Pietro Donzelli
Terra senz’ombra
Il Delta del
Po
Negli anni
Cinquanta
Parlando di
“neorealismo” appare a tutt’oggi, ancora incerta la ricerca storica su quel
periodo in ambito fotografico, soprattutto per quanto riguarda la conoscenza
effettiva delle fonti e delle testimonianze. Alcuni studi e ricerche italiani
hanno messo in evidenza con adeguata attenzione critica, come di fatto l’aver
applicato la categoria “neorealismo” alla fotografia, desunta dal cinema e
dalla letteratura, faccia parte di una “narrazione” sul periodo, costruita a
posteriori, che ha poi dato spesso adito a luoghi comuni e soprattutto
all’incapacità di comprenderne la ricchezza e molteplicità delle esperienze.
Italo Calvino nella sua Presentazione a
Il sentiero dei nidi di ragno (Torino,
Enaudi, 1964) notava il carattere composito del “movimento” neorealista, che
sosteneva non potersi configurare come una scuola bensì come un “insieme di
voci”, un’esperienza stratificata.
Il fotografo
bolognese Alfredo Camisa (1927-2007), in una bella intervista, ironicamente
dichiarava “Alla fine degli anni Cinquanta alcuni di noi […] chiudevano la loro esperienza
fotografica […] con un’etichetta: eravamo stati,
senza saperlo, i fotografi “realisti”, anzi “neorealisti”.
Meglio
allora parlare di orientamenti o di un “gusto”, ma certo non di un movimento
organizzato o definito da qualche adesione a un manifesto, a delle
dichiarazioni programmatiche di una poetica ben precisa.
Si arriva
poi a un’altra “questione” fondamentale per la fotografia, collegata alla
“questione” del realismo: cosa sia in effetti il “documento” in fotografia.
Nella “declinazione” neorealista, come è stata sviscerata dai più che se ne
sono occupati e se è possibile trovare un minimo comune denominatore in
esperienze molto diverse le une dalle altre, la fotografia si pone il compito,
attraverso l’attenzione al “reale”, di “documentare” le condizioni delle
persone che vivono in povertà, per descriverle e per suscitare la necessità del
cambiamento. Quindi un tema della realtà delle cosiddette classi disagiate, e
un impegno, una convinzione: descrivere per persuadere, alla trasformazione
sociale e politica. A questo fine la fotografia deve essere “documento”,
nell’adesione al reale e al “vero”. Questione che è stata affrontata, naturalmente,
sin dalle origini della fotografia e che in Italia fu affrontata spesso
all’interno di una dicotomia, quella tra “documento” e “opera d’arte”, che
segnano il dibattito sulla fotografia sin dall’ottocento e su cui molti sono
intervenuti, al fine di non considerare la fotografia con gli stessi criteri e
categorie di pensiero applicate all’ “opera d’arte”.
L’esperienza
neorealista tra letteratura e cinema vive soprattutto in Italia tra la metà
degli anni quaranta e metà degli anni cinquanta. Il “neorealismo” in fotografia
vive e procede anche oltre, tuttavia, fin verso gli inizi degli anni sessanta.
Riconducibile, quindi, a un “orientamento” verso la vita quotidiana della gente
comune, dovuto, senz’altro al clima culturale del dopoguerra, trova i suoi
antecedenti sicuramente nella cultura fotografica italiana tra la fine degli
anni trenta e gli inizi degli anni quaranta. Non sempre, oltretutto, il
carattere cosiddetto “progressivo” dell’esperienza “neorealista” è veramente
tale, e il rinnovamento intellettuale ed espressivo passa spesso per altre vie:
le ricerche astratte e informali, le tensioni sperimentali che s’incrociano con
la grafica, la pubblicità, il cinema, l’architettura e non, necessariamente, ad
esempio, col realismo pittorico pur vivo nello stesso periodo.
Alberto
Lattuada pubblica nel 1941 Occhio
quadrato. 26 tavole fotografiche, grazie alle edizioni “Corrente”, a un
anno dalla chiusura della rivista omonima, cui aveva collaborato insieme a
Comencini.
