venerdì 31 marzo 2017

PAOLO MANARESI

Paolo Manaresi

I colori dell’inquietudine
Oli, tempere e pastelli inediti di un grande artista bolognese


Paolo Manaresi, il mio professore d’incisione all’Accademia di Belle Arti di Bologna,  con cui, noi allievi, abbiamo vissuto momenti di intense conversazioni sull’arte e sul mondo che ci circondava…Paolo Manaresi ascoltava ed osservava la nostra vitalità, che in quegli anni si dibatteva tra mille incertezze e lotte sessantottine, inquietudini e disagi che affioravano dai nostri sguardi in cerca di ‘verità’. Sfioravamo la lastra inchiostrata con la tarlatana, coprivamo di segni la superficie di zinco incerata, la tuffavamo nell’acido per più morsure, intanto Manaresi sorridendo guardava il nostro lavoro, il nostro operare e solo lì vedeva la risposta a tutte le nostre  attese.
Quando giovanissima feci la mia prima mostra alla Galleria Il Forziere a Ferrara, Manaresi mi scrisse una lettera affettuosa:
<< Carissima Paola
ho saputo della tua mostra ferrarese e non mancherò di venire da te; conosco il tuo entusiasmo così palesemente sincero per ogni espressione d’arte; i tuoi quadri non potranno che averne questa interiore vivificazione e finalità…Sei stata una delle care e migliori allieve che non si possono dimenticare, ed ancora oggi ci dai la gioia di rivederti periodicamente e leggere nel tuo limpido sguardo l’entusiasmo per il tuo e nostro operare…
Così, cara Paola, voglio in anticipo inviarti quei miei spontanei voti augurali che dal primo momento che ti ho conosciuta sono costanti e per sempre nel mio animo per te.
Con affetto il tuo
P.Manaresi
Bologna marzo.1970  >>

Paolo Manaresi nacque a Bologna nel 1908. Nel 1929 si diplomò all’Accademia di Belle Arti, dove era stato allievo di Giovanni Romagnoli e Achille Casanova.
Dal 1934 insegnò alla Scuola d’Arte di Varallo Sesia ed intraprese l’attività di scultore. Nel 1945 ritornò a Bologna come docente al Liceo Artistico. Dal 1949, incoraggiato da Giorgio Morandi, si dedicò attivamente all’incisione. Nel 1950 fu invitato alla Biennale di Venezia dove ritornò nel 1952. Nel 1953 Carlo Alberto Petrucci, direttore della Calcografia Nazionale, ordinò presso l’istituto romano un’ampia antologica dell’opera grafica di Manaresi. Sempre nel 1953 divenne direttore dell’Istituto d’Arte di Bologna. Nel 1954 ottenne il Gran Premio Internazionale per l’incisione alla XXVII Biennale di Venezia. Dal 1956 al 1958 insegnò all’Accademia di Belle Arti di Firenze. Nel 1958 Giorgio Morandi lo volle come suo successore alla cattedra di Tecniche dell’Incisione presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Tra gli anni ’60 e ’70 molti furono i premi prestigiosi che gli furono assegnati in tutta Europa per l’incisione. Fino al 1978 in cui l’Associazione “Francesco Francia” in collaborazione con il Comune di Bologna gli dedicò una grande antologica, suddivisa in due sezioni: una di dipinti presso il Museo Archeologico, l’altra sull’opera grafica presso la Galleria d’Arte Moderna.

Con l’evento del 1978 si conclude l’iter di Manaresi. Negli anni successivi si rifugiò nel suo studio presso il Collegio Venturoli di cui era amministratore. Dopo un lungo periodo di disagio esistenziale, alla fine di luglio del 1991 decide di porre fine alla propria esistenza.


