lunedì 27 aprile 2015

Gonzaga

GONZAGA

I volti della storia
Mostra genealogico-iconografica


Il ritratto rappresenta l’inizio di ogni forma d’arte, così vogliono le antiche leggende sulla sua origine. Plinio il Vecchio, nel XXXV libro della sua Naturalis istoria, terminata nel’ 77 d.C., attribuisce alla forza dell’amore la nascita del primo ritratto (la leggenda narra del vasaio Boutade che diede consistenza plastica con un ritratto al giovane amato dalla figlia). La leggenda rivela, in primo luogo che l’amore è la causa di ogni imitazione e l’impulso di fare arte.


Nel suo trattato De Pictura del 1435, il teorico dell’arte Leon Battista Alberti collegava questo impulso a una motivazione di natura egocentrica: il narcisismo.
Narra il mito che Narciso si innamorò della propria immagine riflessa nelle placide acque di una fonte; secondo Alberti questa sarebbe l’origine di ogni forma di ritratto (o più precisamente, di ogni autoritratto). In secondo luogo, stando alle leggende riportate da Plinio il ritratto segna la nascita della pittura stessa, dato che l’essere umano è il soggetto più nobile dell’arte. Anche il mito di Narciso rispecchia il concetto dell’imitazione della natura, un’idea ancora oggi connessa a questo genere artistico: nei ritratti è insita una tensione tra ricerca della massima somiglianza e l’idealizzazione del soggetto con intenti rappresentativi. La ritrattistica si è attenuta fin dal XV secolo al principio secondo il quale l’arte deve imitare la natura.

Dunque lo scopo del ritratto è sempre stato ottenere un’affinità o una somiglianza perfetta tra dipinto e soggetto, come quella che Narciso aveva visto nella sua immagine riflessa.
Ponendo a confronto archetipo e immagine, risulta che a livello artistico l’identità visiva fra l’essere umano e la sua figurazione può venire solo perfezionata, ma mai essere realmente compiuta. L’impulso che sprona alla realizzazione dei ritratti è l’anelito narcisistico a voler “possedere” la propria immagine. Non sorprende dunque il desiderio di dimostrare l’unicità di ogni essere attraverso il suo ritratto quasi come fosse una carta di identità.

Il Museo Diocesano Francesco Gonzaga di Mantova presenta una mostra nell’anno di Expo dal titolo “Gonzaga. I volti della storia”. Mostra genealogico-iconografica, a cura di Giancarlo Malacarne (catalogo Il Bulino), fino al 20 settembre 2015.
L’esposizione rivisita il fasto della famiglia dominante su Mantova e la grande stagione artistica che la vide protagonista; attraverso ritratti, oggetti e mappe genealogiche si analizza l’essenza profonda di un’ampia dimensione di aristocrazia, nobiltà, sacralità, le cui radici affondano in un passato lontano ma non perduto.


<< Il procacciarsi il ritratto proprio ha naturalmente
seco congiunto certo desiderio di propria eccellenza,
ch’arguire non poca debolezza di mente, la quale
tanto più apparisce considerandosi che quel tale
non ha potuto stare meno di due o tre ore oziosamente
in lasciarsi rimirare dal pittore, per fare ritrarre
quella figura di corpo, che in poco spazio di tempo
s’ha da risolvere in polvere per la morte>>
(Card. Gabriele Paleotti, Discorso intorno alle immagini
Sacre e profane, 1582)


Allo straordinario patrimonio già giacente e rappresentato nelle collezioni dei musei mantovani, si è da poco tempo aggiunta la serie completa dei Gonzaga dominanti a Mantova: una raccolta pittorica unica al mondo, estremamente suggestiva e di grande valore artistico e documentario. Si tratta di un complesso di venti tele che propongono i 18 capitani, marchesi e duchi di Mantova, oltre a Carlo di Rethel e a un elemento celebrativo dell’intera dinastia.

