venerdì 26 giugno 2020

Aloìse Corbaz


Aloïse Corbaz
L’estasi dell’eros

Grande figura dell’Art brut, Aloïse ha prodotto tutti i suoi disegni fantasmagorici durante il suo lungo internamento per schizofrenia. Se l’artista svizzera non fosse stata curata, non avrebbe probabilmente creato nulla.
Michéle Laird, Losanna.


In occasione di due importanti mostre dedicate ad Aloïse, in corso a Losanna, è stato sollevato un interrogativo: la sua creatività sarebbe sopravvissuta ai medicinali odierni? Infatti i farmaci antipsicotici e antidepressivi alleviano la sofferenza di innumerevoli individui, ma possono anche arrestare lo slancio creativo.

Occhi azzurri che scrutano un mondo immaginario, seducenti damine che popolano raffinati ambienti abitati da personaggi storici, coppie di innamorati e protagonisti di opere liriche. Così si presenta l’arte di Aloïse Corbaz.

Settima di otto figli, nata nel 1886 a Losanna, in Svizzera, Aloïse è una donna alta, bella e con maniere molto distinte. Figlia di un impiegato delle poste, proviene da un contesto familiare semplice, segue i suoi studi fino a diplomarsi in musica.
Nel 1911, dopo una delusione d’amore, si trasferisce a Postdam vicino a Berlino, per lavorare come governante alla corte tedesca di Guglielmo II di Prussia, per il quale sviluppa una forte infatuazione. Nel 1914, anno della dichiarazione di guerra con cui ha iniziato il primo conflitto mondiale, comincia a manifestare disturbi comportamentali e, una volta tornata a Losanna, viene ricoverata in ospedale con diagnosi di schizofrenia paranoica. A soli trentadue anni, nel 1918, il suo stato mentale sempre più agitato indurrà la famiglia a portarla alla clinica elvetica di Cery dove rimarrà fino al 1920 quando sarà internata al La Rosiére, a Gimel, sempre in Svizzera, fino alla fine della sua vita nel 1964.
Durante questo lungo periodo la bella signorina dai capelli rossi si trasforma, con il passare del tempo, in un’austera e canuta signora. Fu durante il suo ricovero che sviluppò la sua frenesia fantastica artistica, prima disegnando su biglietti di carta poi su fogli di grande formato cuciti tra loro con ago e filo. Questa attività rappresentò una forza vitale, quasi mistica, che la condusse a manifestare il suo potenziale creativo nella massima libertà. Il simbolismo di Aloïse, a prima vista, sembra essere poco più che un accostamento di colori vivaci, la gioia di disegnare viene espressa in maniera piena con personaggi teatrali e figure circensi, frutto della sua realtà interiore. Lo psichiatra Hans Steck, allora direttore dell’ospedale di Cery, e la giovane dottoressa Jacqueline Porret-Forel strinsero amicizia con Aloïse sin dal 1941 e la incoraggiano a disegnare procurandole gli strumenti per la sua arte.

Usando inizialmente pastelli, colori estratti da petali di geranio e dentifricio, Aloïse illustra, sviluppando il suo stile, storie sdolcinate con cui riempie interi fogli senza lasciare spazi vuoti. La scoperta del disegno fu una vera rinascita per lei, che le consentì di dare voce al suo universo privato attraversato dal dolore ma anche dal desiderio di esorcizzare i suoi tormenti grazie a un prodigioso sfogo di parole e immagini ricche di colore e allusioni La sua creatività proviene da una forma di inadeguatezza alla realtà, di rivolta contro la sua apparente tranquillità, come testimonia la sua opera più grande: Cloisonné de théatre.
Nel 1951 Aloïse consegnò alla dottoressa amica Jacqueline un rotolo di carta su cui l’aveva disegnata, accompagnato da una lettera in cui descriveva i quattordici metri di questo capolavoro sulle cui superfici, fronte-retro, trionfa un caos euforico di cromie sgargianti che esprimono una gioia quasi infantile. È un’opera monumentale, suddivisa in tre “atti” tematici, ora nella collezione del Lam – Lille Métropole Musée d’Art Moderne, d’’Art Contemporain et d’’Art Brut di Villeeneuve d’Ascq, in Francia.
Il primo atto,
Grand Bal de nuit, evoca un antico mondo naturale e il fascino degli sfarzi principeschi e musicali. Il secondo, Le Ricochet solaire, tratta principalmente l’internamento di Aloïse, la sua rottura con la vita passata e la sua rinascita attraverso lo sviluppo di un universo tutto nuovo. Il terzo Psyché et l’amour, rivela come la sua arte rappresenti uno strumento di lotta contro il mondo esterno e una sorta di danza rituale per rafforzare il suo desiderio di libertà.
L’intima connessione tra erotismo e amore è ben rappresentata dai colori rosso e azzurro che ritornano nei disegni di Alo
ïse. Sulla traccia di un pensiero trasgressivo, i suoi disegni – i primi realizzati nel 1920 ma in gran parte distrutti poiché si riteneva che le donne con malattie mentali non potessero fare arte – si adattano a un universo esplorato dal premio Nobel Octavio Paz nella prefazione della sua collezione di saggi La duplice fiamma, basati sull’intima connessione tra i due domini di erotismo e amore.
L’ambizioso e visionario progetto dell’intellettuale messicano analizza le evoluzioni e le metamorfosi di questi due concetti chiave presenti nell’opera di Alo
ïse attraverso rispettivamente, il rosso dei corpi sensuali e l’azzurro degli occhi.
Aloïse stessa ha definito “miracolosa” la creatività, “L’unica fonte di estasi perpetua”. Jean Dubuffet, il pittore francese che ha coniato il concetto di Art brut, ha seguito il suo lavoro per quasi vent’anni e spesso le rendeva visita in Svizzera. Alla sua morte, nel 1964, ha affermato che la sua arte l’aveva guarita.