La Raccolta Lercaro con la mostra Paolo Manaresi. I colori dell’inquietudine, a cura di Andrea Dall’Asta SJ e Francesca Passerini con la collaborazione di Donatella Agostini Manaresi (aperta fino al 2 luglio 2017), ricorda il grande artista Paolo Manaresi (1908-1991), protagonista dell’arte bolognese del Novecento, di cui è stato Maestro nel campo dell’incisione.
Rispetto alle precedenti esposizioni che hanno celebrato l’artista, la mostra della Raccolta Lercaro si presenta in modo inusuale: non sono infatti esposte (solo) le sue straordinarie incisioni, ma soprattutto le opere pittoriche, per lo più sconosciute al grande pubblico. All’interno del percorso espositivo vengono alla luce un centinaio di oli, pastelli e tempere, in gran parte inediti. Una vera e propria scoperta, che permetterà un’immersione nel lungo arco temporale che va dagli anni Trenta all’inizio degli anni Novanta, quando Manaresi concluderà la sua esperienza di vita.

Se la mostra si presenta in modo articolato e complesso, un filo rosso unifica le diverse sezioni: che si tratti di paesaggi, di scene religiose o, ancora, di nature morte realizzate in periodi diversi, il denominatore comune è sempre una profonda inquietudine. Nei primi ritratti o nelle scene d’interni degli anni Trenta i tratti sono ancora distesi, ma con l’arrivo della Seconda guerra mondiale la mano inizia a farsi nervosa. I lavori degli anni Cinquanta e Sessanta – siano essi paesaggi o periferie cittadine, che risentono delle lezioni metafisiche di Carrà e di Sironi – sono orientati da una ricerca estetica che privilegia il contrasto chiaroscurale: è la proiezione, in pittura, delle strade tortuose percorse interiormente dall’artista.

Nel succedersi delle diverse sale della mostra emergono infatti sul senso della vita, espressi con grande intensità soprattutto nelle scene di carattere religioso.
Facendo uso di colori accesi e di segni forti che ricordano l’arte nord-europea, in particolare Munch e Nolde, Manaresi mostra come la sua ricerca esistenziale sia inseparabile da una riflessione sulla fede. In particolare si concentra sulle scene di Crocifissioni, che dipinge in infinite varianti. Al centro, sempre la rappresentazione del Christo patiens: la sofferenza del Figlio di Dio sembra rivelare il dolore stesso dell’artista. Oltre a Cristo, il personaggio maggiormente ricorrente è la Maddalena, rappresentata come una macchia cromatica di colore rosso vivo che, ai piedi della croce, grida dolore e amore.

Sono questi gli stessi anni in cui la Chiesa vive il concilio Vaticano II, anni di grande apertura, ma anche di dolorosi scontri tra diverse visioni del mondo. Manaresi partecipa a questo dibattito attraverso la sua pittura: nel Cristo morto e nella Maddalena riversa il suo grido muto di uomo ferito dalla vita, nonostante tutto, ancora tenacemente capace di cercare risposte e riconciliazioni.

Questa irrequietezza si presenta in tutta la sua potenza espressiva nelle ultime composizioni, realizzate tra fine Ottanta e inizio Novanta: dopo una progressiva compressione dei volumi, una sintesi delle forme e un’intensificazione dei contrasti cromatici, alla fine della vita Manaresi elabora composizioni in cui le visioni dell’anima si mescolano e si fondono con la realtà naturale.
Da un lato recupera elementi appartenenti alle precedenti ricerche formali, dall’altro risolve l’urgenza espressiva ricorrendo all’astrazione, via inedita per lui. Queste <<opere nuove>> - come lui stesso le definisce – appaiono quasi implodere su loro stesse. Il tratto nervoso e acuto sembra perdersi nell’interazione.

Qual è il senso di queste forme “informi”, nate da un urlo senza suoni e da un gesto colmo di energia, ma irretito e immobilizzato da un segno agitato? Tutto sembra perdersi in un buio esistenziale, in una sofferta sconfitta, come nella Composizione rosso-nera che chiude la mostra. Questi inediti lavori segnano il drammatico esito di un artista che ha ancora tanto da rivelare e che la mostra indaga da un punto di vista nuovo. Una riflessione sul senso delle cose e della vita.