La serie di opere d’arte presentate nel contesto della mostra si avvale di un nutrito numero di dipinti, oltre 50, anche di notevoli dimensioni, tutti di buon livello artistico quando non eccezionale, i quali hanno il pregio della novità, non essendo conosciuti dagli studiosi e dal grande pubblico.
 Si possono citare alcuni ritratti di interesse artistico e storico come quello di Matilde d’Este. La nobildonna è acconciata e abbigliata alla francese: pizzi e rouges completano l’abito impreziosito dalla gemma che chiude la scollatura e dalla stola in raso turchino che cinge le spalle. I capelli sono raccolti in una cuffietta in pizzo e l’acconciatura è chiusa a fermaglio da testa.
Il busto è rivolto verso sinistra, ma la torsione del collo permette allo sguardo della contessa, velato da un sentimento di tristezza, di essere diretto verso l’osservatore.
Matilde d’Este, moglie di Camillo II Gonzaga di Novellara, fu sempre legata alla nefanda e tragica “acquetta” che la vide sinistra protagonista.
Oltre ai dipinti sono esposte alcune mappe genealogiche di eccezionale bellezza e valore documentario, che rimandano a una ricerca effettuata in epoca lontana sulle origini di una grande famiglia, sulle sue diramazioni, sugli imparentamenti, sapienti e finalizzati al mantenimento del potere in tempi oscuri e saturi di pericoli.

Un coaecervo di dati che, al di là della funzione strettamente documentaria presentano espressioni artistiche di straordinario rilievo, come ad esempio, la pergamena dedicata a Vespasiano Gonzaga del ramo cadetto di Sabbioneta, realizzata intorno agli anni’ 50 del Cinquecento, con numerosi tondi fondo oro.


Inoltre medaglie in oro, argento e bronzo pertinenti diversi personaggi di Casa Gonzaga, riconducibili ad artisti di conclamata importanza, quali Pisanello, Sperandio, Mola ed altri. Una serie nota nei contenuti ma sempre di grande impatto emotivo, volta a sostenere l’impianto globale della mostra che si articola intorno ai volti dei dominanti: i volti della storia.

Tra questi la medaglia in bronzo di Gian Cristoforo Romano che rappresenta Isabella d’Este (1474-1539), moglie di Francesco II Gonzaga. La figura della duchessa è a semibusto a destra con i capelli raccolti dietro la nuca e cadenti in due ciocche; una collana di perle al collo. La scritta BENEMERENTIUM ERGO (a causa dei benemeriti). Vittoria alata stante a sinistra con un bastone nella mano e spighe di grano nella mano sinistra; di fronte a lei a sinistra la rappresentazione del Saggitario e una stella. Isabella d’Este nacque a Ferrara il 17 maggio 1474, primogenita del duca Ercole I d’ Este e di Eleonora d’Aragona. Il suo matrimonio nel 1490 con il marchese di Mantova Francesco Gonzaga rinnovò una antica alleanza tra Ferrara e Mantova. Qui Isabella monopolizzò per i successivi trenta anni le scelte culturali e artistiche raccogliendo attorno a sé una schiera di artisti e letterati facendo della corte mantovana uno dei centri di irradiazione della cultura rinascimentale.

L’estense si spense a Mantova il 13 febbraio 1539 lasciando una delle più mirabili collezioni di pezzi artistici, raccolti ossessivamente per un cinquantennio nello Studiolo di Corte Vecchia del Palazzo Ducale a Mantova, che ancora oggi porta il suo nome.

Maria Paola Forlani




venerdì 24 aprile 2015

CINEMA e LETTERATURA

CINEMA E LETTERATURA: INCONTRI E SCONTRI

Quando la settima arte cominciò a muovere i primi passi letteratura e teatro erano immediata fonte di ispirazione, ma ben presto ci si rese conto dell'impossibilità di far coincidere due diverse forme di linguaggio: il prodotto visivo non potrà mai sostituire il testo scritto