Il lavoro di Aloïse, considerata una delle figure più emblematiche dell’Art Brut, ha ottenuto la sua consacrazione attraverso le mostre al Foyer de l’Art Brut di Parigi, fondato nel 1947, appunto, da Jean Dubuffet nello scantinato della Gallerie René Drouin, e la pubblicazione della tesi di medicina della dottoressa Porret Forel.

La vita si fa arte e l’arte si fa vita per Aloïse che la espone come un diario intimo, la manifesta come un flusso inesauribili in continuo rapporto con l’attività della memoria. Ricordi, emozioni, idee e immagini che tesse con loro creando percorsi di riflessione interiore. I fogli che unisce rappresentano il suo spazio di libertà e le aree ricche di colore, in cui prevale il forte senso fisico e percettivo, sono testimonianza dei sentieri interrotti di arte e psichiatria.

M.P.F.

lunedì 22 giugno 2020

Reinas, dalla Sardegna una ricerca femminile


REINAS

Nel Sulcis iglesiente, nella parte sud occidentale della Sardegna, a Villamassargia, esiste un orto secolare di ulivi innestati dagli abitanti tra il 1300 e il 1600 chiamato “S’ Ortu Mannu”, l’orto grande. All’interno del parco di oltre tredici ettari, dimorano più di settecento ulivi secolari affidati alle cure delle famiglie del paese; tra di essi campeggia uno degli ulivi più antichi d’Europa chiamato “Sa Reina”: la Regina. Con oltre 16 metri di circonferenza del tronco, le sue chiome verdissime, i rami nodosi, “Sa Reina” sfida il tempo, le stagioni, la storia. Madre, guardiana coraggiosa, difende il territorio e quel che poco resta dell’antico sconfinato dominio.

La Sardegna è spesso un racconto al femminile, che affonda le sue radici nella Preistoria per giungere, con un bagaglio inestimabile di saperi antichi, alle soglie del nostro tempo. Prima dee, poi regine, poi artiste il viaggio prosegue, cambiano le armi ma il principio di resilienza resta immutato, quasi fosse geneticamente trasmesso, anche quando, l’occhio attento, mette a fuoco oltre il mare il mondo con la sua contemporaneità.

La mostra Reinas (Torino Museo Ettore Fico aperta fino ad ottobre), raccoglie e presenta le opere delle più importanti artiste di Sardegna, tre generazioni a confronto e un focus sulla produzione degli anni ’70 ai giorni nostri.
Si parla di quattro piccole antologie dedicate a Maria Lai, Zaza Calzia, Rossana Rossi e Lalla Lussu interconnesse tra loro a sottolineare punti di contatto e diversità di ricerca. Il percorso è tracciato da altrettante parole chiave che vogliono suggerire il tema caratterizzante nei nuclei selezionati lungo una narrazione che è anche scoperta, sorpresa, riflessione, in un tempo che scorre in ritmi differenti per creare esperienze personali e condivise.

Ecco quindi l’ago di Maria Lai sfilato da un muro cucito per “legare collegare” insieme i quattro temi della Parola, del Ritmo, del Colore e del Segno come capitoli selezionati da un unico libro, immergendoci nella spiritualità di Lai, nell’’ironia giocosa di Calzia e nei colori solari di Lassu, nel rigore estetico di Rossi si scoprono inusitate esperienze di ricerca che restituiscono un territorio aggiornato, distante dagli stereotipi più comuni, dove isola non è isolamento ma spazio di convivenze in cui sottili rimandi tra passato e presente sono più chiari, meno disturbati da rumori bianchi. Sull’isola i silenzi profumano di eterno, ecco perché è più facile ascoltare.

Attraverso quattro tra le artiste più note del panorama sardo l’evento intende individuare un percorso comune che restituisce la capacità di trattare elementi peculiari della storia, della cultura, della natura del territorio sardo per restituirli alla collettività elaborati in linguaggi contemporanei di eventi e la straordinaria capacità di varcare geograficamente i confini “regionali” per divenire patrimonio collettivo internazionale.

