lunedì 25 giugno 2018

W.Eugene Smith a Bologna


W. Eugene Smith.

Pittsburgh, ritratto di una città industriale


Si è aperta fino al 16 settembre a Bologna nella sede della Fondazione Mast – Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologie la mostra W.Eugene Smith. Pittsburg, ritratto di una città industriale, a cura di Urs Sthael.

All’inizio degli anni Trenta del secolo scorso il sistema della stampa illustrata aveva raggiunto un suo primo momento culminante. Inventata e sviluppata nell’Ottocento quale forma abbreviata e parallelo visivo della novella o del romanzo borghese, negli anni Venti la fotografia iniziava la sua marcia trionfale grazie a numerose novità, come la macchina da stampa veloce, la rotativa, il procedimento a scala di grigi, la stampa a due e più colori.
Pionieri in Germania furono la “Berliner Illustrierte Zeitung” e la “Arbeiter Illustrierte Zeitung”, con una tiratura che superava, in entrambi i casi, le cinquecentomila copie. Negli anni Trenta questa nuova forma di “storytelling”, con molte fotografie e testi di accompagnamento, si diffuse in tutti i paesi, dapprima in Europa, quindi anche negli Stati Uniti. Parallelamente la, la Leica introdusse una rivoluzione nelle procedure e nei modi della fotografia. Nel 1914 Oskar Barnack inventò la prima Leica, nel 1925 la Leica iniziò ad essere prodotta in serie e fu presentata alla fiera di Lipsia nei primi mesi dell’anno; nel 1932 arrivò il vero successo commerciale con la Leica II, che aveva telemetro incorporato e obiettivi sostituibili.
Immediatamente la fotografia divenne leggera, mobile, a portata di mano, dinamica, abbandonò la rigidità dello stativo, il criterio di misura dell’altezza degli occhi; fin da subito fu possibile viaggiare per il mondo e inviare resoconti fotografici da qualunque luogo in modo rapido, versatile e vivido. I pionieri del reportage fotografico di documentazione sociale –Jacob Riis e Lewis Hine, tra gli altri – trovarono valanghe di successori. Erich Salamon, Henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Margaret Bourke-White, Werner Bischof, Robert Capa sono solo alcuni dei fotoreporter di fama mondiale; “Picture Post”, “Paris Match”, “Life”, “Sports Illustrated”, “Daily Mirror” e “Daily Graphic” rappresentano alcuni periodici più celebri dell’epoca.

Ė questo il periodo in cui nacque William Eugene Smith, più precocemente nel 1918 a Wichhita, nel Kansans. Già a sedici anni iniziava a fotografare e pubblicare. Dopo il suicidio del padre, una tragedia per la famiglia, studiò fotografia all’Università di Notre Dame in Indiana, ma dopo un anno abbandonò i corsi, si trasferì a New York e proseguì come “freelance” per Black Star Agency e, tramite quest’agenzia per molte importanti riviste americane quali “Collier’s”, “Parade”, “Time”, “Forune”; “Look” e “Life”. Dal 1944 cominciò a viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per lo stesso magazine. In pochi anni diventò, insieme a Margaret Bourke-White, uno dei grandi eroi del reportage e del saggio fotografico.
Il medico di campagna, Vita senza germi, Il villaggio spagnolo, La levatrice, Charli Chaplin al lavoro, Il regno della chimera e Un uomo compassionevole sono, oggi come allora, tra i servizi più noti che siano mai stati realizzati per riviste illustrate. Sequenze di fotografie che intendevano rappresentare di per sé il nucleo essenziale di una storia, accompagnate da didascalie e infine corredate da un testo: le fotografie di Smith andavano molto oltre i consueti reportage fotografici. Le sue immagini erano buie, a volte perfino cupe, non intendevano descrivere il mondo ma contenerlo, non riprodurlo ma darlo alla luce loro stesse.

Al culmine della sua fama di fotografo per riviste, dopo soli sette anni di impegno a tempo pieno per “Life” – seguiti da un altro paio d’anni di lavoro su commissione – nel 1954 Smith abbandonò tutto e lasciò la rivista per un diverbio. Era un fotografo difficile, il suo modo di portare avanti le commissioni ricevute era complesso e tortuoso non consegnava mai un lavoro in tempo, non era mai soddisfatto del layoit delle immagini, dell’impaginazione, dell’intensità delle foto stampate, delle didascalie, dell’intera presentazione della “story”, come si diceva.
Si liberò dal sistema degli incarichi dal lavoro dipendente, alla ricerca di maggior profondità, autentica, sospinto dal desiderio di trovare l’assoluto, di essere davvero pronto e presente nei rarissimi attimi in cui la verità della vita si manifesta nelle apparenze del mondo.

La rottura con la stampa, con le riviste, con i media, rappresentò una cesura nella sua vita, e da ultimo anche una frattura con la famiglia, con la moglie Carmen Martinez e con i quattro figli. Si trovò di fronte a un grande bivio personale e professionale: fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on.Hudson (nello stato di New York) e si trasferì a New York City, in un loft all’interno di un edificio in cui suonavano jazz. Ad acuire il suo isolamento gli giunse la richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le ottanta e le cento foto della città di Pittsburg.
L’incarico si trasformò gradualmente nel progetto ambizioso della sua vita, e poi il fallimento più doloroso. Invece che per un paio di mesi, Smith continuò a fotografare per due o tre anni, rimanendo poi impegnato per il resto della vita in innumerevoli tentativi di produrre, a partire dai quasi ventimila negativi e duemila “masterprints”, il grande colpo, il libro definitivo su Pittsburgh, la città industriale più famosa del primo Novecento: sulla città dell’acciaio, sul suo capitale, sulla cultura delle persone, sugli operai, sull’anima di questa metropoli nella parte sudoccidentale dello Stato della Pennsylvenia, in una conca situata alla confluenza tra i fiumi Monongahela e Allegheny e il fiume Ohio.

Smith non riuscì a soddisfare le proprie aspirazioni, che non potevano essere più ambiziose. Voleva creare l’assoluto, cogliere i momenti in cui tutta la verità della vita – cielo e inferno, luce e ombra – si manifestava negli avvenimenti effimeri della città. Stephan Lorant, il committente, aspettò per due anni le foto che aveva ordinato. “Life” offrì a Smith tredicimila dollari per i diritti d’autore e per pubblicare sulla rivista una “Story” così ampia, ma Smith rifiutò. Alla fine si conquistò trentasei pagine sulla rivista “Photography Annual 1959” e cercò di ottenere il massimo su pagine di piccolo formato, con un contributo dal titolo Pittsburgh. W.Eugene Smith’s Monumental Poem to a City.
E fallì miseramente. Poco prima di morire nel 1978, lasciò al Center of Creative Photography di Tuscon Arizona, di recente fondazione, il suo archivio: decine di migliaia di negativi, migliaia di stampe, lettere, un’enorme mole di appunti e quasi quattromilacinquecento ore di registrazione su nastro delle “jazz session” del loft di New York.


Maria Paola Forlani


Nessun commento:

Posta un commento