Maria Paola Forlani   

sabato 25 marzo 2017

PIETRO DONZELLI

Pietro Donzelli

Terra senz’ombra
Il Delta del Po
Negli anni Cinquanta


Parlando di “neorealismo” appare a tutt’oggi, ancora incerta la ricerca storica su quel periodo in ambito fotografico, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza effettiva delle fonti e delle testimonianze. Alcuni studi e ricerche italiani hanno messo in evidenza con adeguata attenzione critica, come di fatto l’aver applicato la categoria “neorealismo” alla fotografia, desunta dal cinema e dalla letteratura, faccia parte di una “narrazione” sul periodo, costruita a posteriori, che ha poi dato spesso adito a luoghi comuni e soprattutto all’incapacità di comprenderne la ricchezza e molteplicità delle esperienze. Italo Calvino nella sua Presentazione a Il sentiero dei nidi di ragno (Torino, Enaudi, 1964) notava il carattere composito del “movimento” neorealista, che sosteneva non potersi configurare come una scuola bensì come un “insieme di voci”, un’esperienza stratificata.

Il fotografo bolognese Alfredo Camisa (1927-2007), in una bella intervista, ironicamente dichiarava “Alla fine degli anni Cinquanta alcuni di noi [] chiudevano la loro esperienza fotografica [] con un’etichetta: eravamo stati, senza saperlo, i fotografi “realisti”, anzi “neorealisti”.
Meglio allora parlare di orientamenti o di un “gusto”, ma certo non di un movimento organizzato o definito da qualche adesione a un manifesto, a delle dichiarazioni programmatiche di una poetica ben precisa.
Si arriva poi a un’altra “questione” fondamentale per la fotografia, collegata alla “questione” del realismo: cosa sia in effetti il “documento” in fotografia. Nella “declinazione” neorealista, come è stata sviscerata dai più che se ne sono occupati e se è possibile trovare un minimo comune denominatore in esperienze molto diverse le une dalle altre, la fotografia si pone il compito, attraverso l’attenzione al “reale”, di “documentare” le condizioni delle persone che vivono in povertà, per descriverle e per suscitare la necessità del cambiamento. Quindi un tema della realtà delle cosiddette classi disagiate, e un impegno, una convinzione: descrivere per persuadere, alla trasformazione sociale e politica. A questo fine la fotografia deve essere “documento”, nell’adesione al reale e al “vero”. Questione che è stata affrontata, naturalmente, sin dalle origini della fotografia e che in Italia fu affrontata spesso all’interno di una dicotomia, quella tra “documento” e “opera d’arte”, che segnano il dibattito sulla fotografia sin dall’ottocento e su cui molti sono intervenuti, al fine di non considerare la fotografia con gli stessi criteri e categorie di pensiero applicate all’ “opera d’arte”.
L’esperienza neorealista tra letteratura e cinema vive soprattutto in Italia tra la metà degli anni quaranta e metà degli anni cinquanta. Il “neorealismo” in fotografia vive e procede anche oltre, tuttavia, fin verso gli inizi degli anni sessanta. Riconducibile, quindi, a un “orientamento” verso la vita quotidiana della gente comune, dovuto, senz’altro al clima culturale del dopoguerra, trova i suoi antecedenti sicuramente nella cultura fotografica italiana tra la fine degli anni trenta e gli inizi degli anni quaranta. Non sempre, oltretutto, il carattere cosiddetto “progressivo” dell’esperienza “neorealista” è veramente tale, e il rinnovamento intellettuale ed espressivo passa spesso per altre vie: le ricerche astratte e informali, le tensioni sperimentali che s’incrociano con la grafica, la pubblicità, il cinema, l’architettura e non, necessariamente, ad esempio, col realismo pittorico pur vivo nello stesso periodo.
Alberto Lattuada pubblica nel 1941 Occhio quadrato. 26 tavole fotografiche, grazie alle edizioni “Corrente”, a un anno dalla chiusura della rivista omonima, cui aveva collaborato insieme a Comencini.
Dice Lattuada nella prefazione al suo libro: “Nel fotografare ho cercato di tenere sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è continua; e anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni”. Ѐ sicuramente anche in questi riferimenti che va cercata l’origine di una fotografia incline al “realismo” come attenzione alla condizione umana, in definitiva, come “umanesimo”.

Pietro Donzelli. Terra senz’ombra. Il Delta del Po negli anni Cinquanta  è il titolo della mostra che, per iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo è presentata  nella sede di Palazzo Roverella di Rovigo fino al 2 luglio, a cura di Roberta Valtorta (catalogo SilvanaEditoriale).