M.P.F.

venerdì 19 giugno 2020

CAPOLAVORI DELLA COLLEZIONE LONGHI


Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi in mostra a Roma

50 anni dalla scomparsa di Roberto Longhi: i Musei Capitolini presentano una importante mostra sulle opere caravaggesche presenti nella collezione del grande storico dell’arte.
Il tempo di Caravaggio. Capolavori della collezione di Roberto Longhi, a cura di Maria Cristina Bandera, direttore scientifico della Fondazione che porta il nome del grande storico dell’arte, situata a Firenze nella casa che fu sua dimora. E comprende una grande “raccolta”, come amava chiamarla Longhi stesso, composta delle opere delle maestranze che hanno segnato la storia dell’arte tra cui ovviamente un importante e significativo nucleo dedicato a Michelangelo Merisi da Caravaggio e ai suoi seguaci (aperta fino al 13 settembre 2020).
E proprio al Caravaggio, grande amore di Longhi è dedicato questo progetto espositivo che comprende più di 40 opere distribuite in cinque sale. La mostra è un omaggio a Longhi, a 50 anni dalla sua scomparsa.
Roberto Longhi nasce nel 1890 ad Alba. Ultimo di tre figli, frequenta i cinque anni di ginnasio presso il Liceo Govone, in quel di Modena. Successivamente si diploma a Torino, iscrivendosi poi alla facoltà di Lettere all’Università dove frequenta il corso di Storia dell’arte tenuto da Pietro Toesca, laureandosi con lui nel 1911 con una tesi su Caravaggio “Studioso importante e innovativo, soprattutto una figura carismatica” così lo descrive la curatrice Bandera “Longhi ha iniziato a studiare Caravaggio da giovanissimo. All’epoca Caravaggio, come ricorderà nei suoi scritti anche Longhi, era uno degli artisti meno noti d’Italia. Naturalmente questa attenzione al pittore, di cui lo storico dell’arte ne riconobbe subito la portata rivoluzionaria, si pose anche nello spirito d’avanguardia in cui Longhi si era mosso.
Quest’ultimo dedicherà al Merisi, con un’attenzione al pubblico fino all’epoca della mostra ospitata a Palazzo Reale, a Milano, nel 1951. “Il pubblico guardi bene, osservi come Caravaggio non sia l’ultimo pittore del Rinascimento ma piuttosto il primo artista dell’età moderna. Il pubblico guardi come Caravaggio si sia imposto di essere naturale, comprensibile, umano, piuttosto che umanistico, in una parola popolare”. Così Longhi spiegava la modernità del grande pittore italiano e il pubblico premiò la mostra; furono fatti 500.000 i visitatori. Tantissimi sono stati gli scritti, i contributi e le soddisfazioni in ambito accademico e di ricerca; il metodo Longhi è uno dei capisaldi della Storia della Critica dell’Arte, cui tutte le generazioni successive si sono rivolte. Scomparso nel 1970 e, in ottemperanza alle sue volontà, l’anno successivo viene costituita la Fondazione di Studi di Storia dell’Arte, cui tutte le generazioni successive si sono rivolte. Ad oggi le attività si sono intensificate, promuovendo diverse borse di studio rivolte a studiosi e ricercatori meritevoli di tutto il mondo.

La mostra si apre con le parole dello Storico dell’arte, scritte nel 1951: “Dopo Caravaggio, i “caravaggeschi”. Quasi tutti a Roma, anch’essi, e da Roma presto diramatesi in tutta Europa. La “cerchia” si potrà dire, meglio che la scuola; dato che il Caravaggio suggerì un atteggiamento, provocò un consenso in altri spiriti liberi, non definì una poetica di regola fissa; e insomma, come non aveva avuto maestri, non ebbe scolari”. La mostra è costituita con approccio scientifico che non dimentica il grande pubblico, toccando dapprima il clima artistico del manierismo lombardo e veneto dove si formò il pittore, con quattro tavolette di Lorenzo Lotto e due dipinti di Battista del Moro e Bartolomeo Passerotti.
Nelle opere che seguono sono visibili le nette influenze del famoso naturalismo di cui Caravaggio incarnò gli aspetti e che praticò in maniera magistrale. Tra le maestranze troviamo Carlo Saraceni, Angelo Caroselli, Guglielmo Caccia (detto il Moncalvo), Domenico Fetti, Pier Francesco Mazzucchelli (detto il Morazzone). Non mancano Jusepe de Ribera con cinque tele raffiguranti gli Apostoli, la Deposizione di Cristo di Battistello Caracciolo, insieme a Valentin de Boulogne – con un’ambientazione che fa riferimento alla famosa Vocazione di San Matteo di Caravaggio nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Troviamo poi le opere di artisti fiamminghi e paesaggi di Viviano Codazzi e Filippo Napoletano. Tra i grandi artisti sono visibili i genovesi Bernardo Strozzi, Giovanni Andrea De Ferrari, Gioacchino Asserato, Andrea Vaccaro, Giovanni Antonio Molineri, Giuseppe Caletti, Carlo Ceresa, Pietro Vecchia, Francesco Cairoe, Monsù Bernardo. Infine, concludono il percorso due capolavori di Mattia Preti insieme a due opere di Giacinto Brandi.

