Mascines à Penser
Nella
Venezia agitata da una Biennale Architettura quasi tutta dedicata alle
realizzazioni, attenta anche all’ambiente ma quasi sempre in funzione dello
scambio comunicativo, la Fondazione Prada è in felice controtendenza: nella sua
sede lagunare propone infatti la mostra Machine
à penser, curata da Dieter Roelstraete e dedicata a tre filosofi che si
sono trovati a scrivere in isolamento o in esilio: Theodor W.Adorno (1903 –
1969), Martin Heidegger (1889 – 1976) e Ludwig Witgenstein (1889 -1951).
Tale controcanto
alla socialità forzatamente connessa è un tema attuale, nel tempo dell’always on, ma ha sempre avuto una sua
rilevanza: dipinti come il San Girolamo di
Antonello da Messina (1475) e il Sant’Agostino
di Vittore Carpaccio (1502), così come la descrizione di Nicolò
Macchiavelli del suo ritiro serale (1513) e lo studiolo di Federico di
Montefeltro a Urbino (1476) ci raccontano quanto sia gli uomini di pensiero che
quelli d’azione apprezzassero momenti di riflessione lontana dalle cure del
mondo.
La mostra si
dipana tra citazioni e ricostruzioni, con prestiti internazionali e imprevisti:
è chiara la volontà di dissociarsi da un genere di display cronologico, didattico e monodisciplinare, per dare allo
spettatore suggestioni oltre che informazioni.
In una sequenza
di stanze unificate dalle sculture-lampada di Leonor Antunes, troviamo
anzitutto la riproduzione rimpicciolita all’88% della baita a Todtnauberg, nella
Foresta Nera in Germania, dove Heidegger scrisse la maggior parte del trattato Essere e Tempo (1927); all’interno si
incontrano fotografie sue e di sua moglie, ritratti negli anni Sessanta dalla
reporter Digne Meller-Marcovicz, nonché ceramiche di Jan Bontjes van Beek e
foto di opere d’arte che un tempo adornavano la casa. La casetta è riconoscibile
in un diorama dell’artista Mark Riley (2016), che la colloca in un plastico
dove riconosciamo il suo rapporto con la montagna.
Anche il
rifugio di Wittgenstein sul fiordo a Skjolden in Norvegia, dove venne steso il Tractatus Logico-Filosoficus (1921), è
evocato da una riedizione in scala minore. All’interno è esposta l’unica
scultura realizzata dal filosofo, Head of
girl (1925-1928).
Ad Adorno
invece abbiamo testimonianza dei suoi anni di Oxford e Los Angeles, quelli in
cui, dopo la fuga necessaria dalla Germania nazista, scrisse quel sistema
filosofico asistematico eppure così suggestivo che è Minima Moralia.
L’artista
scozzese Ian Hamilton Finlay ha realizzato nel 1987 l’installazione Adorno’s Hut. Accanto a questa compaiono
alcune foto della casa di Adorno a Los Angeles scattate da Ewan Telford e la
fotografia di Patrick Lakey dell’interno di Villa Aurora a Los Angeles, centro
di incontro del filosofo con molti altri fuggitivi tedeschi quando, negli anni
Quaranta, iniziò a essere chiaro come l’Europa infuocata dalle dittature stesse
regalando agli Stati Uniti le sue migliore intelligenze.
A ribadire
come il pensiero letteralmente fiorisse dal capo dei tre filosofi, troviamo una
serie di vasi che recano le loro effigi progettati, in modo forse troppo
letterale, dalla polacca Goshika Macuga; in un formato espositivo che collega
oggetti, documenti, opere in senso proprio e fotografie; si incontra
l’installazione sonora di Susan Phillipsz e Anselm Kiefer espone una scultura
creata in stretta relazione con l’ultimo film di Alexander Kluge.
Completano
il complesso allestimento anche opere degli italiani Giulio Paolini e Paolo
Chiasera, di Sophie Nys, Iñigo Mangiano-Ovalle, un collettivo
norvegese composto da Sebastian Makonnen Kjølaas, Marianne Bredesen e Siri Hjorth,
Jeremy Millar e Guy Moreton.
La mostra è completata da un catalogo ricco di saggi
in cui il tema della solitudine viene affrontata da vari punti di vista, in
quanto luogo della costruzione del sé, della riflessione sulla morte, del placarsi
delle passioni della competizione sociale, con toni che rievocano pensatori
morali antichi quali Seneca o Marco Aurelio ma anche scrittori come Proust,
adagiato per anni su di un letto in una stanza foderata di legno e
trasformatosi volontariamente in “una mano che scrive”, o filosofi dediti alla
“cura di sé” teorizzata da Michel Foucault.
Ed è questa antica attitudine, in
fondo, che spinge a una costante auto-formazione, che non soltanto informa
questa rassegna, ma che ci spiega la crescente, controintuitiva fortuna di
pratiche quali la meditazione, la relazione corpo-mente coltivata nella natura,
l’autosegregazione e disconnessione temporanee del mondo.
Maria Paola Forlani
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