Piero Della Francesca.
Il disegno tra arte e scienza.
Piero di Benedetto dei
Franceschi, comunemente detto della Francesca dal nome della famiglia (Borgo
San Sepolcro, Arezzo, 1410 – 20 ivi, 1422), è il pittore che riesce nella
sintesi delle principali esperienze fin qui compiute a Firenze, conducendone i
risultati, con rigorosa coerenza, fino alle estreme conseguenze.
Piero nato a Borgo San
Sepolcro, cittadina situata all’estremità della Toscana, al confine con
l’Emilia a nord, con le Marche ed est, con l’Umbria a sud. Da Borgo, seguendo
la valle del Tevere, è facile e naturale lo sbarco a Perugina, dove può aver
incontrato Domenico Veneziano. E con lui (forse) recatosi a Firenze per un
periodo abbastanza prolungato. Nel capoluogo toscano ha potuto meditare sulla
solenne volumetria e sulla dignità degli uomini di Masaccio, sui valori della
prospettiva lineare brunelleschiana, sulla teorizzazione che di essa aveva
compiuto l’Alberti, sull’astratta solitudine delle geometriche figure di Paolo
Uccello e, infine, sulla luce diffusa dell’Angelico.
Quando, poco dopo il ’40,
lascia Firenze per non tornarvi più, porta con sé il grande patrimonio
culturale fiorentino, quel patrimonio che, proprio nel 1439, si apriva a nuove
conoscenze per la presenza in città dei dotti greci venuti per partecipare, con
lo stesso imperatore d’Oriente, al Concilio promosso dal papa Eugenio IV.
Questo patrimonio culturale
Piero lo elabora solidariamente (lontano dalle polemiche fiorentine), giungendo
alla dimostrazione pittorica della <<verità>> nella sua duplice
applicazione visiva: la prospettiva e la proporzione.
Intorno al maestro di San
Sepolcro si è aperta una mostra a Reggio Emila, nella sede di Palazzo Magnani,
fino al 14 giugno 2015 dal titolo Piero
Della Francesca. Il disegno tra arte e scienza, a cura di Filino Camerata,
Francesco Paolo Di Teodoro e Luigi Grasselli. Il suo linguaggio espressivo che
coniuga, magicamente in equilibrio perfetto, la plasticità e la monumentalità
di Giotto e Masaccio con una straordinaria capacità di astrazione e
sospensione.
Un’essenzialità e purezza di forme che trovano fondamento nei suoi
interessi matematici e geometrici mirabilmente espressi nei trattati che ci ha
lasciato. Ed è proprio su questi
preziosi testimoni dell’opera scritto-grafica di Piero in specie sul De Prospectiva Pingendi, che prende
corpo la mostra di Palazzo Magnani, presentando la figura del grande Maestro di
San Sepolcro nella sua doppia veste di disegnatore e grande matematico. Per la
prima volta sono esposte a Palazzo Magnani – fatto straordinario da mezzo millennio – l’intero corpus grafico
e teorico di Piero della Francesca:
i sette esemplari, tra latino
e volgare del De Prospectiva Pingendi
(conservati a Bordeaux,
Londra, Milano, Parigi, Parma, Reggio Emilia) i due codici dell’Abaco (Firenze), il Libellus de quinque corporibus regularibus (Città del Vaticano) e Archimede (Firenze).
La mostra che si articola
intorno al codice del De prospectiva
pingendi conservato alla Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, uno dei più
importanti testimoni della fondamentale opera prospettica di Piero della
Francesca. Oltre a due pagine autografe, al pari di gran parte delle
correzioni, il codice contiene numerosi disegni, tutti di mano dell’artista;
circostanza, questa, che lo rende particolarmente prezioso.
Infatti, dei sette
testimoni del trattato giunti a noi (tra latini e volgari), solo quattro recano
illustrazioni di mano di Piero. Linee sottilissime che ricordano la mitica
abilità di Apelle solcano le pagine del codice per illustrare scrupolosamente
l’altrettanto puntuale descrizione testuale dei metodi del disegno prospettico.
Da qui, di fatto, inizia la grande esperienza prospettica rinascimentale e,
parallelamente, prende corpo la teoria geometrica della prospettiva che,
rendendosi pienamente autonoma dalla pittura, nei secoli successivi diventerà
oggetto della pura speculazione matematica (geometria proiettiva).
Il codice
ispirò l’opera di grandi artisti e teorici della prospettiva almeno fino a metà
del Cinquecento, quando la diffusione delle opere a stampa cominciò a oscurare
i testi noti attraverso la tradizione manoscritta, Albert Dürer
dimostra in più luoghi della sua opera trattatistica la conoscenza degli
scritti di Piero, e Daniele Barbaro compilò gran parte del suo celebre trattato
prospettico seguendo il De prospectiva
pingendi. Ancora nel tardo Cinquecento, il matematico Egnazio Danti
indicava Piero come il primo che seppe illustrare in modo impeccabile le regole
del disegno prospettico, ricordando il suo celebre trattato composto di “tre
libri scritti à mano, eccellentissimamente disegnati”. I cosiddetti “maestri
della prospettiva”, ossia gli intarsiatori, fondarono la propria arte sul
repertorio di temi e di immagini contenuto nel trattato e l’amicizia fraterna
che legava Piero ai fratelli
Lorenzo e Cristoforo Canozi da Lendinara, intarsiatori
per eccellenza, fu degna della menzione di Luca Paccioli.