"Questo era il mio scopo: realizzare l'equivalente di una lettura, lasciare allo spettatore altrettanta libertà e immaginazione di quanta ne ha un lettore di romanzi. Che intorno all'immagine, dietro l'immagine e perfino all'interno dell'immagine egli possa lasciar andare la sua immaginazione, pur subendo la fascinazione dello schermo". Così scriveva uno dei padri della "Nouvelle Vague" Alain Resnais  a commento del suo ormai classico "Hiroshima mon amour".  Ai tempi di Resnais, cioè tra gli anni Cinquanta e i primi Sessanta, era preponderante una letteratura che prese il nome di "Ecole du regard" e che era il frutto delle ricerche critiche di Alain Robbe-Grillet.  In termini semplici: si cercava di far coincidere il cinema con la letteratura. Il cinema, cioè, doveva essere pensato come una pagina visiva in perfetta consequenzialità con la struttura narrativa della pagina scritta. E questa, la pagina scritta, doveva avere la capacità di evocare l'immagine schermica. Non fu un esperimento completamente riuscito, anche se Resnais, da fine autore com'era, compose le sue scritture cinematografiche con estrema finezza anche se con un forte ed esasperato estetismo. Già dai primi passi della settima arte, la letteratura ed il teatro erano immediata fonte di ispirazione, anche perché la ricerca teorica e la prassi estetica non avevano ancora pienamente intuito l'autonomia poetica del film. Quando un grande regista come Ejzenstejn provò "sul campo" l'efficacia del montaggio, il film si organizzò secondo  forme narrative tipicamente cinematografiche. Negli stessi anni, un altro grande come Pudovkin, in polemica con il confatello russo, cercò di dimostrare che l'inquadratura, soprattutto nel primo e primissimo piano, esprimeva ciò che nessuna pagina scritta poteva evidentemente mostrare. Avevano ragione entrambi, anche se in quel contesto avevano estremizzato le loro tesi. Eppure, tra cinema e letteratura gli steccati divisori non potevano essere alzati. Esemplifico. Quando Luchino Visconti, che era anche un bravissimo regista teatrale, tentò con "Ossessione" la trasposizione filmica de "Il postino suona sempre due volte" dal romanzo, a dire il vero dozzinale, di James Cain, riuscì, isolando la trama del romanzo dal contesto americano, a costruire una sorta di neorealistica vicenda padana tra gli argini del Po. Lo stesso Visconti con "La terra trema", sconcertante e lucido appello ad un verismo di forte matrice classica, rese l'atmosfera de "I Malavoglia" di Giovanni Verga" in modo quasi speculare. Non fu, chiaramente, una riproduzione, ma un'interpretazione del verismo verghiano come base per un rinnovato realismo.  Non fu, però, un' illustrazione. Mi spiego: l'ilustrazione (come di prassi in film pacchiani ispirati alla Bibbia che  innonderanno schermi e teleschermi) quando è intesa in pura funzione della pagina scritta, perde ogni forza ed energia cinematografica. Visconti rifece a modo suo "I Malavoglia" e, come nel caso dello splendido "Il gattopardo", ispirato al romanzo di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, ricostruì un mondo, un'epoca e un'atmosfera che solo il linguaggio cinematografico poteva efficacemente ricreare. Volle, intelligentemente, che si parlasse di "liberamente ispirato a…" piuttosto che "tratto da…". Non è solo formalismo terminologico. Certo, quando la collaborazione tra regista e romanziere era ed è tuttora stretta, la sceneggiatura diventa letteraria. Alcuni romanzi sembrano impenetrabili ad ogni "transcodificazione". Il parolone va spiegato, anche se è di una semplicità estrema: si tratta di un passaggio da un codice (romanzo o opera teatrale) ad un altro (il linguaggio cinematografico). Credo che non sia mai possibile una vera transcodificazione; se ciò non fosse, si potrebbe parlare, ed è il caso di alcuni film intenzionalmente religiosi, di Bibbia "transcodificata"; che è, appunto, un assurdo. Roberto Rossellini aveva avvertito  tale impossibilità quando, nella sua ultima esperienza televisiva, fu protagonista di una felice stagione di  modalità interpretative che non sostituisse il testo scritto. Il regista pensava ad un "rimando" costante al testo scritto, come nel caso de "Il Messia" e de "Gli Atti degli apostoli". Per ottenere l'effetto di uno stimolo alla lettura, schematizzò l'interpretazione dei personaggi pur nell'estrema fedeltà storica ed archeologica alle situazioni bibliche. Schematizzare, per Rossellini, significava non far recitare in modo mimetico, cioè di perfetta identificazione psicologica con i personaggi del testo scritto, diversamente dal modello della scuola di recitazione dell' Actor Studio statunitense. Tale scuola prevedeva un rivissuto esistenziale di ogni piega psicofisica del personaggio. Si pensi, ad esempio, alla recitazione di Marlon Brando in "Fronte del Porto" o di Robert De Niro in "Toro scatenato", tratto dal libro autobiografico del pugile Jack la Motta. Evidentemente, non si trattava di sottovalutare tale eccezionale officina interpretativa, perfettamente funzionale in certo cinema a forti connotati realistici, ma ipotizzare una "distanza" dall'evento Rossellini che, nel caso di audiovisivi ispirati alla Bibbia, suscitasse durante e dopo la visione la lettura del testo che aveva ispirato il film o lo sceneggiato.  In altri termini, la tesi era questa: non si deve creare l'effetto del "dare tutto" sullo schermo o sul video. Il prodotto visivo, dunque, non deve sostituire il testo scritto Richiamare Rossellini non è accedere a nostalgie archeologizzanti. Purtroppo, anche molti cattolici sistematicamente disattendono la serietà di questa tradizone, spesso mossi da un'infelice presupposto: che, vista l'efficacia dell'immagine, la funzione d'immediatezza basti a se stessa. Credo che tale infelice disposizione d'animo, frutto di carenza teologica e di una concezione meschina dello spettatore, abbia alla radice la convinzione che il prodotto di facile consumo sia un dato ormai irreversibile. Purtroppo, una delle ragioni portate è quella della competitività. Quasi a dire: se va quel prodotto, perché fare gli estetizzanti? Un serio recupero dei più significativi colloqui tra letteratura e cinema, mostrerebbe la povertà di tale angusta prospettiva. Quando, ad esempio, si volessero rispolverare certe intelligenti ispirazioni televisive ai grandi della letteratura russa, ci si accorgerebbe che proprio nel periodo della loro realizzazione anche le famiglie meno scolarizzate acquistarono i vecchi classici della BUR. Certo, se la nostalgia porta alla malinconia dell'immobilità, l'euforia dell'effimero uccide l'entusiasmo per la lettura.


