IDOLI
Il potere dell’immagine
“L’ipotesi che Dio padre di tutte le
religioni monoteiste fosse stato in origine una Dea Madre iniziò a delinearsi
dopo la scoperta delle prime veneri paleolitiche, dove il corpo femminile era
sentito come centro di forza divina. Proprio in quel momento, tra paleolitico
medio e superiore, si pensa si siano verificati nello spirito e nella coscienza
dell’uomo, determinati mutamenti di struttura della psiche. Alla fase
dell’inconsapevolezza si contrappone una sorta di pulsione che gli specialisti
oggi attribuiscono a un rapido evolvere della coscienza Nasce un concetto di
religiosità. L’uomo aveva scoperto di avere un’anima.”
Giancarlo
Ligabue
Si è aperta
a Venezia a Palazzo Loredan sede dell’Istituto Veneto di Scienze Lettere e Arti,
grazie alla Fondazione Giancarlo Ligabue, fino al 20 gennaio 2019, la mostra IDOLI.
Il potere dell’immagine, a cura di Annie Caubet (catalogo Skira). L’
evento ci introduce nell’universo enigmatico delle raffigurazioni delle prime
idee metafisiche da parte dell’uomo proponendoci, così, un viaggio affascinante
nel tempo e nello spazio: il primo tentativo di confronto dall’Oriente
all’Occidente di opere raffiguranti il corpo umano del 4000 – 2000 a. C.
Fin dalla
preistoria l’uomo ha sentito la necessità di rappresentare la figura umana: con
graffiti e le pitture murali, ma anche in forma tridimensionale. Da quei
lontanissimi tempi, fin dall’età paleolitica, ci è giunta un’immensa quantità
di statuette realizzate in diversi materiali riproducenti tratti umani.
La
cosiddetta “rivoluzione neolitica” è epocale: segna il passaggio da clan e
tribù a società più complesse, vede l’avvento di nuove tecnologie e della
lavorazione dei metalli, l’affermarsi delle prime forme di scrittura in diversi
centri, l’avvio di reti commerciali e dei relativi traffici anche tra popoli
molto distanti, che in tal modo intensificano i rapporti e gli scambi di merci
e materiali, di idee a forme espressive.
Attraverso
circa 100 straordinari reperti – alcuni eccezionali per l’importanza storica e
la rarità è possibile percorrere un ampio spazio geografico, che si estende
dalla Penisola Iberica alla Valle dell’Indo, dalle porte dell’Atlantico fino ai
remoti confini dell’Estremo Oriente.
In un’epoca di grande transizione, in cui
i villaggi del Neolitico si evolvono a poco a poco nelle società urbane
dell’Età del Bronzo.
In questo
contesto si collocano le misteriose rappresentazioni della figura umana esposte
in mostra, di cui quattordici appartenenti alla Collezione Ligabue, le altre
provenienti da collezioni private internazionali e da importanti musei europei.
Dapprima si
manifestano quasi esclusivamente figure femminili, poi con l’affermarsi di
società sempre più strutturate, sono soprattutto gli uomini ad apparire protagonisti:
dei, sovrani, eroi.
Ė sorprendente vedere come, in parti del mondo tra loro lontanissime, si
affermino tradizioni e forme di rappresentazioni simili o si ritrovino
materiali necessariamente giunti da paesi distanti, eppure già in relazione tra
loro: l’ossidiana della Sardegna e
dell’Anatolia, i lapislazzuli importati
dall’Afghanistan, l’avorio ottenuto
dalle zanne degli ippopotami dell’Egitto o dalle Coste del Levante.
L’esposizione
ci mostra, provenienti dalle Isole Cicladi, dall’Anatolia Occidentale, dalla
Sardegna, ma anche dall’Egitto, dalla Spagna, dalla Mesopotania o dalla Siria –
le famose “Dee Madri” (raffigurazioni
femminili particolarmente prospere nei seni e nei fianchi, simbolo forse del
potere della Terra, della Maternità e della Fertilità) e gli idoli astratti e geometrici che tanto
affascinarono gli artisti del Novecento; oppure i cosiddetti “idoli oculari” o idoli placca, nati
dalla fascinazione esercitata dall’occhio come espressione della presenza
spirituale, fino all’affermarsi, nel terzo millennio, del corpo umano nelle sue
forme naturali.
Non più solo
esseri dall’identità ambigua, in particolare dal punto di vista del sesso
(figure femminili androgine, presenza contemporanea di organi sessuali maschili
e femminili, ecc.) né solamente espressione di principi divini, ma anche uomini
mortali, reali – spesso colti in atteggiamento orante – e nuove divinità create
a immagine dell’uomo.
Quello che
invece non cambia è il bisogno dell’individuo e della società di esprimere con
manufatti o con opere d’arte, le proprie paure, le proprie speranze, la propria
fede.
Nell’ambito
di questa mostra il suonatore d’arpa delle Cicladi spicca come simbolo del
ruolo svolto dalla musica che non esiste più.
Rappresenta l’arte gentile dei
suoni di cui cogliamo solo qualche riferimento attraverso i pochi resti di
strumenti musicali sopravvissuti nel tempo e il più alto numero di immagini
figurative. Nel IV millennio a.C. una certa varietà di strumenti a corda, a
fiato e a percussione si era diffusa in diverse regioni del mondo antico, tra
cui l’Elam, la Mesopotamia, l’Egitto, la valle dell’Indo e l’Oxus. Tra gli
strumenti a corda, le prime a comparire furono le arpe, seguite da lire e
liuti. Le arpe arcuate con molta probabilità derivarono la loro forma dall’arco
dei cacciatori. Il nesso con la musica è attestato già nell’ Odissea (VIII secolo a.C.), nel libro in
cui si racconta il ritorno di Ulisse a Itaca e in particolare il momento in cui
l’eroe ritrova l’arco che usava venti anni prima:
“Ma il Laerziade, come tutto l’ebbe
ponderato, e osservato a parte a
parte,
qual perito cantor, che, le ben torte
minuge avvinte d’una sua novella
cetera ad ambo i lati, agevolmente
tira, volgendo il bischero, la corda:
tale il grande arco senza sforzo
tese.
Poi saggio far volle del nervo:
aperse
la mano, e il nervo mandò un suono
acuto,
qual di garrula irondine è la voce.
Gran duolo i Proci ne sentirono, e in
volto
transcoloraro; e con aperti segni
fortemente tonò Giove dall’alto.
Non si può
non essere affascinati, nel percorso della splendida mostra della Fondazione
Ligabue, dalle figure steatopige dell’Arabia, o dalle statuette cicladiche
dalla sessualità ibrida o ancora dalle più enigmatiche sculture della
preistoria cipriota, quelle statuine stanti del tipo plank-shaped (con i tratti del volto resi da una molteplicità di
segni geometrici incisi, l’abbigliamento elaborato e spesso del tipo “a due
teste”).
I geni
raffigurati in questo periodo dagli artisti della Civiltà Oxus, sviluppata in
Asia centrale (complesso Battriano – Magiano), narrano di battaglie cosmiche,
di esseri dalla doppia identità animale e umana, ricompongono i fili del
racconto mitologico ove il “Drago
dell’Oxus”- detto anche “Lo
Sfregiato” per il profondo corpo coperto di squame di serpente, era la
controparte selvaggia della “Donna
dell’Oxus”, forse lo spirito astrale, forse principessa Battriana.
Maria Paola
Forlani
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