Con l’ostensione della
Santa Sindone dal 19 aprile al 24 giugno a Torino, come non ricordare uno dei
film più coraggiosi di Pupi Avati “I Cavalieri che fecero l’impresa” (2001),
dove cinque ragazzi che nulla hanno in
comune si mettono alla ricerca della Sacra reliquia
Riproponiamo la bella recensione di Franco Patruno dall' Osservatore Romano del 19 aprile 2001
Riproponiamo la bella recensione di Franco Patruno dall' Osservatore Romano del 19 aprile 2001
IL RITMO INCALZANTE
DELL'INTRECCIO ESALTA IL DINAMISMO DELLA GRAZIA
"I Cavalieri che
fecero l'impresa": il film di Pupi Avati ambientato nel Medioevo
La lingua inglese
distingue accuratamente la storia
raccontata dalla storia vera e propria: story
e history. Il primo termine può
includere ogni modalità letteraria, teatrale o cinematografica che, pur
partendo da un fatto o un avvenimento documentato, ne amplifica i contorni
attraverso ogni possibile genere linguistico. Non è detto che i due termini
siano alternativi, perché all'interno di una narrazione a carattere simbolico o
desunto da antiche leggende, può essere individuato l'evento effettivamente
avvenuto. Nelle opere a forte intenzionalità poetica, quella che ho chiamato amplificazione può essere non solo una
modalità accattivante o una cornice decorativa, ma una necessità dell'autore per riesprimere, attraverso una personale
visione del periodo storico, il proprio mondo poetico. "I cavalieri che
fecero l'impresa" di Pupi Avati sceglie, dopo l'anticipo di
"Magnificat", il Medioevo come orizzonte di senso. In che modo? Il
Romanticismo ci ha consegnato un quadro ideale di questo amplissimo periodo, un
quadro che sfocerà nell'olegrafia e che non potrà riscattare le demonizzazioni
che dal Seicento in poi ne avevano deformato quasi totalmente sia la realtà
storica che la splendida cultura nata
nel suo seno. Avati compie una scelta apparentemente paradossale: recuperare i
generi cinematografici che lo avevano affascinato sin dall'infanzia, soprattutto
americani, con l'urgenza di interiorizzare persone e situazioni oltre gli
stereotipi, affascinanti sicuramente, che, tipicizzando il personaggio, ne
nascondevano costantemente i tratti personali.
Se Bergman, per portare un esempio che non è retorico definire sommo,
rielabora il "suo" medioevo seguendo le istanze esistenziali, i
dubbi, le incertezze e le grandi domande metafisiche sul possibile silenzio di
Dio, Avati è invece attento alla
singolarità feriale dei personaggi. Se ama inserirli come tali, cioè
personaggi, sa valutarne gli aspetti più legati alla cronaca individuale, non
temendo di renderli crepuscolari, una volta liberato il termine da quei tratti
di intimismo senza nerbo che purtroppo ancora lo penalizza negli anfratti
dell'odierno linguaggio pseudoculturale. "I Cavalieri che fecero
l'impresa" si inserisce nella grande tradizione della "Cerca"
che, lo ricordo, ha specifiche connotazioni cristologiche. Infatti il film
narra dei cavalieri che, di ritorno dalla settima crociata, decidono di
compiere l'impresa: recuperare la Sacra Sindone. Mi
sembra che Pupi abbia fatto una scelta specifica e coraggiosa, quasi una
personale impresa cinematografica,
inconsueta nel panorama del cinema italiano: costruire e seguire l'azione come configuratrice del senso
sia della narrazione che di ogni singolo intreccio che la definisce e, per
consequenzialità di ritmo, la porta a compimento . In questo senso, ripeto, è
un'impresa ardua e non scontata
neppure seguendo i canoni della sceneggiatura "di ferro", come un
tempo si diceva. L'azione nel film è non solo tesa ma protesa, cioè scandita da una velocità che muove verso un punto o
un centro che è oltre il tessuto delle singole esistenze. In altre parole:
l'ansia verso la riuscita (che i narratologi chiamano "sbocco" e che
muove le singole volontà) è trascendente, anche se concretizzata in una sacra
immagine o, per dirla con Avati e con non pochi sindonologi, una reliquia,
un'impronta vera e propria delle spoglie mortali di Gesù. Non è la stupita ed
adorante preghiera davanti al sacro drappo il punto qualificante di tale
trascendenza. Avati è attento a far si che sia la Cerca stessa a proiettare insospettate luci di redenzione
negli spazi più oscuri, spesso orridi e terrificanti, che incontra sul proprio
cammino. Se si dovesse utilizzare una terminologia vicina alla sensibilità