Pietro Donzelli (Monte Carlo, 1915 – Milano, 1998) ha testimoniato l’Italia del dopoguerra agli inizi anni sessanta, il passaggio dalla società rurale e preindustriale alla società dei consumi. Fotografo, ricercatore, collaboratore di riviste specializzate e curatore di mostre, Donzelli è stato una figura determinante per la diffusione della cultura fotografica nel nostro Paese. Ѐ grazie alla sua instancabile attività che sono state presentate in Italia, per la prima volta, opere di Dorothea Lange, di Alfred Stieglitz, dei fotografi della Farm Security Administration. A partire dal 1948 è stato tra i fondatori e gli animatori della rivista “Fotografia”  e dal 1957 al 1963 è stato redattore e poi condirettore dell’edizione italiana di “Popular Photography” e nel 1961 e 1963 ha curato, con Piero Racanicchi due volumi di “Critica e Storia della Fotografia” che raccoglievano testi e materiali sui più importanti fotografi della storia.  Nel 1950 è stato tra i fondatori dell’Unione Fotografica che aveva tra i suoi obiettivi quello di spostare l’attenzione sul realismo in fotografia, promuovere manifestazioni di livello internazionale e sostenere la fotografia italiana all’estero.

Le sue serie fotografiche affrontano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Ha lavorato su Milano, Napoli, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, il paesaggio toscano (serie Creti senesi) ma soprattutto, dal 1953 al 1960 sul Delta del Po e le terre del Polesine, alle quali ha dedicato una grande e importante ricerca dal titolo Terra senz’ombra.
Questa mostra presenta per la prima volta più di cento fotografie di questa serie, molte delle quali assolutamente inedite.
In mostra anche importanti materiali di documentazione del progetto, scritti di Donzelli, composizioni di fotografie di Donzelli con rime di Gino Piva, geniale poeta polesano.

Il Delta del Po è un luogo-mito della cultura italiana ed è stato rappresentato in molte opere cinematografiche (Antonioni, Visconti, De Santis, Rossellini, Soldati, Vancini, Renzi, Comencini) e letterarie (Bacchelli, Guareschi, Govoni, Zavattini, Cibotto, Piva, e più di recente Celati o Rumiz).
L’opera fotografica che Donzelli, grande narratore, ha dedicato al paesaggio di pianura, al fiume, nei momenti di calma e delle rotte che tanto hanno devastato territori e uomini, al mare, al lavoro dei pescatori e del contadino, ai momenti di svago, è un vero e proprio affresco umano e ambientale. La serie Terra senz’ombra
è considerata una dei pilastri della storia della fotografia italiana, e uno dei più precoci e coerenti esempi di fotografia documentaria, in cui Donzelli dimostra la sua capacità di raccontare la vera realtà umana e ambientale, tra la topografia e la sociologia.

Fradei despersi, se trovè ‘l sentiero
fradei fortuna! Ma l’è torbio el giorno
e la tera tuto un cimitero.
Bruto giorno, fradei, per el ritorno.
Gino Piva (1953)

Maria Paola Forlani










giovedì 23 marzo 2017

RESTAURO XXIV EDIZIONE

Restauro XXIV edizione

Salone dell’Arte del Restauro e della Conservazione dei Beni Culturali e Ambientali


Ѐ tornato nella storica sede di Ferrara, lo scenario di Restauro-Musei – Salone dell’Economia, della Conservazione, della Tecnologia e della Valorizzazione dei Beni Culturali e Ambientali – XXIV edizione che quest’anno è stato accreditato come fiera internazionale dal 22 al 24 marzo 2017.
Anche questa edizione conferma la veste cucita insieme al MIBACT – Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, partener storico della manifestazione, il quale ha individuato nel Salone la giusta cornice per rappresentare il Sistema Museale italiano in tutta la sua interezza e complessità, e ha collaborato all’introduzione del nuovo evento dedicato alle realtà museali a partire dalla scorsa edizione e i faticosi percorsi di restauro, dopo gli ultimi eventi sismici.