4-11-2001             Franco Patruno  

mercoledì 22 aprile 2015

Barocco a Roma

Barocco a Roma
La meraviglia delle arti



Il Barocco è la continuazione logica del manierismo, che ne è la premessa.
Se questo esprime la crisi della società rinascimentale, l’angoscia del dubbio, l’urto fra la Riforma protestante e la Controriforma cattolica, il barocco è l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, sia quello papale a Roma, sia quello monarchico in Francia o in Spagna; ma è anche l’arte dell’introspezione psicologica dell’uomo, l’espressione del suo dramma. Il barocco è un fenomeno europeo, diffuso, in seguito all’evangelizzazione delle colonie, nell’America latina, differenziato a seconda delle realtà sociali e culturali delle varie nazioni, ed è un fenomeno soprattutto cattolico. Perciò la sua origine è essenzialmente italiana e il suo centro maggiore è Roma, da dove si irradia nel resto d’Italia e in tutta Europa.

La mostra <<Barocco a Roma. La meraviglia delle arti>>, a cura di Maria Grazia Bernardini e Marco Bussagli, aperta fino al 26 luglio 2015 presso la Fondazione Roma Museo-Palazzo Cipolla, si snoda lungo un affascinante percorso visivo composto da quasi duecento opere d’arte che presentano un’esaustiva panoramica sul linguaggio estetico prodotto durante i pontificati di Urbano VIII Barberini (1623 – 1644). Innocenzo X Pamphili (1644 – 1655) e Alessandro VII Chigi (1655 – 1677). Gli artisti, di quell’epoca straordinaria, sono tutti rappresentati, protagonisti acclamati di quella furia artistica che, dopo il Rinascimento, manifestava per immagini le profonde inquietudini dell’uomo nuovo, espresso in un allestimento che vuole esso stesso evocare le iperboli architettoniche di Francesco Borromini.