Dice
Lattuada nella prefazione al suo libro: “Nel fotografare ho cercato di tenere
sempre vivo il rapporto dell’uomo con le cose. La presenza dell’uomo è
continua; e anche là dove sono rappresentati oggetti materiali, il punto di
vista non è quello della pura forma, del gioco della luce e dell’ombra, ma
quello dell’assidua memoria della nostra vita e dei segni che la fatica di
vivere lascia sugli oggetti che ci sono compagni”. Ѐ sicuramente anche in questi
riferimenti che va cercata l’origine di una fotografia incline al “realismo”
come attenzione alla condizione umana, in definitiva, come “umanesimo”.
Pietro Donzelli. Terra senz’ombra. Il
Delta del Po negli anni Cinquanta è il titolo della mostra che, per
iniziativa della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo è presentata nella sede di Palazzo Roverella di Rovigo fino
al 2 luglio, a cura di Roberta Valtorta (catalogo SilvanaEditoriale).
Pietro
Donzelli (Monte Carlo, 1915 – Milano, 1998) ha testimoniato l’Italia del
dopoguerra agli inizi anni sessanta, il passaggio dalla società rurale e
preindustriale alla società dei consumi. Fotografo, ricercatore, collaboratore
di riviste specializzate e curatore di mostre, Donzelli è stato una figura
determinante per la diffusione della cultura fotografica nel nostro Paese. Ѐ grazie alla sua instancabile
attività che sono state presentate in Italia, per la prima volta, opere di
Dorothea Lange, di Alfred Stieglitz, dei fotografi della Farm Security
Administration. A partire dal 1948 è stato tra i fondatori e gli animatori
della rivista “Fotografia” e dal 1957 al
1963 è stato redattore e poi condirettore dell’edizione italiana di “Popular
Photography” e nel 1961 e 1963 ha curato, con Piero Racanicchi due volumi di “Critica
e Storia della Fotografia” che raccoglievano testi e materiali sui più
importanti fotografi della storia. Nel
1950 è stato tra i fondatori dell’Unione Fotografica che aveva tra i suoi
obiettivi quello di spostare l’attenzione sul realismo in fotografia,
promuovere manifestazioni di livello internazionale e sostenere la fotografia
italiana all’estero.
Le sue serie
fotografiche affrontano il rapporto tra l’uomo e l’ambiente in cui vive. Ha
lavorato su Milano, Napoli, la Calabria, la Sicilia, la Sardegna, il paesaggio
toscano (serie Creti senesi) ma
soprattutto, dal 1953 al 1960 sul Delta del Po e le terre del Polesine, alle
quali ha dedicato una grande e importante ricerca dal titolo Terra senz’ombra.
Questa
mostra presenta per la prima volta più di cento fotografie di questa serie,
molte delle quali assolutamente inedite.
In mostra
anche importanti materiali di documentazione del progetto, scritti di Donzelli,
composizioni di fotografie di Donzelli con rime di Gino Piva, geniale poeta
polesano.
Il Delta del
Po è un luogo-mito della cultura italiana ed è stato rappresentato in molte
opere cinematografiche (Antonioni, Visconti, De Santis, Rossellini, Soldati,
Vancini, Renzi, Comencini) e letterarie (Bacchelli, Guareschi, Govoni,
Zavattini, Cibotto, Piva, e più di recente Celati o Rumiz).
L’opera
fotografica che Donzelli, grande narratore, ha dedicato al paesaggio di
pianura, al fiume, nei momenti di calma e delle rotte che tanto hanno devastato
territori e uomini, al mare, al lavoro dei pescatori e del contadino, ai
momenti di svago, è un vero e proprio affresco umano e ambientale. La serie Terra senz’ombra
è
considerata una dei pilastri della storia della fotografia italiana, e uno dei
più precoci e coerenti esempi di fotografia documentaria, in cui Donzelli
dimostra la sua capacità di raccontare la vera realtà umana e ambientale, tra
la topografia e la sociologia.
Fradei despersi, se trovè ‘l sentiero
fradei fortuna! Ma l’è torbio el
giorno
e la tera tuto un cimitero.
Bruto giorno, fradei, per el ritorno.
Gino Piva
(1953)
Maria Paola
Forlani
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