L’Italia è un paese notoriamente soggetto a continui eventi sismici. Tanto per non andare oltre gli ultimi cinquant’anni i terremoti del Belice, del Friuli, dell’Irpinia, di Napoli e della Basilicata, dell’Umbria, dell’Aquila, dell’Emilia e l’attuale sisma che ha coinvolto parte del Lazio, del Molise e dell’Abruzzo hanno causato non solo molte vittime ma anche notevoli distruzioni del patrimonio edilizio, comprese importanti testimonianze storiche ed artistiche.
Alla sismicità di gran parte della penisola si somma una condizione geologica instabile e una carente manutenzione del territorio a causa delle quali succedono ogni anno frane, inondazioni, incendi. Aggravato anche da una edificazione non solo sempre più estesa ma anche, in molti casi, impropria, questo quadro mette in evidenza una situazione critica che negli ultimi anni è notevolmente peggiorata.
Sarebbe necessaria una ricostruzione del suolo italiano come impegno del paese, con una flessibilità di qualche decennio, al fine di assicurare alle prossime generazioni un abitare sicuro, armonizzato con la scena ambientale, quantitativamente equilibrato. Un abitare che non abbia bisogno di molte nuove costruzioni ma di un recupero del costruito esistente reso capace, tramite opportuni interventi, di affrontare eventuali nuovi episodi sismici o altre calamità.
In sintesi la ricostruzione dopo il terremoto come quello ancora in corso ad Amatrice con scosse quotidiane che producono preoccupazioni e disagi crescenti nella popolazione, aumentando il suo disagio, dovrebbe essere effettuata secondo alcuni principi.
Il primo principio è quello della partecipazione. Nessuna decisione, a qualunque livello, dovrebbe essere presa al di fuori di un lavoro comune svolto dalle popolazioni interessate, dai loro rappresentati, dalle autorità statali e dai tecnici. Solo una pratica partecipativa può infatti impedire che le scelte interrompano consuetudini insediative consolidate creando non solo disorientamento e disordine, ma rompendo soprattutto quel vincolo fisico e ideale delle popolazioni con il loro territorio, la loro città e la loro comunità.
Il secondo principio è quello di ricostruire dov’era e, se possibile, com’era. Ciò significa che l’impianto urbano dei centri distrutti o danneggiati dovrebbe essere confermato, anche modificando la legislazione esistente, per restituire alle comunità colpite dal sisma il tracciato delle loro città e, quindi, della loro vita.
A Ferrara i segni del terremoto sono ancora visibili tra chiese, ancora, chiuse edifici importanti da restaurare e percorsi di viabilità.
Il castello in attesa di un serio maquillage con superfici che si sfaldano a vista d’occhio attende il grande e determinato intervento. Palazzo Massari ha iniziato la lunga impresa di ricostruzione, su palazzo dei Diamanti, molte sono le perplessità degli esperti. Il degrado terrificante dei chiostri dell’antico monastero di San Benedetto in cui l’affresco del 1573, nell’antirefettorio dell’ex monastero dei benedettini, attribuito a Ludovico Settevecchie o al Dielai, seguace di Dosso Dossi, pone Ludovico Ariosto fra san Sebastiano e santa Caterina nella gloria del paradiso.
L’affresco, tutt’ora, non se la passa molto bene, fu incerottato dalla Ferrara Decus nel 2004, già in forte degrado; in dodici anni nulla è cambiato se non in peggio, tanto che in luglio un’ispezione ha accertato nuove fessurazioni e distacchi di pezzi, che solo la velinatura trattiene. La sala in cui si trova è inaccessibile ma agire sarebbe urgente.
La Fiera del Restauro propone il percorso di alcune Delizie ed edifici di pregevole eleganza e storia del territorio ferrarese.