Con i pontefici mecenati,con cui inizia il suggestivo percorso espositivo, sono, anche, le loro famiglie, un’aristocrazia che compete con gli ordini religiosi, i Gesuiti in prima fila, per contribuire alla vertiginosa crescita della città con una nuova facies barocca: nelle architetture monumentali, sacre e non, come nella decorazione degli interni, con l’esuberanza mai così prima di allora nelle sale affrescate: nella creazione di quadrerie dove centinaia di dipinti affollano ogni ambiente della dimora, da pavimento a soffitto, fino al più piccolo oggetto, una placchetta in bronzo dorato o una medaglia d’argento. Quest’ultima, seppur piccola, con un ruolo importante per veicolare e diffondere il messaggio di potere, magnificenza e sovranità di cui la Caput Mundi si sente investita, per il tramite delle sue figure guida.
 Innanzitutto il papa.

Tanto basti ad esplicitare la valenza anche politica, nel senso del potere e supremazia, che sottende il nuovo assetto urbanistico e architettonico nei decenni centrali del Seicento a Roma. Disegni, documenti, stampe, modellini in legno o terracotta danno l’idea dell’enorme cantiere, mentre i dipinti con vedute e scene di festa fanno rivivere l’entusiasmo e gli aspetti più giocosi e insieme trionfali della Città Eterna in Età Barocca. Insieme ai committenti, i protagonisti dell’ondata di novità che coinvolge tutte le arti sono gli architetti, i pittori e gli scultori che nelle sale della Fondazione Roma, sfilano con opere magistrali.
A cominciare dalla Santa Margherita di Annibale Carracci, accanto a opere degli altri bolognesi, tra i principali rinnovatori del linguaggio dal manierismo alla nuova parlata capace di coniugare naturalismo e classicismo: Giovanni Lanfranco, Guido Reni, il Guercino e il Domenichino.

A entusiasmare il visitatore, lungo il cammino di tanta ‘bellezza’, basterebbe la tela con Atlante e Ippomene  in trasferta da Capodimonte, capolavoro del
 “ divino” Guido, per dirla col Malvasia. La scena rappresentata è tratta dal mito greco, secondo il quale Atalanta, nemica delle nozze, sfidava a una gara di corsa, nella quale era imbattibile, i vari pretendenti, sconfiggendoli e uccidendoli; ma Ippòmene, lasciando cadere tre mele d’oro dategli da Afrodite, dea dell’amore, e inducendo perciò Atalanta a indugiare per raccogliere, riuscì a giungere primo e a sposarla. Splendida la bellezza dei due corpi nudi, perfettamente torniti, e la rispondenza delle forme secondo linee diagonali.

Ma poi, oltre agli emiliani, i “forestieri” offrono il loro contributo per la variopinta declinazione della pittura barocca: il fiammingo Pietro Paolo Rubens con il San Sebastiano della Galleria Nazionale d’Arte Antica di Palazzo Corsini, e lo stesso santo nella celebre tela di Simon Vouet della collezione Gianluigi Condorelli.
Dalla Francia anche Nicolas Poussin, Claude Lorrain e Jean Lemiare, per la pittura, e François Duquesnoy, per la scultura. Campo, quest’ultimo, dove trionfa sempre il genio di Gian Lorenzo Bernini, accanto al più composto e “classico” Alessandro Algardi. Del Bernini disegni, bozzetti in terracotta e marmi mostrano la sua
effervescenza creativa negli anni di Urbano VIII Barberini (1623 – 1644); gli stessi in cui emerge, in pittura, la figura leader di Pietro da Cortona, che per il Barberini affrescherà il soffitto del suo palazzo nell’impresa magistrale condotta tra il 1633
 e il 1639. Nel percorso sono anche presenti capolavori d’arredo: specchi, mobili, orologi strumenti musicali – tra cui spicca l’arpa Barberini.


