Indagine di un mito
Si è aperta la grande mostra,
con – circa 250 opere –
Piero della Francesca. Indagine su un mito. Forlì, Musei di San Domenico, fino al 26 giugno, sotto
la direzione generale di Gianfranco Brunelli.
Come spiega in catalogo
(Silvana Editoriale) Antonio Paolucci, presidente del nutrito e autorevole
comitato scientifico che l’ha concepita, questa rassegna affronta l’argomento
di Piero della Francesca, analizzando il ruolo che il grande pittore di Borgo
San Sepolcro (1410-20 ivi, 1492) ha ricoperto nella storia dell’arte italiana,
anche alla luce del mito che la Modernità otto-novecento ha costruito attorno a
lui.
Quando intorno al 1850 i
Preraffelliti inglesi iniziarono la loro battaglia per una pittura che
ritornasse alle fonti della purezza e della semplicità quattrocentesche,
ignoravano Piero della Francesca. Nemmeno il loro mentore, John Ruskin, nei
suoi pellegrinaggi italiani fra le “pietre di Venezia” e le “mattinate
fiorentine” pensò mai di recarsi ad Arezzo. Ma forse, Piero non sarebbe
piaciuto a questi inglesi spiritualizzati. Troppo chiaro, troppo poco
simbolico, troppo poco devoto.
La fama di Piero si era
oscurata a pochi anni dalla morte, anche se Vasari gli dedica una delle sue Vite, e nel 1795-96 il Lanzi ne parla
come di “Uno dei pittori da far epoca nella storia…se avesse la grazia di
Masaccio gli saria quasi pari…”.
A parte l’uso di un termine
come “grazia” per l’arte virile e ferma di Masaccio, il giudizio in realtà
appare del tutto negativo, poiché non coglie nulla dell’essenza della pittura
pierfrancescana, e tale incomprensione prosegue nel giudizio di Cavalcaselle e
Crowe, che addirittura affermano che “… mancò in lui la qualità essenziale per
un artista, qual è quella della scelta delle forme, per essere fra i più
eccellenti…”.
I fraintendimenti dell’arte
di Piero della Francesca continuarono fino al 1913, quando allora assai giovane
Roberto Longhi pubblicava il saggio su Piero
dei Franceschi e lo sviluppo della pittura veneziana, dove finalmente coglieva
i nessi fra il Centro e il Nord italiano proprio attraverso la figura di Piero,
nodo cruciale per il quale l’arte di Antonello da Messina e quella di Giovanni
Bellini ricevevano il sigillo di un nuovo luminismo prospettico ignoto ai
toscani. Con la monografia del 1927 Longhi portava a compimento gli studi su
Piero e ne sistemava il catalogo.
Dall’analisi longhiana
appariva anche il ruolo fondamentale svolto da Domenico Veneziano nella
formazione di Piero, quella prima sintesi di luce, spazio e colore, di
prospettiva toscana e naturalismo fiammingo che era il portato più nuovo a
Firenze dalla morte di Masaccio.
Proprio negli anni della
formazione artistica fiorentina di Piero, era in corso il tentativo di
avvicinamento fra Chiese d’Oriente e d’Occidente; per Firenze, Ferrara e
Venezia era possibile vedere i maestosi corteggi dell’imperatore Giovanni VIII
Paleologo e dei Patriarchi ortodossi come il Cardinal Bessarione. Al fasto si
accompagnava la suggestione di una liturgia solenne e antica, la ieraticità di
gesti e di voci che si ritrovano esattamente nelle figure di Piero, quasi un
omaggio alla grande speranza della ritrovata unità dei cristiani. Il ciclo con
le Storie della Vera Croce ad Arezzo
appare come una grande metafora di quelle speranze, un anno prima che la caduta
di Bisanzio calasse come definitiva condanna sul più antico impero
sopravvissuto a Roma. Piero, di questo affresco, ne fa una meditazione abissale
sulla permanenza della fede e della divinità all’interno del frastuono del
mondo, l’affermazione dell’eternità sugli effimeri destini dell’uomo.
E a questo giunge per via squisitamente
pittorica, espressiva attraverso il sovrano mezzo della prospettiva, che misura
e ritma figure e cose, volti e gesti nella cadenzata solennità di una regola anch’essa
eterna e conciliabile.
Piero lo troviamo a Modena,
il primo dei tanti centri dell’Emilia Romagna in cui sostò, lasciando saggi
della sua maestria: tutti perduti, salvo il celebre affresco “araldico” nel
Tempio Malatestiano di Rimini, da lui firmato nel 1451.
