Manet
E la Parigi moderna
Manet
impressionista? Una cosa è certa: che in un’epoca in cui l’apparenza prevale
sulla realtà, egli si è mostrato come il precursore di una nuova ottica
figurativa. Uno dei primi ad avere il coraggio di liberare la pittura da schemi
fissi basati soltanto sulla convinzione di raffigurare la natura tale e quale
la si veda, senza tener conto per nulla delle emozioni che essa può invece
trasmettere in maniera diversa a ognuno. Senz’altro trasgressivo, per ciò, sia
nella composizione che, soprattutto, nella stesura del colore, ha segnato con
la sua opera un punto di partenza verso nuove soluzioni teoriche e tecniche.
Ma per
quanto abbia percorso a tratti la via insieme a Monet, Renoir, Pissarro e altri
artisti “maledetti”, per quanto abbia in certo qual modo fatto scuola e dato
l’esempio di un’arte di rottura, la sua strada resta tenacemente autonoma.
Basta guardare quel suo attaccamento così radicato alla tradizione, la rigida e
a volte statica eleganza delle figure che, anche quando non risultano definite,
vengono delineate con prudenza e mai risolte bruscamente, con pochi colpi di
pennello.
Nello stesso
modo i suoi bianchi tenui non hanno nessuna intenzione di provocare o
inquietare lo spettatore. Vogliono solo illuminare con delicatezza l’immagine,
far capire con chiarezza l’importanza di riuscire a cogliere l’attimo fuggente
della luce, che tutto rischiara, tutto addolcisce.
La mostra Manet e la Parigi moderna aperta fino
al 2 luglio a Milano al piano nobile di Palazzo Reale – intende raccontare il
percorso artistico del grande maestro. Edouard Manet, iniziatore di una nuova
pittura, scopre la “meravigliosa” modernità, in una Parigi in piena
trasformazione, una città che soleva girare quotidianamente a piedi in lungo e
largo, da autentico pedone e osservatore appassionato del suo tempo. Sulla scia
di Baudelaire, si afferma come un “pittore della vita moderna” e sceglie di
affrontare temi nuovi che osserva per la strada, al Teatro dell’Opera, nei bar
e nei “caffè-concerto”. Le opere presenti in mostra arrivano dalla prestigiosa
collezione del Musée d’Orsay di Parigi: un centinaio di opere, tra cui 54
dipinti – di cui 16 capolavori di Manet e 40 altre splendide opere di grandi
maestri coevi, tra cui
Boldini, Cézanne, Degas, Fantin-Latour,
Gauguin, Monet, Berthe Morisot, Renoir, Signac, Tissot. Alle opere su tela si aggiungono 11
tra disegni e acquarelli di Manet, una ventina di disegni degli altri artisti e
sette tra maquettes e sculture.
Promossa e
prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, curata
da Guy Cogeval, storico presidente
del Musée d’Orsay e dell’Orangerie di Parigi con le due curatrici del Museo Caroline Mathieu, curatore onorario e Isolde Pludermacher, capo-curatrice del
dipartimento di pittura, l’esposizione intende celebrare il ruolo centrale di
Manet nella pittura moderna, attraverso i vari generi cui l’artista si dedicò:
il ritratto, la natura morta, il paesaggio, le donne, Parigi, sua città
amatissima, rivoluzionata a metà Ottocento dal nuovo assetto urbanistico
attuato dal barone Haussmann e caratterizzata da un nuovo modo di vivere nelle
strade, nelle stazioni, nelle Esposizioni universali, nella miriadi di nuovi
edifici che ne cambiano il volto e l’anima.