In mostra anche i “cortoneschi” Ciro Ferri, Giovanni Francesco Romanelli, Giacinto Gimignani, Guglielmo Cortese detto il Borgognone e Lazzaro Baldi, che interpretano all’infinito il volto pittorico di un superbo barocco maturo.


Protagonista dopo la svolta della metà del secolo è però il genovese Giovanni Battista Gaulli, detto il Baciccio, raffinato pittore da cavalletto per l’aristocrazia e abile frescante per i Gesuiti. Tra gli ultimi palpiti di un’arte che sgorga dall’anima e si accende nei colori e nelle forme, il Gaulli chiude in bellezza, insieme a Carlo Maratta, la gloriosa stagione del trionfo barocco a Roma.


“Che importa a me veder dipinta in occhio/
col Calice la Fede, e colle chiavi/
cui’l  popol piega l’umil suo ginocchi?”
(B. Menzioni, Satire, Amsterdam 1718, X)


Maria Paola Forlani



lunedì 20 aprile 2015

Nel segno dei Medici

Nel Segno dei Medici
Tesori sacri della devozione granducale

“La bellezza e il colore delle immagini
sono stimolo per la mia preghiera.
È una festa per i miei occhi così come lo
spettacolo della campagna sprona il
mio cuore a rendere gloria a Dio”
(De Sacri immaginibus orationes)