M.P.F.

giovedì 18 giugno 2020

ORAZIO BORGIANNI


Orazio Borgianni. Un genio inquieto nella Roma di Caravaggio


“La più bella natura morta del ‘600 italiano e una fra le più belle del ‘600 europeo” l’aveva definita nel 1916 lo storico dell’arte Roberto Longhi attribuendola ad Orazio Borgianni. Si tratta di una magnifica cesta piena di panni dipinta ai piedi di una Sacra Famiglia, sant’Elisabetta, san Giovannino e un angelo, una grande tela conservata a Roma alle Gallerie d’ Arte Antica – Palazzo Barberini. Così uno straordinario dipinto di primo Seicento trovava il suo autore, nome su cui furono concordi gli storici successivi.

Oggi è esposta nella prima monografia dedicata a Orazio Borgianni. Un genio inquieto nella Roma di Caravaggio, aperta al pubblico a Palazzo Barberini fino al 30 giugno.
Una rassegna che accompagna il visitatore in sei sale raccontando, nella prima parte, il percorso storico artistico di Borgianni attraverso diciotto capolavori. E, nella seconda, l’influenza esercitata dal pittore su alcuni contemporanei, tra cui Carlo Saraceni, Antiveduto Gramatica, Giovanni Lanfranco, Simon Vouet, Giovanni Serodine, Claude Vignon, Guido Cagnacci. A testimoniarlo diciasette dipinti di questi eccellenti artisti.

Chi era Orazio Gentileschi (Roma 1574 – 1616) Uno dei tanti pittori geniali attivi nella capitale tra fine Cinquecento e prima metà del Seicento, influenzati in modi diversi da Caravaggio, ma con uno sviluppo autonomo. Innovatore, Borgianni ha un percorso tutto suo, ancora in parte misterioso. Nato a Roma da un falegname di origini fiorentine, compie in patria i primi passi. La prima opera nota, di committenza siciliana, risale al 1593, ma ancora acerba, non sembra illuminare la sua formazione.
Dal !597 al 1605 il giovane Borgianni lavora in Spagna spostandosi a Pamplona a Saragozza, da Valladolid a Madrid a Toledo. Conosce El Greco, pittori spagnoli e italiani presenti in quella terra. Ed è forse lì che avviene la sua prima trasformazione.
Al ritorno a Roma a fine 1605 “esplode” infatti con dipinti potenti, forti, naturalisti, espressivi. Dove ha imparato a dipingere opere come la Visione di san Francesco (o la Vergine che consegna il Bambino a San Francesco) con quei corpi di angeli aggrovigliati e sensuali, o come la sopracitata Sacra Famiglia, sant’Elisabetta, san Giovannino e un angelo o ancora il Cristo tra i dottori giunto dal Rijksmuseum di Amsterdan.

Il curatore della mostra, Giovanni Papi, cerca di spiegarlo con esperienze emiliane prima della partenza per la Spagna. Ipotesi che non trova però alcun supporto biografico né documentario. Più credibile è nel linguaggio, con quegli accenti di colore intenso, quei volti rugosi che ricordano tanti maestri spagnoli, che rivelano la sua formazione in terra di Spagna.

Su questa formazione, ancora enigmatica, si infila e intreccia a Roma il nuovo “verbo” del rivoluzionario Caravaggio, che insegna a guardare “dal naturale”. Borgianni fa forse in tempo a conoscere il Merisi, che il 28 maggio 1606 fugge per sempre da Roma con l’accusa di assassinio. È probabile che venga coinvolto in liti e contenziosi che lo riguardano, come racconta il contemporaneo biografo Giovanni Baglione.
Certo Caravaggio influenza Borgianni, che ha già un suo volto consolidato e una complessa cultura artistica. Carattere litigioso, ma personalità colta e raffinata, a Roma diventa membro dell’Accademia di San Luca, degli Humoristi, e dei Virtuosi del Pantheon e in rapporto con eminenti personaggi spagnoli. Su questi anni romani si focalizza la mostra, presentandoci opere originali e di grande bellezza,
come il forzuto e muscoloso San Cristoforo che trasporta Gesù Bambino arrivato da Edimburgo, o la spettacolare Natività della Vergine giunta da Savona, un’opera articolata dalla spregiudicata prospettiva, ammirata da Roberto Longhi, o il San Carlo Borromeo visita gli appestati. Straordinaria per le tonalità intense e corpose è anche la Sacra Famiglia con sant’Anna, con quella modella di impronta spagnolesca a far da Madonna.
E ancora Cristi morti, santi martirizzati, volti di un Seicento sempre più affascinante. Incastonata nelle sale delle raccolte seicentesche di Palazzo Barberini la mostra si concentra sulla stagione romana di Orazio, con 18 sue tele che si scalano nel decennio 1606 – gennaio 1616 (quando Borgianni, assistito dai suoi grandi protettori spagnoli, l’ambasciatore di Francia de Castro e il suo segretario Juan de Lezcano, si spegne a 41 anni).

