alcuni ingiustificati pregiudizi, come quello
per cui i Vivarini sarebbero gli interpreti di un’avventura culturale destinata
a soccombere rispetto alla linea vincente (quella, per altro straordinaria,
Bellini-Giorgione-Tiziano) o a rappresentare una corrente artistica marginale e
provinciale (le opere in mostra dell’ultimo Alvise e l’intero coneglianese e
trevigiano con la ricchezza e la qualità della pittura dei “seguaci” dei
Vivarini smentiscono decisamente tale ragionamento). Infine è l’occasione per
indagare e conoscere la composizione della committenza della Chiesa del secondo
Quattrocento e, soprattutto, con il mondo delle osservanze, ossia delle correnti riformate negli
ordini religiosi.
I pittori Vivarini
furono tre, come ben noto: Antonio, il più anziano, nato prima del 1420; suo
fratello Bartolomeo, di una decina d’anni più giovane e Alvise, figlio di
Antonio, nato in una data tra il 1442 e 1433. Originari di Murano in una
famiglia proveniente da Padova trasferitasi in laguna a lavorare il vetro,
continuarono a praticare questa materia e, anzi, la più celebre delle grandi
vetrate veneziane, quella della basilica dei Santi Giovanni e Paolo, vide la
partecipazione creativa di Bartolomeo e, forse, Alvise.
Le opere di esordio di Antonio, nella prima sala della
mostra, quali il Polittico di
Parenzo, firmato e datato 1440, al quale si può affiancare per
affinità stilistiche la raffinatissima Madonna col Bambino Gallerie
dell’Accademia di Venezia, sono caratterizzate da una soffice plasticità nella
resa delle figure che vengono però ancora impaginate contro un fondo oro
uniforme che annulla lo spazio e le immagini in un’atmosfera sospesa e irreale.
La forma classica dell’ancona gotica prevede una
complessa cornice intagliata e dorata articolata verticalmente su uno o più
livelli e orizzontalmente su una serie di edicole o scomparti, ciascuno
occupato da una e più figure; gli scomparti centrali erano solitamente
destinati alla Vergine con il Bambino oppure al santo titolare dell’altare. In
alto, nel fastigio, compariva il più delle volte il Cristo in passione.
Nell’Uomo
dei dolori della Pinacoteca Nazionale di Bologna, probabile
scomparto di un polittico smembrato, Antonio mette a punto un’originale
raffigurazione con il Cristo che appare quasi vivente, pervaso da una forza
dinamica e arditamente inserito nel paesaggio.
Dal principio degli anni quaranta l’attività di Antonio
si intreccia con quella del pittore Giovanni d’Alemagna che ne sposa la
sorella. Questo sodalizio ed operosità in comune è presentata nella seconda
sala pel percorso espositivo.
Le opere firmate da entrambi sono sontuose e complesse
ancone per chiese veneziane richieste da una committenza strettamente
religiosa. Tra i capolavori di questa spettacolare produzione vi è la Madonna in trono con il Bambino, parte
di un trittico smembrato proveniente quasi sicuramente dalla veneziana chiesa
di San Moisè. Lo scomparto centrale con la Vergine e il Bambino è uno splendido
esempio di virtuosismo formale e tecnico specie nella resa prospettica del
trono gotico, riccamente intagliato e traforato.
Nel 1446 Antonio risulta residente a Venezia, nella
parrocchia di santa Maria Formosa, ma l’anno seguente la bottega viene
trasferita a Padova, città nella quale lavora per ben dieci anni Donatello e
dove sta crescendo potentemente la personalità di Andrea Mantegna. Qui la sfida
più impegnativa che Antonio e il cognato Giovanni affrontano fu la decorazione
della cappella Ovetari nella chiesa degli Eremitani, da condursi lavorando a
fianco di due giovani artisti emergenti: Andrea Mantegna e Nicolò Pizzolo. La
documentazione fotografica anteriore al bombardamento del 1944 su Padova mostra
lo sforzo di Antonio e Giovanni di adeguarsi a un nuovo e moderno gusto, ricco
di interessi antiquari.
Nella terza sala spicca la figura di Bartolomeo Vivarini,
fratello minore di Antonio che segue probabilmente il fratello a Padova e, dopo
la brusca interruzione dell’esperienza Ovetari, la morte di Giovanni di
Alemagna avvenuta nel giugno 1450, si trova a collaborare strettamente con lui.
Gli anni cinquanta risultano infatti intensi e ricchi di commissioni, non solo
in terra veneta ma anche in quella sorta del “golfo di Venezia” che si
espandeva lungo le coste adriatiche. Ѐ molto difficile in tali lavori
distinguere le due diverse mani, ma nel polittico per la chiesa di San
Francesco a Padova del 1451, disperso in varie collezioni, di cui in mostra appaiono
gli scomparti con i santi Antonio da Padova e Ludovico da Tolosa ma soprattutto
nel Polittico di Rutigliano (Puglia) e nel Polittico di Arbe dalla chiesa di
San Bernardino nel monastero di sant’Eufemia di Arbe (Rab.Croazia) il
linguaggio di Bartolomeo risulta ancora coincidente con quello della bottega,
mentre lo stile di Antonio sembra mutare verso modi nuovi.
La quarta e la quinta sala sono dedicate a Bartolomeo
Vivarini che dopo la morte del fratello Antonio, a partire dagli anni sessanta,
appare muoversi verso un suo personale e originale itinerario. Negli anni
ottanta Bartolomeo seguita a dipingere secondo la formula che gli ha garantito
il grande successo: non sa, o non vuole aggiornare il proprio linguaggio.
Lavora per la terra veneziana o per le località lungo le coste adriatiche, ma
dalla seconda metà del decennio, si affaccia anche il mercato bergamasco
eseguendo numerosi polittici a fondo oro.
Nelle tre ultime sale abbiamo il percorso del nipote
Alvise Vivarini.
Inizialmente vicino ai modi dello zio Bartolomeo (e di Andrea
Mantegna), egli se ne distacca progressivamente, attratto dal magistero di
Antonello da Messina e di Giovanni Bellini. Nella sua fase finale la sua
pittura si caratterizza in un impegno di ricerca sperimentale inedita.
Tra le sue opere più rivoluzionarie è il Cristo risorto della chiesa di San Giovanni Battista in Bragora (Venezia), databile al 1497-1498, riconducibile a nessun modello della coeva pittura veneziana. La figura atletica di Cristo risulta animata da un moto di torsione che scardina ogni precedente modalità di inserimento del corpo nello spazio, portando dentro la storia la dimensione dell’evento soprannaturale.
Maria Paola Forlani
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