That’s IT !
Si è aperta
al Mambo di Bologna la mostra That’s IT!
Un approccio
innovativo, identitario e ipercontemporaneo: così si presenta la nuova mostra a
cura del nuovo direttore Lorenzo Balbi.
Si tratta di
una rassegna non esaustiva dell’arte italiana contemporanea, prodotta da una
generazione che coincide con quella del direttore-curatore (nato nel 1982),
ovvero (a parte qualche nato / all’inizio
del Novanta) “anni Ottanta”, espressione che potrebbe fare da sottotesto alla
mostra. La quale a sua volta ha per sottotitolo Sull’ultima generazione di artisti in Italia e a un metro e ottanta dal
confine in cui è contenuta la citazione da una poesia di Bruno Munari del
1971, che si apriva con le parole: “In Italia l’arte ha da essere italiana”.
That’s IT! È dunque una mostra sull’ultima arte
italiana (L’IT del titolo è l’indentificativo dell’Italia nel codice UE), dove
però, non tutta l’arte italiana ovviamente è rappresentata (gli artisti non
provengono da ogni regione, non ci sono quote rosa o altre imposizioni par
condicio da rispettare). Perché non può e non vuole essere una mostra sulle
pari opportunità, ma piuttosto su quello che il curatore stesso definisce “uno Jus soli artistico” (in esposizione
scatti del reporter Michele Sibiloni che
“non sapeva di essere un artista”, come ha dichiarato lo stesso Balbi). Una
mostra insomma riflessiva, propositiva e di apertura al dialogo, anche alle
contraddizioni che essa stessa mette bene in vista.
A partire dal concetto
stesso di identità italiana, annunciato nel titolo ma subito messo in dubbio in
catalogo: “In un mondo globalizzato e in una società fluida, in cui il concetto
di nazionalità si interseca a quello di appartenenza linguistica, etnica,
religiosa, formativa, culturale e sociale, cosa può ancora identificare un
artista o il suo lavoro come italiano? Ė italiano un artista che nato in
Italia, ha studiato e vive da sempre all’estero?
Domande cui
non possiamo che darsi risposte divergenti e imprecise. Alcuni degli artisti
sono infatti nati in Kossovo o in Germania, altri si sono diplomati al
Goldmith, alla Slade School o al Royal Colege di Londra, qualcun altro / a
vivere tra Amsterdam, Atene, Berlino, Tokyo, Londra, New York, perfino in
Uganda. Per il resto spiccano soprattutto artisti e artiste (la più giovane è Guandalina Cerruti, nata nel 1992)
diplomata allo Iuav di Venezia, alla Naba di Milano, presso le accademie di
belle arti di Bologna, Napoli, Venezia, Catania o laureati al Politecnico di
Milano, Ca’ Foscari di Venezia, La Sapienza di Roma. Di qui il senso di una
geografia, interna alla mostra, sbilanciata al Nord e con presenze femminili
minoritarie, ma forse anche questo è il segno dei tempi!
Fruibile a
triplice livello (come esposizione in senso tradizionale, come originale
catalogo-opera ideato su misura e come profilo Instagram aggiornato dagli
stessi artisti), That’s IT! Richiede
un approccio da parte di un pubblico non statico, composto di fruitori dinamici
e mutevoli, sui quali si ritagliano sempre più l’opera e il concept di
esposizioni sull’attualità: non si fa in tempo ad aprire la porta del museo che
già si è dentro la mostra senza sapere di esservi dentro, accolti da una delle
varie installazioni sonore e immateriali (tra cui quelle di Diego Marcon e di Francesco Fonassi).
Da una parte opere diffuse nello spazio e negli
spazi d’uso del museo, come le scale o la sala didattica (dove i tavoli di Adelita Husni-Bey sembrano negarsi come
opera per farsi oggetto), dall’altra la grande sala delle Ciminiere liberata di
vecchie superfetazioni e coperture, che torna a guardare la strada e a essere
da essa guardata e che è stata riportata a nudo mostrando la sua bella
architettura industriale (lo spazio era in origine un forno che produceva pane
a prezzi calmierati durante la Prima guerra mondiale), in cui artisti come Benni Bosetto hanno messo in dialogo
finte vetrate cloisonnè in tessuto acrilico e altri, come il collettivo Inverno-muto, hanno installato una
proiezione su schermo mostrando aspetti di una cultura suburbana innalzata come
una pala d’altare laica.
La mostra in
sé è uno spaccato critico dell’arte italiana, nel senso che la criticità
è insita nei linguaggi degli artisti italiani (e non), che non hanno più lingue
e dialetti comuni o coerenti su cui formarsi. La nostra epoca è precaria in
senso endemico, potremmo dire alla nascita, e i linguaggi non devono solo
ricalibrarsi, ma confrontarsi con la distruzione stessa del concetto di
identità e appartenenza. In tutto ciò il direttore non è stato curatore fino al
punto di decidere anche quali opere esporre, lasciando questa scelta agli
artisti, selezionati da un archivio personale di circa 450.
E se pittura se ne
vede poca (Ian Tweedy, Julia Frank o
i disegni psicotici di Alberto Tadiello)
e di scultura ancora meno (ma interessanti le false sculture urbane di Ludovica Carbotta o i monumenti a scala
umana di Alice Ronchi), è perché le
opere vogliono parlare del nostro tempo nel suo farsi presente e indefinito,
come testimoniano i mosaici di foto prese da Google Stret View di Emilio Vavarella, il videogame PES di The Cool Couple o l’arazzo di Angelo Licciardello & Francesco
Tagliavia, su cui si ritrae la disperazione dei calciatori italiani dopo la
partita contro la Svezia che li ha eliminati dai Mondiali di Russia 2018: una
storia senza dubbio poco memorabile, ma comunque sentita e partecipata come se
lo fosse.
Non emergono
forse opere o artisti fuoriclasse e forti, ma tutto sembra concepito come un
coro a più voci, anche dissonanti, isolate, borderline (il lavoro di Giulio Squillacciotti utilizza gli
schizzi di un internato del manicomio di Collegno), quasi a formare un incerto
mosaico di diversità non conciliabili e intessute tra di loro in modo precario,
perché precaria è l’esistenza di questa generazione, legata al momento, al
luogo, all’occasione e non appunto a una visione storica (piuttosto
all’archivio impersonale, come nel caso di Lia
Cecchin, che basa la propria poetica dada commissionando e raccogliendo
testi di altri scrittori).
L’identità è una sostanza certamente difficile da delineare nella nostra epoca, pur se rimane sempre possibile scegliere se rovistare tra le proprie radici ( il Kosovaro Patrit Halilaj realizza cassette di legno con disegni di fragili farfalle della sua infanzia) e proporne una nuova identità, oppure affidarsi ai flussi della contemporaneità disidentificandosi (la pittura del triestino Andrea Kvas si nega nel suo farsi molteplice, polimaterica e componibile). That’s IT!: tutto qui.
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