M..P.F.

lunedì 15 giugno 2020

Baldassare Castiglione e Raffaello


Baldassare Castiglione e Raffaello.

Volti e momenti della vita di corte.

Urbino apre fino al 18 luglio nel Palazzo Ducale. Sale del Castellare la mostra, a cura di Vittorio Sgarbi e Elisabetta Soletti, Baldassare Castiglione e Raffaello. Volti e momenti della vita di corte.
Il progetto è promosso dal Comitato Nazionale per le Celebrazioni dei cinquecento anni dalla morte di Raffaello, dalla regione Marche e dal comune di Urbino
Ad essere raccontata, in modo del tutto originale è la vicenda di un uomo che fu figura centrale del Rinascimento europeo. Baldassare Castiglione, mantovano di origine urbinate d’adozione, è a tutti noto per il suo Cortigiano, opera che, tradotta nelle principali lingue dell’epoca, fornì “il” modello di comportamento per l’alta società dell’intero continente.
Ma limitare la figura del Castiglione a questa pur celeberrima opera sarebbe scelta del tutto limitante.
Come questa grande mostra evidenzia, la sua figura di intellettuale finissimo, vicino ai grandi artisti, Raffaello in primis, ma anche scrittori, intellettuali, regnanti e papi, attento politico, incaricato di ambascerie tra le più delicate del suo tempo. Uomo che sfuggì ad intrighi, che seppe muoversi in modo accorto in un periodo storico complessissimo.

Attingendo alla fonte imprescindibile delle sue lettere, la mostra ha il merito di ricostruire l’intera vicenda del Castiglione ponendola, correttamente, nel contesto del suo tempo, accanto a figure altrettanto complesse ed affascinanti come quelle di Guidobaldo da Montefeltro, Duca di Urbino, di Leone X, dei Medici, degli Sforza, dei Gonzaga e di Isabella d’Este “prima donna al mondo”, dell’Imperatore Carlo V e di artisti – Raffaello innanzitutto, ma anche Leonardo, Tiziano, Giulio Romano…” -, di fini intellettuali come Pietro Bembo e di studiosi come Luca Pacioli, Tra i tanti.
Sette sezioni fitte di opere importanti, utili a dare la dimensione dell’epoca raccontata. Integrate attraverso soluzioni multimediali che ampliano il racconto, offrendo ulteriori chiavi di lettura, agendo su immagini e stimoli visivi ed emotivi.

Una mostra ampia, complessa ma non complicata, imponente e stimolante. Scrigno d’arte ma anche di arti applicate: gli abiti per feste, tornei e parate, le armi, le antiche edizioni e i manoscritti, poi la musica, per citare solo alcuni dei focus. Una grande mostra che trova il suo naturale complemento nel Palazzo Ducale dei Montefeltro e nell’intera città di Urbino, contenitori e al contempo contenuto di un’esposizione che fa della corte urbinate uno dei suoi fondamentali punti di interesse.
“Unire i nomi di Raffaello e di Baldassare Castiglione – afferma Elisabetta Soletti, che con Vittorio Sgarbi cura la mostra – significa dare il giusto rilievo al fondamentale contributo del sommo artista e del grande scrittore nella creazione del mito di Urbino e della sua corte nei primi decenni del Cinquecento. A entrambi infatti si deve l’affermazione del primato culturale del Rinascimento italiano in tutta Europa. Il Cortegiano a lungo ha rappresentato il modello ideale dei valori della civiltà delle corti come è documentato dall’eccezionale successo editoriale dell’opera, che fu tradotta in tutte le principali lingue nazionali, spagnolo, francese, ingleso, tedesco, polacco, un successo che conobbe una profonda e duratura fortuna fino al sc. XVIII”.

Vittorio Sgarbi, ProSindaco di Urbino sostiene “Urbino è luogo che Raffaello non può dimenticare, è il luogo della sua infanzia, è il luogo di Piero della Francesca, è il luogo dei suoi amori, è il luogo della bellezza, dell’architettura, delle belle donne che lo porteranno alla dannazione Bello e dannato. Io credo che ricordarlo voglia dire vedere in Raffaello il punto di arrivo di una vita compiuta. In soli 37 anni egli ha fatto quello che un altro uomo non avrebbe fatto nemmeno in 10. Raffaello non è solo Rinascimento, è perfezione, è armonia, è l’arte che vince la natura”.