Le opere presenti in mostra –
un centinaio tra dipinti, disegni, manoscritti, opere a stampa, incisioni,
sculture tarsie, maioliche e medaglie – accompagnano il visitatore in un
percorso che segue a grandi linee le tematiche affrontate nei capitoli del
De Prospectiva Pingendi.
Si inizia dai principi geometrici e si prosegue con le
figure piane, i corpi geometrici, l’architettura, la proiezione delle ombre e
l’anamorfosi.
La mostra è inoltre concepita
come uno strumento e una “macchina didattica” che consente di entrare nell’arte
e nella creatività di questo singolarissimo artista.
I disegni del trattato sono trasformati in
modelli tridimensionali per illustrare al meglio la logica delle loro
costruzioni geometriche, mentre una serie di macchine dell’Università di Modena
e Reggio Emilia riproducono scientificamente gli strumenti di bottega
dell’artista rinascimentale.
Gli inganni della visione e
gli effetti bizzarri della rappresentazione causati dalla forzatura del
rapporto tra occhio e distanza di osservazione portano Piero a terminare il
trattato con alcuni esercizi che anticipano gli sviluppi dell’anamorfosi.
In queste particolari
rappresentazioni prospettiche, l’oggetto sembra emergere dalla superficie
pittorica secondo una modalità ravvisabile, sebbene senza deformazioni, già in
alcuni dei primi capolavori prospettici, dal finto altare della Trinità di Masaccio che aggetta in
apparenza al di fuori della parete, al monumento equestre a Giovanni Acuto dipinto da Paolo Uccello
in Santa Maria del Fiore. L’obiettivo era far sembrare “Commo veri”, scrive
Piero della Francesca, manifestando la chiara volontà di ingannare l’occhio dell’osservare.
La tavola con la Flagellazione di Cristo (Urbino, Galleria Nazionale
delle Marche)
È opera che, forse meglio di
altre, può servire a chiarire la difficile arte di Piero della Francesca. La
flagellazione si svolge entro un’architettura classica, più greca che latina
perché colonne scanalate e rudentate, dal capitello composito, sostengono
architravi: non linea curva, ma retta; e perciò anche i soffitti, cassettonati,
sono piani. Non è dunque esatto affermare che è architettura albertiana; o, se
rapporti con l’Alberti vi sono, possiamo vederli piuttosto nelle soluzioni
prospettiche e nella maestà, tenendo presente che il trattato De pictura era stato pubblicato nel ’36.
Forse Piero può avere avuto
notizie sulle forme dell’architettura ellenica da qualcuno dei greci presenti a
Firenze nel’ 39, elaborandole con le sue conoscenze.
La rettilineità delle
membrature architettoniche permette una totale realizzazione dell’impianto
prospettico secondo linee convergenti nel punto di fuga.
Il pavimento esterno è diviso
da strisce di marmo bianco, in grandi quadrati, ciascuno dei quali, a sua
volta, nuovamente diviso in quadrati di cotto (8 per ogni lato): c’è dunque un
reticolato minore, che chiarisce, con più esattezza, le misure di quello
maggiore. Per la stessa ragione ritroviamo la decorazione a cassettoni nel
soffitto della sala e, nel sottostante pavimento, un altro tipo di scacchiera,
più variata, più ricca, con alternanze di marmi bianchi e scuri. Ma nel
quadrato centrale, dove è posta la colonna della tortura, si inscrive una
circonferenza, in rapporto preciso con la cilindricità della colonna. Questa,
per riferimento della sua posizione al pavimento, risulta pertanto centrale
nell’ambiente. Ad evitare che, nella parte alta, per mancanza di ulteriori riferimenti,
si verifichi l’effetto ottico, altrove constatato, di sovrapposizione al piano
di fondo, Piero pone, sul capitello, una statua, la cui testa e il braccio
alzato sono compresi entro la faccia anteriore dell’architrave che divide il
quadrato centrale del soffitto da quello più lontano. L’intera colonna, dalla
base in su, ci appare, così, assolutamente collocata al centro.
Davanti alla colonna sta il
Cristo, colonnare anch’esso nella tornitura del corpo e nel chiaro colore che
lo imparenta alle architetture. Egli è indifferente a quanto accade: non c’è
nessuna reazione dolorosa, non c’è nessuna emozione. Neppure i flaggelatori,
che si dispongono attorno, imprimono alcun impeto al loro gesto: essi hanno
sollevato la frusta, ma questa non ricadrà mai sul corpo dell’uomo legato.
Così il giudice, seduto su un
piano rialzato a sinistra (sulla base del quale si legge la firma del maestro),
e l’uomo di spalle, assistono impassibili. Né parlano i tre uomini in primo
piano: ciascuno immobile, assorto nel proprio mondo, con gli occhi rivolti
verso un punto che egli solo vede.
Questa assoluta immobilità,
questo silenzio, questa indifferenza sono l’elemento fondamentale per capire
Piero. Come Paolo Uccello, egli blocca tutto riconducendo ogni oggetto a forma
geometrica ideale. Ma contrariamente a Paolo, incatena tutti, reciprocamente,
in un’unica, coerente, lucidissima rete prospettica.
Esiste una rispondenza di
tutte le parti che sono studiate secondo una formula proporzionale: è quella
<<sezione aurea>> che torna più volte fin dall’antichità e che
trova in Piero la sua più alta espressione artistica.
Maria Paola Forlani
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