Per illustrare la cultura
pittorica fiorentina tra gli anni Trenta e Quaranta la mostra, facendo perno su
una Madonna con il Bambino, che è
l’opera più giovanile ascrivibile a Piero giunta fino a noi, esibisce opere di
Domenico Veneziano, Beato Angelico,
Filippo Lippi, Paolo Uccello e Andrea del
Castagno, esponenti di punta della pittura post-masaccesca e protagonisti di
quella ricerca prospettica che Piero eleverà a pietra angolare del suo
linguaggio figurativo, divenendone anche il più compiuto teorico.
Gli spostamenti dell’artista
fra Modena, Bologna, Rimini, Ferrara e Ancona nel quinto decennio del secolo
determinano l’affermarsi di una cultura
pierfrancescana nelle opere di artisti
emiliani come Marco Zoppo,
Francesco del Cossa,
Ercole de’ Roberti,
Bartolomeo degli Erri,
Lorenzo e Cristoforo da Lendinara, quest’ultimo indagato non solo per le ben
note tarsie prospettiche, ma anche per l’attività più squisitamente pittorica.
Il raggio d’influsso
marchigiano di Piero, ribadito dalla sua presenza nella Urbino di Federico da
Montefeltro, trova riscontro in altri artisti, tra cui Fra Carnevale e Giovanni
Angelo da Camerino, mentre il riflesso della sua attività in patria e ad Arezzo
è esemplificata dalle opere mirabili di Luca Signorelli, Bartolomeo della Gatta
e Perugino, mentre esempi eloquenti di Melozzo e di Antoniazzo Romano
testimoniano l’impatto che ebbero nella città pontificia gli affreschi, poi
inesorabilmente ricoperti da Raffaello, che Piero eseguì tra l’inverno del 1458
e la primavera del 1459 nell’appartamento di Pio II.
La quasi totale scomparsa dei
lavori romani di Piero resta uno dei maggiori ostacoli alla dimostrazione del
ruolo determinante che la sua <<sintesi prospettica di
forma-colore>>, per usare l’aurea formula coniata da Roberto Longhi nella
capitale monografia del 1927, ebbe una costruzione di una lingua figurativa
italiana che coinvolse anche la Scuola veneta. Un capitolo quest’ultimo, che è
ben esemplificato in mostra, da opere di Antonello da Messina, Giovanni Bellini
e del veronese Francesco Benaglio, che fa perno sull’unico dipinto di Piero
tuttora nella città lagunare: il San
Girolamo e un devoto delle Gallerie dell’Accademia .
A fianco delle opere di Piero
e di coloro che (prima che un secolare oblio calasse – inspiegato sulla sua
figura) ne ascoltarono la lezione fino a considerarlo, come scrisse Luca
Pacioli nel 1509, il “monarca della pittura”, stanno oggi in mostra a Forlì le
opere dei due secoli che, in Italia e in Europa, ne riscoprirono la grandezza:
il XIX e il XX. Ed è molto ampio, concettualmente non meno che
cronologicamente, l’arco indagato. Il reingresso, cioè, del maestro di
Sansepolcro nella coscienza degli artisti e della storiografia tutta (dai
macchiaioli a Seurat, fino a Balthus e Hopper; e da Cavalcaselle a Berenson, da
Adolfo Venturi a Longhi).
Fu Longhi che aveva
attribuito a Piero la “creazione del moderno colorismo come armonia calda e
solare di toni contrapposti e di gamma totale, espansi sulle superfici di un
riposo coloristico non più raggiunto”, facendone dunque il punto di riferimento
per il tonalismo contemporaneo, come la pittura di Guidi dominata da una gran
luce diffusa e cadenzata da figure immote nell’atmosfera sospesa, chiuse nei
loro gesti bloccati e ieratici che possiamo ritrovare anche nella Silvana Cenni di Casorati.
Era, Silvana Cenni, una
figura solenne, stagliata come un’icona muta e immota al centro d’un partito
architettonico d’assoluta assialità. In quella sua severa giovinezza assorta,
nel suo allargare le braccia e distendere le lunghe, gelide mani come a
comprendere tutto il mondo dentro il suo abbraccio, si ripete il gesto analogo
della
Madonna della Misericordia di Piero, <<chiusa nell’autosufficiente contemplazione
della propria indefettibile perfezione geometrica>>, come scrive oggi
Daniele Benatti.
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