M.P.F.


giovedì 11 giugno 2020

Arte senza confini: IL MIRACOLO DELL'ARTE CHE SALVA DALLA SOFFERENZA

Il Miracolo dell’Arte che salva dalla sofferenza
Il potere curativo e salvifico della grande arte: questo il tema centrale della nuova mostra virtuale proposta dagli Uffizi sul sito (www.uffizi.it/mostre-virtuali/guarigioni-miracolose), nella delicata fase della ripresa dopo il lokdom.
Guarigioni miracolose. Malattia e intervento divino. L’arte interpreta il miracolo in opere dal Tre al Novecento” è il titolo dell’ipervisione, realizzata dalle Gallerie degli Uffizi con il coordinamento di Patrizia Naldini: quindici opere, scelte tra quelle delle collezioni del Museo e non solo, realizzate da grandi maestri come Beato Angelico, Sandro Botticelli, Rembrandt, solo per citare alcuni nomi.
Ad aprire il percorso è una scena di miracolo della Beata Umiltà   nel polittico degli Uffizi dipinto da Pietro Lorenzetti intorno al 1335, dove si mostra il risanamento della gamba di un monaco che ne aveva rifiutata l’amputazione. Il gesto sembra prefigurare quello analogo dei due santi medici Cosma e Damiano nello scomparto di predella della Pala di San Marco ora nell’omonimo museo fiorentino, una delle prove più alte della pittura del Beato Angelico, anch’essa inclusa nell’ ipervisione. Chini su una sorta di tavolo operatorio, Cosma e Damiano sostituiscono la gamba in cancrena del diacono Giustiniano con quella tolta ad un etiope seppellito nel cimitero di San Pietro in Vincoli.

I santi medici, scelti come simbolici protettori spirituali dei signori di Firenze, compaiono di nuovo in una delle opere più belle del giovane Botticelli, la pala di Sant’Ambrogio, esposta nella galleria delle Statue e delle Pitture della stessa sala dove si trova la celebre Primavera. Un disegno storicamente attribuito alla scuola di Raffaello raffigura uno dei miracoli di Gesù, la guarigione del cieco nato, uno dei sette segni narrati nel Vangelo di Giovanni, mentre la miracolosa potenza del gesto taumaturgico è espressa da un’incisione di Rembrandt e dal San Pietro guarisce gli infermi con la sua ombra, dipinto attribuito al francese Laurent de La Hyre: soggetto di cui Firenze vanta un illustre precedente quattrocentesco, l'affresco di Masaccio sulle pareti della Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine.

La conclusione del viaggio nel prodigio della cura è affidata a un grande autore del Novecento, Giovanni Colacicchi, che nel 1943, nel pieno infuriare della seconda guerra mondiale, rappresenta con grande originalità un San Sebastiano non trafitto dalla consueta pioggia di frecce: a caratterizzare il martire, nel lavoro del pittore di origini anagnine, è invece un corpo seducente e perfetto, quasi un inno metafisico all’intangibilità dello spirito e della bellezza da parte del male.
“Ciò che vogliamo raccontare con “Guarigioni miracolose” è la vittoria della speranza sulla sofferenza, sul male, sulla malattia – spiega il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt – lanciando un messaggio forte di sostegno alle tante persone che ancora sono in pericolo e a quelle che hanno passato momenti terribili durante la pandemia. L’esperienza della malattia fa parte della condizione umana e la guarigione ci ricorda i molti motivi per cui vale la pena vivere: è il miracolo inspiegabile che ci riempie di speranza e ci ricorda che dobbiamo essere grati per tutto quello che l’esistenza ci rivela”.

M.P.F:

IL MIRACOLO DELL'ARTE CHE SALVA DALLA SOFFERENZA


Il Miracolo dell’Arte che salva dalla sofferenza
Il potere curativo e salvifico della grande arte: questo il tema centrale della nuova mostra virtuale proposta dagli Uffizi sul sito (www.uffizi.it/mostre-virtuali/guarigioni-miracolose), nella delicata fase della ripresa dopo il lokdom.
Guarigioni miracolose. Malattia e intervento divino. L’arte interpreta il miracolo in opere dal Tre al Novecento” è il titolo dell’ipervisione, realizzata dalle Gallerie degli Uffizi con il coordinamento di Patrizia Naldini: quindici opere, scelte tra quelle delle collezioni del Museo e non solo, realizzate da grandi maestri come Beato Angelico, Sandro Botticelli, Rembrandt, solo per citare alcuni nomi.
Ad aprire il percorso è una scena di miracolo della Beata Umiltà   nel polittico degli Uffizi dipinto da Pietro Lorenzetti intorno al 1335, dove si mostra il risanamento della gamba di un monaco che ne aveva rifiutata l’amputazione. Il gesto sembra prefigurare quello analogo dei due santi medici Cosma e Damiano nello scomparto di predella della Pala di San Marco ora nell’omonimo museo fiorentino, una delle prove più alte della pittura del Beato Angelico, anch’essa inclusa nell’ ipervisione. Chini su una sorta di tavolo operatorio, Cosma e Damiano sostituiscono la gamba in cancrena del diacono Giustiniano con quella tolta ad un etiope seppellito nel cimitero di San Pietro in Vincoli.
I santi medici, scelti come simbolici protettori spirituali dei signori di Firenze, compaiono di nuovo in una delle opere più belle del giovane Botticelli, la pala di Sant’Ambrogio, esposta nella galleria delle Statue e delle Pitture della stessa sala dove si trova la celebre Primavera. Un disegno storicamente attribuito alla scuola di Raffaello raffigura uno dei miracoli di Gesù, la guarigione del cieco nato, uno dei sette segni narrati nel Vangelo di Giovanni, mentre la miracolosa potenza del gesto taumaturgico è espressa da un’incisione di Rembrandt e dal San Pietro guarisce gli infermi con la sua ombra, dipinto attribuito al francese Laurent de La Hyre: soggetto di cui Firenze vanta un illustre precedente quattrocentesco, l'affresco di Masaccio sulle pareti della Cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine.
La conclusione del viaggio nel prodigio della cura è affidata a un grande autore del Novecento, Giovanni Colacicchi, che nel 1943, nel pieno infuriare della seconda guerra mondiale, rappresenta con grande originalità un San Sebastiano non trafitto dalla consueta pioggia di frecce: a caratterizzare il martire, nel lavoro del pittore di origini anagnine, è invece un corpo seducente e perfetto, quasi un inno metafisico all’intangibilità dello spirito e della bellezza da parte del male.
“Ciò che vogliamo raccontare con “Guarigioni miracolose” è la vittoria della speranza sulla sofferenza, sul male, sulla malattia – spiega il direttore delle Gallerie degli Uffizi Eike Schmidt – lanciando un messaggio forte di sostegno alle tante persone che ancora sono in pericolo e a quelle che hanno passato momenti terribili durante la pandemia. L’esperienza della malattia fa parte della condizione umana e la guarigione ci ricorda i molti motivi per cui vale la pena vivere: è il miracolo inspiegabile che ci riempie di speranza e ci ricorda che dobbiamo essere grati per tutto quello che l’esistenza ci rivela”.
M.P.F:

giovedì 4 giugno 2020

RAFFAELLO 1520 - 1483


Raffaello 1520 – 1483

In occasione delle celebrazioni mondiali per il quinto centenario dalla scomparsa di Raffello Sanzio, Roma. La città che ne ha sancito l’affermazione artistica, non poteva che dedicare all’Urbinate una Mostra, allestita negli spazi delle Scuderie del Quirinale, che mettesse in luce il valore universale dell’arte del genio del Rinascimento; un gusto, una tecnica ed una delicatezza pittorica e compositiva rimasti per quattro secoli quali basi indiscusse del canone artistico occidentale.

Un racconto in chiave monografica incentrato sulla vasta produzione artistica di Raffaello: dalle arti plastiche a quelle decorative, dall’antiquaria dell’architettura spingendosi sino all’urbanistica. Un percorso espositivo a ritroso che prende il via dalla morte di Raffaello a Roma e dalla sua sepoltura nel Pantheon proseguendo fino ai primi passi nel mondo dell’arte del giovane, prima nella casa natale, poi nella bottega di Pietro Vannucci detto il Perugino.

Il 6 aprile 1520 quando il genio Urbinate muore dopo otto giorni di febbre “continua e acuta”; nello stesso giorno in cui nacque, Raffaello Sanzio lascia un vuoto che echeggia in tutte le corti italiane. Un compianto a cui si uniscono umanisti, committenti ed antiquari; l’artefice rapito al mondo nel fiore degli anni tra lo sconcerto generale per un evento così inatteso, a tre giorni dalla Pasqua di Resurrezione.

Il giorno successivo alla sua morte, Raffaello viene tumulato al Pantheon; come da lui auspicato, accanto alla sua tomba, viene posta una lapide in memoria della sua promessa sposa, Maria Dovizi da Bibbiena, anch’essa morta prematuramente.
La perdita del sommo artista è citata dal Letterato veneto Marcantonio Micheli (Venezia, 1484 – Venezia, 9 maggio 1552) nel suo diario; una mancanza avvertita anche nell’interrompersi di un importante progetto, la ricostruzione scientifica della pianta di Roma antica realizzata partendo dal rilievo delle rovine visibili che avrebbe successivamente riscattato dall’oblio la grandezza della capitale dei Cesari.

Una ricostruzione grafica già citata nella Lettera a Leone X scritta nel 1519 a quattro mani da Raffaello Sanzio e Baldassarre Castiglione; uno scritto rimasto anch’esso incompiuto, ma giunto ad oggi in diverse redazioni. Una testimonianza cruciale del pensiero dell’Urbinate; una confessione che si può considerare un avvio della moderna concezione di tutela e conservazione dei monumenti. Questa, suddivisa in tre parti ideali, premeva sulla necessità di non distruggere le opere, ma preservarle e studiarle; una seconda parte era dedicata ad una panoramica della storia dell’architettura e alle diverse modalità di edificare; a chiusura della missiva, l’importanza del rilievo grafico dei resti monumentali di Roma