Come non sottolineare lo sfregio fatto alla bella ‘Casa Cini’ abitazione natale di Vittorio Cini, che il nobile mecenate volle donare “alla cultura e alla gioventù ferrarese” (come dice la lapide da lui posta) e che ora risulta smembrata architettonicamente a causa di molteplici e non ‘chiare affittanze’, perdendo così la sua freschezza di edificio unitario, di grande accoglienza e solidarietà.
Resta la bella casa di Ludovico Ariosto, che ospitò il celebre poeta nell’ultima parte della sua vita, situata oggi nell’addizione Erculea a Ferrara, in via Ariosto 67.
Si tratta di un semplice edificio in mattoni a vista, realizzato probabilmente  su disegno di Girolamo da Carpi. Qui l’Ariosto trascorse gli ultimi anni, dedicandosi alla terza e definitiva redazione dell’Orlando Furioso, del 1532.
All’interno nel piano nobile è sistemato un piccolo museo dedicato al grande poeta: vi si trovano un calco del suo calamaio, la sua sedia e varie medaglie che lo raffigurano. Oltre al museo nell’edificio si svolgono eventi, presentazioni di libri, mostre d’arte contemporanea e incontri con i giovani che occupano con le loro opere quelle sale e il giardino creato all’epoca dal poeta. Fra poco questo incanto sarà snaturato con ingombranti mobili provenienti dalla casa di Giorgio Bassani e dell’incanto dell’Ariosto e della magia di quella abitazione non resterà più nulla…

I cittadini disorientati ed increduli si pongono domande, vorrebbero essere consultati e non sempre vittime di capricciose speculazioni di potere…Eppure il Museo del MEIS possiede sale completamente vuote e, credo accoglierebbe gli arredi dello scrittore del ‘Giardino dei Finzi e Contini’, tutti sappiamo che già esiste una biblioteca Bassani e molto ancora a Casa Minerbi…con ancora molti spazi disponibili…

Alla Fiera del Restauro, sono presenti gli operatori e le ditte che hanno e stanno contribuendo a risanare le ferite del terremoto.
Un terremoto non distrugge solo le cose fisiche, le persone, le case, i mobili, gli abiti, le fotografie, i luoghi di lavoro, i mezzi di trasporto e qualsiasi altro manufatto utile alla vita, ma anche la memoria delle comunità colpite. Quando quest’universo scompare, in tutto o in parte, le memorie personali e quelle collettive rischiano di scomparire definitivamente. Da qui il problema di ricostruire, assieme ai centri colpiti, il senso di un’identità comune, il valore singolare e irripetibile di ciascuna vita, il disegno superiore di una comunità che, generazione dopo generazione, viene inciso nel mondo fisico e in quello ideale.

Così le violenze “umane” sul territorio che nessuno può arginare chiedono giustizia, o sugli edifici, proprio come casa Cini e Casa dell’Ariosto a Ferrara che nella loro ‘silenziosa’ bellezza aspirano solo continuare a dialogare con la propria comunità e  la propria storia


Maria Paola Forlani

















































































martedì 21 marzo 2017

MUSEO SAN PIETRO

Museo

San Pietro

Dopo quasi vent’anni di chiusura si è riaperto il nuovo Museo San Pietro a Colle Val d’Elsa.

Il museo è il frutto della fusione del Museo Civico e Diocesano d’Arte sacra (formatosi dall’unione dei due istituti nel 1995), con la Collezione del Conservatorio di San Pietro, il monastero di San Pietro e il monastero di Santa Caterina e Maddalena, la Collezione Romano Bilenchi e la Collezione di Walter Fusi.

Il percorso espositivo, realizzato su progetto dell’Arcidiocesi di Siena, del Comune di Colle Val d’Elsa e della Fondazione Musei Senesi, in collaborazione con la Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per la provincia di Siena, Grosseto e Arezzo, ripercorre la storia della città attraverso le espressioni d’arte, in un dialogo costante tra religiosità e ambizione civica propria dei comuni medievali, culminata nel 1592 con l’evoluzione della Terra di Colle a Città, a seguito dell’istituzione della Diocesi.
L’allestimento, scandito sui grandi avvenimenti storici, cerca di cogliere e proporre i momenti in cui il linguaggio artistico diventa espressione della cultura del popolo colligiano e della sua fede.


Posta al confine tra i territori di Siena e Firenze, Colle fu luogo di scontro politico, culminato in battaglie e assedi, ma anche luogo di incontro tra la tradizione artistica senese e quella fiorentina, humus culturale da cui nacque la grande stagione dell’età moderna, culminata nella ristrutturazione urbana e nei cantieri promossi dagli Usimbardi, come Duomo, il Palazzo Vescovile o le fabbriche di San Pietro e dell’Ospedale di San Lorenzo, per giungere alle esperienze Otto e Novecentesche, magistralmente identificabili nelle opere di Antonio Salvetti o nel tormento artistico di Walter Fusi.