Manet per
tutta la vita coltiverà grandi rapporti d’amicizia e complicità con poeti e
letterati come Charles Baudelaire, con
cui sviluppa un profondo legame, Emile
Zola,
che prenderà
da subito posizione difendendolo strenuamente dai rifiuti del Salon; Stéphan Mallarmé, che frequenta il suo
atelier discutendo animatamente di pittura e poesia e in numerosi articoli lo
elogia come caposcuola e maestro dell’ “atmosfera luminosa ed elegante”; la
pittrice Berthe Morisot, che
diventerà nel 1874 sua cognata sposando il fratello Eugéne e sarà per molti
anni sua intima amica, e altri celebri artisti come Dagas, Monet, Renoir. La mostra parte dunque da intensi ritratti di
Zola, Mallarmé e Morisot, realizzati da Manet tra il 1868 e il 1876, esposti
accanto a quelli di altri pittori come Edgar
Degas con Ritratto degli incisori
Desboutin e Lepic (1876-1877), Giovanni
Boldini con Henri Rochefort (1882
circa), Charles Emile Auguste Duran
detto Carlus-Duran che ritrae sia Manet (1880 circa) che Fantin-Latour e
Oulevay (1861).
Ѐ a Goya attraverso le Majas al balcone (1810), che Manet si ispirerà per un grande
olio intitolata Al balcone, (1868/69)
presente in mostra. Ѐ un’opera molto importante nell’attività dell’artista perché
indica un chiaro momento di passaggio da una concezione a un’altra del
dipingere. Qua difatti, grazie alla realistica rappresentazione della figura
umana creata da Goya e al nuovo modo di concepire la luce degli impressionisti,
Manet incomincia a staccarsi definitivamente dalla mera tradizione classica. Ne
è prova la vivacità della composizione che ci fa illudere di trovarci davvero
davanti a un balcone con le saracinesche aperte, faccia a faccia con le due
donne e l’uomo, che sembra ci stiano guardando. Una sensazione accentuata dal
senso di profondità della scena, nonché dallo splendido e ardito verde smaltato
della ringhiera: uno dei tanti effetti cromatici che continuano a sbalordire.
Già nella natura morta del Vaso con Peonie su piedistallo, il rosso lacca dei fiori in secondo piano lascia stupefatti per l’audacia e la modernità raggiunte.
Ma
l’espressione più tipica della rivoluzione cromatica di Manet è il Piffero di reggimento, del 1866 (logo
della mostra). In poche altre opere di Manet, come questa, il soggetto supera
il significato e il valore contingente per diventare un esempio eccezionale di
“pittura”. Nella figura del soldatino (per cui posa effettivamente un piccolo
suonatore militare condotto nello studio di Manet dall’amico comandante
Lajosne) ritroviamo le influenze della pittura giapponese (nella stilizzazione
e nella stesura di tinte piatte) e quelle di Velàzquez e Goya (nell’assenza di
ogni elemento nell’ambiente).
Il
personaggio ci appare piantato sulla gamba destra, in perfetto equilibrio, la
gamba sinistra tesa, le braccia raccolte a portare alla bocca il piffero; e la
silhoutte, definita da un contorno netto, reso ancor più forte ed evidente
dalle bande nere dei pantaloni, si stacca sullo sfondo, dove non c’è traccia di
separazione tra piano orizzontale e piano verticale. Tre colori fondamentali:
il rosso dei pantaloni ritagliato sull’ocra dello sfondo, e sottolineato dalla
grossa linea nera della banda; il nero del giubbetto e del cappello, che
diventa una macchia rinunciando alla definizione delle forme delle braccia;
l’ocra dello sfondo che con sfumature più scure ai bordi della tela, “crea” lo
spazio in cui vive e suona il protagonista. Il rapporto principale tra i due
toni fondamentali, il rosso e il nero, è sottolineato dall’oro dei bottoni e
delle decorazioni, e del bianco della sciarpa che sorregge l’astuccio dello
strumento.
Ma il nero
più vivace è senza dubbio quello degli occhi del soldatino, sottolineati nella
loro espressività dal tratto incisivo delle sopracciglia
Maria Paola
Forlani.
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