Street
ART
Banksy & CO.
L’Arte
allo stato Urbano
Dopo dieci lustri, il fenomeno socio-culturale del
graffitismo urbano ha guadagnato una rilevanza unica nel panorama della
creatività contemporanea: le opere di artisti come Banksy hanno invaso le maggiori città del mondo, e dagli anni
Ottanta a oggi la stessa Bologna si è affermata come punto di riferimento per
molti artisti – da Cuoghi Corsello a Blu passando per Dado e Rusty – che hanno
scelto proprio la città
Felsinea per lasciare il loro segno sui muri.
Fino al
26 giugno questa forma d’arte è raccontata nella sua evoluzione, interezza e
spettacolarità nelle sale di Palazzo
Pepoli – Museo della Storia di Bologna con una grande mostra intitolata Street Art-
Banksy
& Co.
L’evento presenta inoltre per la prima volta in Italia
parte della collezione del pittore statunitense Martin Wong donata nel 1994 al Museo della Città di New York, presentata
nella mostra City as Canvas: Graffiti Art
from the Martin Wong Collection, a cura di Sean Corcoran curatore di stampe e fotografie del Museo. Come
mostra dentro la mostra, la sezione vuole individuare la New York del 1980,
nella quale si possono ammirare lavori dei più grandi graffiti writers e street
artists statunitensi come Dondi Whith,
Keith Haring e Lady Pimk.
La mostra, prodotta e organizzata da Fondazione Cassa
di Risparmio in Bologna, Genus Bononiae, Musei nella città e Arthemisia Group,
curata da Luca Ciancabilla, Christian
Omodeo e Sean Corcoran, intende
spiegare il valore culturale e l’interesse artistico della street art.
Cercando un punto d’inizio alla pratica espressiva del
dipingere i muri, la mente corre alla notte dei tempi, quando la scrittura era
ancora lontana dall’essere inventata e le immagini raffigurate non avevano
finalità estetiche, quanto piuttosto magiche e propiziatorie. Tra le
testimonianze figurative giunte ai giorni nostri quelle più note sono forse le
grotte spagnole di Altamira e quelle francesi di Lascaux, Chauvet e del
Pech-Merle, queste ultime con dipinti murali rupestri risalenti addirittura al
25.ooo-20.000 a.C. Qui sono tra l’altro visibili alcune impronte in negativo di
mani, realizzate spruzzando sugli arti del colore: un segno d’individualità
impresso sul muro, che anticipa sorprendentemente l’uso, in epoca prescritturale,
delle “tags”, le firme vergate in tutto il mondo dai writers, a partire dalla
fine degli anni Sessanta del Novecento.
Avanzando nella cronologia, un altro significativo
capitolo dell’uso artistico dei muri, ora pienamente artistico, è rappresentato
dagli affreschi medievali. Più che affreschi, sarebbe meglio definirli
semplicemente dipinti murali: se la base di gran parte di tali opere era
effettivamente affrescata (con il colore applicato sull’intonaco ancora
bagnato), molti particolari erano aggiunti successivamente a secco, con
soluzioni polimateriche che prevedevano in molti casi l’inserzione di oggetti
tridimensionali, ad accentuare l’effetto scenografico.
Ma l’ascendente certamente diretto della Street Art
d’oggi è rappresentato dal muralismo internazionale del primo dopoguerra.
Esemplari in tal senso sono la Francia (ove nel 1935 si tenne il primo Salon de
l’Art Mural) ma soprattutto il Messico postrivoluzionario e l’Italia fascista;
paesi che, a latitudini e su fronti politici opposti, condividevano entrambi
l’idea che l’opera d’arte murale dovesse essere vissuta dal popolo come
patrimonio e valore collettivo, attuata pertanto come finalità educative quanto
propagandistiche.
Sempre in America Latina, nel Cile di Allende, si
assiste a partire dal 1970 a una nuova ondata di dipinti murali a scopo
didattico-politico che segnano profondamente il panorama urbano cileno.
Nel 1973, con il golpe del generale Augusto Pinochet, i murales realizzati dai giovani di Unidad Popular – in particolare quelli a opera della Brigada Ramona Parra – vennero distrutti e molti dei loro autori torturati e assassinati. Alcuni artisti esuli diedero vita in Europa a dipinti murali in solidarietà al popolo cileno, riprendendo le iconografie d’oltreoceano; per l’Italia, vanno ricordati i numerosi murales della Brigada Pablo Neruda e della Brigada Luis Corvalàn, alcuni dei quali recentemente restaurati per il loro alto valore storico, oltre che artistico.
Il murale degli anni Settanta è quasi sempre politico
ed è vissuto in maniera collettiva, portato avanti da circoli culturali,
associazioni di artisti e perfino scuole e comitati di quartiere. Rispetto ai
dipinti murali degli anni Trenta, queste opere legate alla contestazione sono
spesso accompagnate da scritte e slogan.
Per quanto predominanti, murales e scritte non furono
gli unici mezzi di comunicazione creativa murale utilizzati negli anni della
cosiddetta Controcultura (1967-1977). Sempre a metà strada tra legale e
illegale, vanno perlomeno ricordati i manifesti – da quelli della California
più psichedelica a quelli europei degli studenti in rivolta, su tutti quelli
del parigino Atelier Populaire, entrati e a ragione in ogni storia della
grafica che si rispetti – e non da ultimo i giornali murali.
A Documenta 7 esposero due giovani artisti che avevano
mosso i primi passi a Fashion Moda e che di lì a poco diventarono dei cavalli
di razza dell’arte statunitense e del graffitismo nello specifico: Jean-Michel
Basquiat e Keith Haring.
Di tutto ciò in Italia si ebbe notizia solo nei primi
anni Ottanta, grazie agli straordinari reportage di Francesca Alinovi per
“Flash Art”, e alla mostra
Arte
di frontiera (Bologna 1984) nata da un
progetto della giovane ricercatrice, prematuramente e tragicamente scomparsa
l’anno prima.
Le seminali ricerche di Francesca Alinovi non ebbero
immediata ricezione sul versante artistico italiano. Si dovettero attendere gli
anni Novanta perché il writing metropolitano si diffondesse pienamente in
maniera matura, anche in Italia.
Ma nel fra tempo le cose erano cambiate e questa nuova
strada aperta portò presto a un bivio: da una parte il mondo del writing e dei
graffiti, quello con il suo linguaggio, le sue “crews”, i suoi luoghi e la sua
indomita ricerca stilistica; dall’altra, oltre il muro, un movimento nuovo, in
parte connesso al writing e ai graffiti, ma per molti altri aspetti
sostanzialmente e profondamente diverso: la Street Art, il movimento artistico
oggi più capillarmente diffuso al mondo, dalla natura in costante evoluzione e ridefinizione, i cui frutti hanno una vita
spesso effimera, precaria, evanescente, sebbene non manchino opere più
durevoli, talvolta frutto di commissioni pubbliche.
Rispetto al writing, nella Street Art mutano i
riferimenti culturali. Mutano le tecniche. Il rapporto tra legale e illegale.
Le dimensioni. Il concetto di unicità dell’opera. La percezione da parte
dell’arte ufficiale e, in molti casi, anche da parte del passante, che non
considera più l’intervento su muro solo un atto vandalico a prescindere.
Maria Paola Forlani
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