Particolare importanza acquista la sezione dedicata alla Collezione di Romano Bilenchi, che propone una selezione scelta della ricca biblioteca dello scrittore colligiano donata al Comune di Colle di Val d’Elsa, nel contesto in cui si trovava: le opere di Ottone Rosai, Moses Levy e Mino Maccari raccontano la formazione di Romano Bilenchi, arricchendo il quadro fornito dalle sue opere letterarie, specificandone la personalità.




Tutta questa vicenda è raccontata nelle sale del museo e nella città, in un percorso integrato che partendo dal San Pietro, porta ideale della città, si svolge per le vie ed i vicoli del Borgo di Santa Caterina e del Castello, per terminare al Museo Archeologico “Ranuccio Bianchi Bandinelli”, che a breve, riaprirà le porte con nuovo allestimento.





Maria Paola Forlani

DEPERO IL MAGO

Depero

Il mago

Fortunato Depero (Fondo 1892-Rovereto 1960) che nella sua vita ha continuamente forgiato idee, trasformandole e riproponendole attraverso una piena libertà creativa, è sopravvissuto all’oblio guadagnandosi il diritto di durare nella memoria collettiva ben oltre la sua vita terrena. Di questo artista la Fondazione Magnani-Rocca ospita una mostra fino al 2 luglio 2017 dal titolo Depero il mago. Oltre cento opere tra dipinti, le celebri tarsie in panno, i collage, abiti, mobili, disegni, progetti pubblicitari, per celebrare il geniale artefice di un’estetica innovativa che mette in comunicazione le discipline dell’arte, dalla pittura alla scultura, dall’architettura al desing, al teatro.
La mostra è frutto della collaborazione istituzionale fra il Mart, Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto, e la Fondazione Magnani-Rocca, ed è curata da Nicoletta Boschiero e Stefano Roffi (catalogo SilvanaEditoriale).

Album
La Rovereto asburgica d’inizio secolo scorso è un vivace centro intellettuale solcato da fervori irredentisti ed è la città di formazione di Fortunato Depero, trasferitosi qui da Fondo in Val di Non nel 1902. L’artista dal 1904 al 1909 frequenta la scuola Reale Elisabettiana, un istituto a indirizzo tecnico e di arte applicata; nel 1910 in seguito alla mancata ammissione all’Accademia di Belle Arti di Vienna, è apprendista presso la ditta di marmi Gelsomino Scanagatta, specializzata in scultura funeraria.

Oltre a mostrare i suoi lavori in qualche piccola esposizione presso la cartolibreria Giovannini di Rovereto il giovane Depero viene coinvolto da Mario Rizzoli – appassionato irredentista, compagno di Cesare Battisti, nell’elaborazione di un album fotografico dedicato alla sua valle, e offerto “al Touring-Club-italiano strenuo propugnatore del rimboschimento d’Italia”, costituito da 50 fotografie ornate con disegni e fregi, cariatidi o telamoni utilizzati come elementi architettonici. Il lavoro dell’album, realizzato nel 1912, ha avuto nella vita di Depero degli sviluppi importanti: non è stato vuoto esercizio decorativo ma allenamento foriero di inattesi esiti futuri.
Quello con Rizzoli è il primo di una lunga serie di sodalizi che costellano l’arco della vita dell’artista a partire da Giacomo Balla; Gilbert Clavet, Gino Gori, Fedele Azari, Mario Alberto Ponis, Davide Campari, fino a Remo Albertini e Giuseppe Veronesi.
Il soggiorno a Roma con l’amata Rosetta Amadori, dove ripara allo scoppio del primo conflitto mondiale, offre la svolta alla sua arte: l’incontro con Giacomo Balla rende possibile un’intesa che lo porta all’accoglimento in seno al movimento futurista e alla stesura del manifesto Ricostruzione futurista dell’universo nel 1915, il programma di una radicale trasformazione del mondo che coinvolge tutte le espressioni figurative. La produzione di un grande numero di testi, arredi, e giocattoli dà impulso anche a una nuova promozione dell’artista attraverso l’editoria e la fotografia.