Un artista morto all’apice della sua fama; eletto da ben due pontefici, papa Giulio II e papa Leone X, degno di fiducia tanto da ricevere i compiti più significativi nella corte pontificia. Una storia fatta da personalità di spicco in gara nel contendersi il pittore di Urbino, per commissionargli dipinti.
Ed è proprio grazie al papa che Raffaello giunge a Roma stazionandovi dal 1509 al 1520; qui l’artista esprime tutto il suo talento raggiungendo l’apice del successo. Dopo un periodo a Firenze, l’Urbinate approda alla Capitale su chiamata di Giuliano della Rovere, papa Giulio II, che ambizioso mecenate della modernità, vuole raccogliere a sé i migliori artisti del tempo nomi tra i quali troneggiano Michelangelo e Bramante. Un momento di fermento artistico grazie al quale, tra scoperte archeologiche, decorazione della Cappella Sistina e lavori per la nuova Basilica di San Pietro, Roma riesce a strappare a Firenze il testimone della supremazia artistica. Una fucina di cui Raffaello diviene l’indiscusso protagonista; un’effervescenza culturale che vede l’urbinate lavorare per committenti privati, pur proseguendo sia le ricerche iconografiche sul tema della Madonna con Bambino, che le attività in Vaticano. Un lavoro quest’ultimo che impegna Raffaello fino alla morte, passando di commissione in commissione, di papa in papa; alla morte di Giulio II è infatti Leone X a commissionare all’artista gli affreschi che illustrano famosi episodi di precedenti papi con il nome di Leone.

Leone X, secondogenito di Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico, è un papa colto ed amante delle arti; gli anni del suo pontificato sono per Raffaello la santificazione a più grande artista vivente. Capace di operare in tutti i generi, l’Urbinate è impegnato dalla pittura sacra alla decorazione profana, dai cicli pittorici di portata monumentale ai piccoli dipinti realizzati per collezioni privati. Una frenesia che porta l’artista di Urbino a circondarsi di giovani allievi e collaboratori; le sue opere iniziano così a diffondersi in Italia, spingendosi sino ad oltre confine.

Raffaello è a Siena quando gli giungono gli echi delle straordinarie novità artistiche di Leonardo e Michelangelo. Ed è Firenze la terra che il giovane Raffaello sceglie per approfondire la sua tecnica artistica lasciando così la terra marchigiana; a suggellare questo evento la Dama col liocorno (1504 – 1505), ritratto di cui rimangono ignote identità e committenza rappresentante una promessa sposa individuabile dalla presenza del cagnolino che tiene in grembo, ed il Sogno del cavaliere (1504) rappresentante il semidio al bivio tra vizio e virtù.

Quella in cui sbarca Raffaello è una Firenze in forte fibrillazione artistica (autunno 1504); Leonardo, Michelangelo, una città che pullula di artisti di talento; ma non solo: qui il Pittore di Urbino può approfondire lo studio dei maestri del Quattrocento (Donatello, Masaccio). Ed è proprio in questo clima che l’urbinate inizia ad allontanarsi dai modelli del Perugino avvicinandosi ad una monumentalità fusa con la naturalezza propria degli stilemi vinciani
Tra i capolavori del periodo fiorentino spicca sicuramente La Deposizione (1507), opera commissionata da Atalanta Baglioni: una composizione che attinge fortemente dallo studio dei sarcofagi antichi, realizzata per commemorare i fatti di sangue che avevano portato alla morte Grifonetto, figlio di Atalanta, e destinata alla chiesa di San Francesco al Prato di Perugia.
Lo Studio di una mano e di un volto tracciati a stilo nera (1497 – 1499) rappresentano la prima opera di Raffaello Sanzio; un primo passo nel mondo dell’arte di quello che sin da adolescente promette di essere un genio. Unico figlio di Giovanni Santi, pittore, e di Maria Battista di Nicola Ciarla, Raffaello nasce in una Urbino che irradia oltre confine gli ideali del Rinascimento. Ed è per mezzo del padre e dei suoi contatti con Palazzo Ducale di Urbino che il giovane ha modo di studiare le opere di Piero della Francesca, Antonio Pollaiolo e molti altri. Nella bottega paterna Raffaello apprende le prime nozioni dell’arte: sminuzza pigmenti, compone i colori, realizza quelle che forse sono le sue prime opere, proprio all’interno della casa natale.

L’Urbinate ha solo 11 anni quando perde il padre; troppo presto per andare a bottega; ma questo non ferma la sua determinazione. Si propone, infatti, a Pietro Vannucci detto Perugino, il quale lo accoglie nella sua bottega ben contento di avere un nuovo apprendista. Ma il giovane Raffaello si dimostra presto ben al di sopra del Maestro; è il 1504 quando, dopo ormai tre anni nella bottega del Perugino, all’urbinate viene commissionato l’incarico di dipingere lo Sposalizio della Vergine per la chiesa di San Francesco a Città di Castello. Un’opera ispirata alla analoga pala realizzata dal Perugino per il Duomo di Perugia; un affronto per il Maestro che deve però riconoscere l’abilità del giovane allievo. Un trionfo di morbidezze in cui le figure si muovono con naturalezza nello spazio, rompendo gli allineamenti, giocando con forme concave e convesse. Solo una delle prime prove artistiche di quello che sarà nei secoli un genio del Rinascimento.

M.P.F.