della letteratura cattolica francese tra le due guerre, si potrebbe dire che
"tutto è Grazia", dalle parole del curato di Bernanos. Tutto è
Grazia: oltre, e dentro, ogni contorsione della tenebra di coscienza che può
portare allo smacco e alla disperazione. Oltre anche le turpidudini spesso
giustificate istituzionalmente. Sembra che Pupi rifletta su un inciso
comprensibile solo alla luce della Rivelazione: Dio scrive diritto su delle
righe storte. L'inquadramento medievale
dei "Cavalieri che fecero l'impresa", portando alle estreme
conseguenze i contrasti tra luce e tenebre nel tessuto degli avvenimenti
narrati (e inserendo quindi l'impresa
come movente di ogni azione), evita la platealità di un intervento trascendente
che d'improvviso scenda dall'alto. E' nell'energia della Cerca stessa il
dinamismo di grazia: lo sbocco non è solo nello stupore commosso di fronte
all'icona, o impronta, del corpo di Cristo, ma nella grazia che muove senza esitazioni
all'azione. L'elemento elettivo che domina la signoria dei cavalieri, ben oltre
ogni bozzettismo eroico di maniera, li individua nella loro singolarità e nelle
loro specifiche storie. E' molto bravo Pupi nel tenere i cinque personaggi
senza disperderl; si potrebbe dire i "quattro più uno" valutando
l'investitura di Giacomo di Altogiovanni (Raul Bova) dopo un tenebroso
passaggio di purificazione in una delle sequenze più pregnanti del film. Certo,
Pupi Avati, pur affascinato dalla dialettica dei contrasti, non può dimenticare
la tenerezza degli accenti per ogni singola coscienza, perchè questa è una nota ormai specifica del suo mondo
poetico. Se "Magnificat" è assai
più contenuto nel lasciare ampie pause per la contemplazione silenziosa dei
volti, nei "Cavalieri che fecero l'impresa" anche gli aspetti della
messa in scena, prima solo visti quasi in penombra, ora si caratterizzano per
una più ampia dilatazione spaziale; senza, però, presentarsi come dominanti,
perché è il ritmo incalzante dell'intreccio giocato sull'azione che sempre
realizza la configurazione, cioè il senso e lo scopo di un'azione non lasciata
a se stessa. Ed è per questo ritmo, splendido nella prima parte dell'opera, che
si notano alcuni punti non riusciti sul piano della consequenzialità. Ho
avvertito, nella seconda parte, una sorta di contrazione temporale che
impedisce la fluidità non più dell'intreccio, ma della narrazione vera e
propria. Se Pupi Avati è maestro nel non lasciare alcuni personaggi "in
cerca d'autore", alcune figure, come quella femminile ambientata
nell'"orto del Paradiso", non trovano sbocco significativo. E' una
regola ormai implicita nell'estetica cinematografica: quando il regista
inserisce un personaggio e lo caratterizza, si sente l'urgenza che, anche se
con pochi tratti, tale personaggio trovi
compimento. Si pensi alla figura del grande Carlo delle Piane, plausibilissima
nell'incipit della storia, è recuperata nel finale in modo insolito e, mio
avviso, non concluso. In parole povere: sembra che manchi un tratto di percorso
narrativo. E' chiaro che Delle Piane sempre domina la scena, perché occupa
immediatamente lo spazio senza invaderlo; ma è proprio questa sua splendida
capacità di calarsi in un personaggio che rende ancora più avvertiti delle
assenze della storia. Non basta a colmare questo frammento mancante un montaggio sempre serrato, tra i più
riusciti del cinema italiano. A tal punto riuscito che, ben accompagnato dalle
musiche di Riz Ortolani, fa anche
perdonare la scelta scenografica dell'incredibile cappella del ritrovamento
della Sindone: un biancore da simil medioevo che infastidisce, soprattutto dopo
le felicissime atmosfere di penombra, vicine a quelle de "L'arcano
incantatore", nelle quali si erano svolte molte azioni del film. Molto
riuscite le interpretazioni dei cinque cavalieri, calati in modo emozionato
nella parte, soprattutto nell'evidenziare la comunione nelle diversità. La
messa in scena è "tenuta" anche nelle sequenze più eclatanti e di
grande respiro. Ma, ripeto, è il ritmo dell'azione la costante esteticamente
più efficace del film, quel ritmo che esalta alcune pause non solo come
sospensione dell'ansia, ma perché già lascia intravedere il senso dell'impresa.
19-4-2001
Franco Patruno
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