Teatro
Nel novembre del 1916 Sergej Pavlovič Djagilev, impresario dei Balletti russi, aveva affidato a Depero la realizzazione di scene e costumi per Le Chant du rossignol tratto da una fiaba di Hans Christian Andersen L’usignolo dell’ imperatore e musicato da Igor Fëdorovinskij Stravinskij. Proprio in quel periodo nel suo atelier di Viale Giulio Cesare 52 a Roma, l’artista incontra Gilbert Clavet – svizzero colto e facoltoso, il quale invita l’artista con Rosetta ad Anacapri, incaricandolo di illustrare la sua novella, Un istituto per suicidi. In mostra, si può ammirare, il collage non firmato,  riferibile a Ballerini nella sezione lavori in carte colorate è riconducibile all’invenzione visiva dei costumi per le Chant du rossignol costruito con una felicità compositiva e di colore degna di nota.

La nascita delle marionette si concretizza a Capri nel 1917: “ebbi un lampo d’intuizione: Applicare le ultime soluzioni plastiche al teatro delle marionette. Liberandomi dell’elemento uomo, conseguii la massima autonomia e la massima libertà nelle mie amatissime costruzioni viventi, e così nacquero i miei Balli plastici, primo organico tentativo realizzato in collaborazione con Clavel della rivoluzione e plastica del mondo.”


Casa
Nell’immediato dopoguerra quando torna a Rovereto Depero vuole lasciarsi alle spalle gli anni del primo conflitto mondiale e decide d’improvvisare il primo laboratorio creativo, in diverse successioni fino a Casa Kappel, denominato la casa del mago… Parteciperà alla Mostra internazionale delle arti Decorative di Monza nel 1923; ma l’evento culminante è la sua presenza nel 1925 all’Exposizione internazionale al Grand Palais di Parigi, dove espone con Giacomo Balla e Enrico Prampolini.

Depero espande il ruolo degli interni attribuendo loro molteplici funzioni, dalla casa al padiglione, dal negozio, alla fiera, fino a luoghi di divertimento e intrattenimento.
A causa dell’esperienza produttiva ed espositiva emerge nell’artista la necessità di pubblicizzare efficacemente le proprie attività, reclamizzando se stesso come primo prodotto, attraverso autoscatti, carta da lettere intestata, cartelli da apporre all’ingresso di sale espositive, come quelli eseguiti per la “Casa d’Arte Futurista” sia a Rovereto che a New York. Negli anni venti sviluppa una autonomia inventiva unica ed esauriente, che sfoggia specialmente in campo pubblicitario. Campo che gli consente di ampliare l’ambito della visione e rappresentare un nuovo sistema di interpretare il mondo, significativi, in questo senso, i disegni realizzati per la ditta Campari.




New York Depero’s Futurist House
Sebbene Depero abbia guardato all’America come alla patria d’adozione, alla mecca della modernità, affrontando quell’avventura con determinazione, gli anni americani sono di fatto molto duri. Quell’esperienza, diventa un progetto trasversale nel quale l’artista riveste diversi ruoli: progettista, arredatore, scenografo, pubblicitario senza decidersi a rinunciare a nessuno di essi.


Epilogo
Già nel 1952 Depero scrive al sindaco di Rovereto Veronesi, per proporgli la sistemazione della propria pinacoteca in un edificio che abbia un settore storico – il museo – e una parte più viva e dinamica – la galleria -, con una bottega annessa.
Finalmente, nel febbraio del 1956 gli viene affidato il palazzo ex Monte dei pegni, sito di fronte alla scalinata del castello.



Il 1 agosto 1959 il museo apre alla presenza delle autorità cittadine e dell’artista.
Depero muore il 29 novembre 1960.


Nel 1987 la Galleria-Museo Depero diviene parte integrante del Museo d’Arte Moderna e contemporanea di Trento e Rovereto.
Il museo, oggi Casa d’arte futurista Depero, e la sua attività coniugano il senso auto-reclamistico e celebrativo, a cui Depero non ha voluto rinunciare nell’ultima fase della sua vita, con il segno rivoluzionario della “ricostruzione futurista dell’universo”.



Maria Paola Forlani