Si è aperta nel Museo delle Cappelle Medicee, fino al 3 novembre 2015, la mostra
Nel segno dei Medici. Tesori sacri della devozione granducale (catalogo Sillabe), a cura di Monica Bietti, Riccardo Pennaioli ed Elisabetta Nardinocchi.
L’evento vuole essere una riflessione e un approfondimento su un tema caro alla famiglia granducale: i doni a carattere sacro, preziosissimi e magnifici che i Medici offrirono ai santuari della Toscana, ma anche ben oltre lo Stato che la famiglia governava, arrivando fino a Loreto, in Terra Santa, e a Goa in India. Doni di varia natura e tipologia, corone votive, fornimenti per altari, calici, ostensori, reliquiari, paliotti etc., che allora come oggi si leggono nella duplice forma di testimonianza del culto dei granduchi e delle granduchesse legati per varie ragioni ai santuari beneficiati dalle sontuose suppellettili sacre, ma anche di ricchezza, di cultura e di gusto, testimonianza indubbia del loro potere economico e politico, o meglio come “veicolo dell’articolato sistema di sacralizzazione del potere”.
L’esposizione dei magnifici oggetti è ordinata secondo il loro legame con i vari personaggi della famiglia Medici che effettuarono le donazioni. Questi doni si prestano ad una duplice lettura: sia come attestazione della devozione dei granduchi e delle granduchesse, sia come manifestazione di ricchezza, di cultura e di gusto, testimonianza indubbia del potere economico e politico al governo. È evidente infatti che offerte di questo pregio superlativo – e di costo esorbitante, in proporzione – trascendevano l’ambito di una devozione privata e personale, e si presentavano come omaggi “ di Stato” al superiore potere della Divinità.
Gli oggetti in mostra, tutti di qualità altissima, trovano con la Cappella dei Principi, dove sono ambientati, un dialogo stretto ed esplicito che valorizza gli uni e l’altra con rimandi, rapporti e richiami palesi, in un tutt’uno davvero unico al mondo.
La mostra si apre con un dipinto di anonimo raffigurante il momento, il 5 marzo 1570, in cui Cosimo I de’Medici ricevette l’investitura a granduca da papa Pio V (1566 – 1572). Il titolo granducale era nuovo rispetto a quelli fino ad allora assegnati da papi o imperatori, cosicché anche la corona, che non poteva esemplarsi su modelli esistenti, dovette essere creata ex novo; la vediamo rappresentata in questo dipinto oltre che nel proclama originale conservato presso l’Archivio di Stato di Firenze. La medesima corona del Granduca fu poi presa a modello per incoronare le sacre immagini mariane dei maggiori santuari della Toscana, a testimonianza della sacralità assunta come forma ufficiale di propaganda e affermazione politica. Ne sono manifestazione evidente in mostra le due corone realizzate per la cosiddetta
Madonna delle lacrime della Santissima Annunziata di Arezzo.
Nell’ambito del Giubilieo 1600, Ferdinando I Medici rinnovò con un prezioso donativo il legame tra il casato e le chiese del territorio, inaugurando una tendenza
che segnò l’intero secolo, in un continuo crescendo. L’8 settembre (festa dell’Annunciazione) il granduca consegnò alla Basilica servita un prezioso paliotto d’argento opera dell’orafo cortonese Egidio Leggi, come ex voto in segno di gratitudine per la guarigione del figlio Cosimo da una grande infermità, considerata
una grazia della Madonna più venerata di Firenze.
Ancora più importante è la figura di Cristina di Lorena, moglie di Ferdinando I
 dal 1589. A lei si devono importanti donativi per i santuari della toscana, fra i quali quelli per la Madonna al Sasso e per Santa Maria della Fontenuova a Monsummano.
Con il granduca Cosimo II e la consorte Maria Maddalena d’Austria, si intensificarono le commissioni di grandiose opere di oreficeria sacra. Tra i capolavori promossi dalla coppia granducale spicca lo straordinario ex voto con l’effige in pietre dure di Cosimo II. Su iniziativa di Maria Maddalena la cappella dell’ex appartamento di Ferdinando I de’Medici in Palazzo Pitti divenne un sontuoso sacello domestico:
la Cappella delle reliquie, dove trovò stabile sistemazione la ricca collezione di oltre seicento reliquie, entro custodie eseguite in materiali preziosi, come il Reliquiario di san Guglielmo duca di Aquitania  e quello di una delle Compagne di sant’Orsola,
 eseguiti nel 1619 per Cosimo II che li offrì in dono alla moglie.
Vittoria della Rovere ereditò dalle granduchesse Cristina di Lorena e Maria Maddalena d’Austria la Cappella delle reliquie di Palazzo Pitti con il suo tesoro di sacri resti e di reliquiari. Animata da una fervida fede, contribuì in maniera determinante alla crescita di questo insieme, arricchendolo di reliquie provenienti spesso dalle catacombe romane.
Il granduca Cosimo III rivestì un ruolo di assoluta centralità nella storia della devozione medicea. Le cronache del tempo informano delle sue numerose donazioni ai molti luoghi di culto, così come della sua ossessiva ricerca e raccolta di reliquie di santi. Il suo regno fu segnato dalla commissione di un rilevante numero di custodie destinate alla sua Camera in Palazzo Pitti, ma anche da portare addosso alla persona sotto forma di raffinati medaglioni, così da trarre beneficio dai poteri terapeutici che la devozione del tempo attribuiva ai sacri resti.
Si deve a Cosimo III il rinnovamento dell’ambiente artistico di corte. Fu infatti il Granduca a fondare, nel 1673, l’Accademia fiorentina a Roma con sede a palazzo Madama, permettendo agli artisti fiorentini di aggiornarsi sul gusto barocco.

Vi si formarono vari illustri artefici destinati a dominare la scena cittadina tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, primi tra tutti Giovan Battista Foggini e Massimiliano Soldani Benzi, importando le novità di origine romana nel linguaggio fiorentino delle arti espresso in tutte le sue forme.
Nel Reliquiario di san Casimiro del Soldani Benzi si avverte la rottura rispetto alla tradizione precedente per il complesso dinamismo dell’opera: un vero trionfo di fiori, nastri e figure a tutto tondo in libertà, che raggiunge effetti di straordinaria efficacia. La suggestione teatrale di chiara impronta barocca è evidente anche nelle opere di Giovan Battista Foggini, caratterizzate dall’impiego di pietre dure con effetti cromatici sorprendenti.
 Il Reliquiario di san Sigismondo si pone al vertice di tale percorso: attorno alla pur carismatica presenza della reliquia, l’apparato narrativo e ornamentale diviene sempre più coinvolgente e scenografico.


Maria Paola Forlani