W. Eugene Smith.
Pittsburgh, ritratto di
una città industriale
Si è aperta
fino al 16 settembre a Bologna nella sede della Fondazione Mast – Manifattura
di arti, sperimentazione e tecnologie la mostra W.Eugene Smith. Pittsburg, ritratto di una città industriale, a
cura di Urs Sthael.
All’inizio
degli anni Trenta del secolo scorso il sistema della stampa illustrata aveva
raggiunto un suo primo momento culminante. Inventata e sviluppata
nell’Ottocento quale forma abbreviata e parallelo visivo della novella o del
romanzo borghese, negli anni Venti la fotografia iniziava la sua marcia
trionfale grazie a numerose novità, come la macchina da stampa veloce, la
rotativa, il procedimento a scala di grigi, la stampa a due e più colori.
Pionieri
in Germania furono la “Berliner Illustrierte Zeitung” e la “Arbeiter
Illustrierte Zeitung”, con una tiratura che superava, in entrambi i casi, le
cinquecentomila copie. Negli anni Trenta questa nuova forma di “storytelling”,
con molte fotografie e testi di accompagnamento, si diffuse in tutti i paesi,
dapprima in Europa, quindi anche negli Stati Uniti. Parallelamente la, la Leica
introdusse una rivoluzione nelle procedure e nei modi della fotografia. Nel
1914 Oskar Barnack inventò la prima Leica, nel 1925 la Leica iniziò ad essere
prodotta in serie e fu presentata alla fiera di Lipsia nei primi mesi
dell’anno; nel 1932 arrivò il vero successo commerciale con la Leica II, che
aveva telemetro incorporato e obiettivi sostituibili.Immediatamente la fotografia divenne leggera, mobile, a portata di mano, dinamica, abbandonò la rigidità dello stativo, il criterio di misura dell’altezza degli occhi; fin da subito fu possibile viaggiare per il mondo e inviare resoconti fotografici da qualunque luogo in modo rapido, versatile e vivido. I pionieri del reportage fotografico di documentazione sociale –Jacob Riis e Lewis Hine, tra gli altri – trovarono valanghe di successori. Erich Salamon, Henri Cartier-Bresson, Germaine Krull, Margaret Bourke-White, Werner Bischof, Robert Capa sono solo alcuni dei fotoreporter di fama mondiale; “Picture Post”, “Paris Match”, “Life”, “Sports Illustrated”, “Daily Mirror” e “Daily Graphic” rappresentano alcuni periodici più celebri dell’epoca.
Ė questo il periodo in cui nacque William Eugene Smith, più precocemente
nel 1918 a Wichhita, nel Kansans. Già a sedici anni iniziava a fotografare e
pubblicare. Dopo il suicidio del padre, una tragedia per la famiglia, studiò
fotografia all’Università di Notre Dame in Indiana, ma dopo un anno abbandonò i
corsi, si trasferì a New York e proseguì come “freelance” per Black Star Agency
e, tramite quest’agenzia per molte importanti riviste americane quali
“Collier’s”, “Parade”, “Time”, “Forune”; “Look” e “Life”. Dal 1944 cominciò a
viaggiare come corrispondente di guerra per “Life”, fu gravemente ferito in
Giappone e dal 1947 al 1954 lavorò a tempo pieno per lo stesso magazine. In
pochi anni diventò, insieme a Margaret Bourke-White, uno dei grandi eroi del
reportage e del saggio fotografico.
Il
medico di campagna, Vita senza germi, Il villaggio spagnolo, La levatrice,
Charli Chaplin al lavoro, Il regno della chimera e Un uomo compassionevole sono,
oggi come allora, tra i servizi più noti che siano mai stati realizzati per
riviste illustrate. Sequenze di fotografie che intendevano rappresentare di per
sé il nucleo essenziale di una storia, accompagnate da didascalie e infine
corredate da un testo: le fotografie di Smith andavano molto oltre i consueti
reportage fotografici. Le sue immagini erano buie, a volte perfino cupe, non
intendevano descrivere il mondo ma contenerlo, non riprodurlo ma darlo alla
luce loro stesse.
Al culmine
della sua fama di fotografo per riviste, dopo soli sette anni di impegno a
tempo pieno per “Life” – seguiti da un altro paio d’anni di lavoro su
commissione – nel 1954 Smith abbandonò tutto e lasciò la rivista per un
diverbio. Era un fotografo difficile, il suo modo di portare avanti le
commissioni ricevute era complesso e tortuoso non consegnava mai un lavoro in
tempo, non era mai soddisfatto del layoit delle immagini, dell’impaginazione,
dell’intensità delle foto stampate, delle didascalie, dell’intera presentazione
della “story”, come si diceva.
Si liberò dal sistema degli incarichi dal lavoro
dipendente, alla ricerca di maggior profondità, autentica, sospinto dal
desiderio di trovare l’assoluto, di essere davvero pronto e presente nei
rarissimi attimi in cui la verità della vita si manifesta nelle apparenze del
mondo.
La rottura
con la stampa, con le riviste, con i media, rappresentò una cesura nella sua
vita, e da ultimo anche una frattura con la famiglia, con la moglie Carmen
Martinez e con i quattro figli. Si trovò di fronte a un grande bivio personale
e professionale: fu costretto a vendere la sua casa a Croton-on.Hudson (nello
stato di New York) e si trasferì a New York City, in un loft all’interno di un
edificio in cui suonavano jazz. Ad acuire il suo isolamento gli giunse la
richiesta di realizzare, nel giro di un paio di mesi, tra le ottanta e le cento
foto della città di Pittsburg.
L’incarico si trasformò gradualmente nel
progetto ambizioso della sua vita, e poi il fallimento più doloroso. Invece che
per un paio di mesi, Smith continuò a fotografare per due o tre anni, rimanendo
poi impegnato per il resto della vita in innumerevoli tentativi di produrre, a
partire dai quasi ventimila negativi e duemila “masterprints”, il grande colpo,
il libro definitivo su Pittsburgh, la città industriale più famosa del primo
Novecento: sulla città dell’acciaio, sul suo capitale, sulla cultura delle
persone, sugli operai, sull’anima di questa metropoli nella parte
sudoccidentale dello Stato della Pennsylvenia, in una conca situata alla
confluenza tra i fiumi Monongahela e Allegheny e il fiume Ohio.
Smith non
riuscì a soddisfare le proprie aspirazioni, che non potevano essere più
ambiziose. Voleva creare l’assoluto, cogliere i momenti in cui tutta la verità
della vita – cielo e inferno, luce e ombra – si manifestava negli avvenimenti
effimeri della città. Stephan Lorant, il committente, aspettò per due anni le
foto che aveva ordinato. “Life” offrì a Smith tredicimila dollari per i diritti
d’autore e per pubblicare sulla rivista una “Story” così ampia, ma Smith
rifiutò. Alla fine si conquistò trentasei pagine sulla rivista “Photography
Annual 1959” e cercò di ottenere il massimo su pagine di piccolo formato, con
un contributo dal titolo Pittsburgh.
W.Eugene Smith’s Monumental Poem to a City.
E fallì miseramente. Poco prima
di morire nel 1978, lasciò al Center of Creative Photography di Tuscon Arizona,
di recente fondazione, il suo archivio: decine di migliaia di negativi,
migliaia di stampe, lettere, un’enorme mole di appunti e quasi
quattromilacinquecento ore di registrazione su nastro delle “jazz session” del
loft di New York.
Maria Paola
Forlani
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