Percorsi tra arte, cinema e teologia
Tutte le testimonianze
scritte sulla fine della vita terrena di Gesù sono concordi nel dichiarare che
egli è morto in croce. Per le sante Scritture questa è la morte del maledetto
da Dio (<<Maledetto chi pende dal legno>>: Dt 21,23: Gal 3,13),
appeso tra cielo e terra perché rifiutato da Dio e dagli uomini.
Proprio la croce, simbolo più
terribile e umiliante conosciuto all’interno della società romana, accogliendo
su di sé Gesù Cristo è divenuto il punto culminante della storia di salvezza di
Dio con l’umanità, l’evento in cui avviene la rivelazione definitiva del volto
di Dio: davvero la croce è teologa! La croce è il segno della responsabilità
illimitata di Dio nei confronti dell’umanità peccatrice.
La raffigurazione di Cristo
crocifisso è stata per la teologia e l’arte il luogo per eccellenza in cui
cercare di rivelare il <<vero>> volto di Dio. In una costante
dialettica tra gloria e kenosi. Nei
primi secoli si preferisce mostrare il Cristo glorioso trionfante sulla morte
come un capo vittorioso. Dall’epoca medioevale si mette in scena il dramma di
Gesù sofferente, deforme, colto nell’ultimo spasimo, il cui volto sfigurato
rivela le lacerazioni di un’umanità in attesa di una redenzione. E oggi, come
si può interpretare e rappresentare l’evento della croce? Andrea Dall’Asta nel
suo ultimo libro “La Croce
e il Volto”, ricostruisce questi complessi passaggi in una serie di “percorsi”
tra arte, cinema, filosofia e teologia che si distendono sull’arco di due
millenni, fino a mostrare le modalità inedite e sorprendenti con cui il
linguaggio artistico contemporaneo esprime il messaggio provocatorio della
Croce, svelamento dello splendore del Volto di Dio e dell’uomo.
Nei primi secoli della
Chiesa, anche quando non si rappresenta il corpo di Cristo, la croce è simbolo
di vittoria, sormontata dal crisma, dal monogramma di Cristo, con le lettere
greche X e P. Circondata da una corona, è emblema della vittoria, come la croce
conservata ai Musei Vaticani.
Così avviene nel piccolo
mausoleo di Galla Placidia a Ravenna (V secolo). La croce è simbolo eterno e
cosmico di Gloria, del principio di
tutte le cose. È crux
splendidor cunctis astris, la più
splendente di tutte le stelle, che irradia la sua luce al cuore della notte. La
croce vittoriosa, posta sulla sommità della cupola e circondata dai quattro
viventi che ne diffondono il messaggio nel cosmo, riconduce tutto all’unità tra
cielo e terra, tra finito e infinito, trasformando lo spazio in un luogo
soprannaturale, in cui nessuna legge terrena ha più alcun corso. Così, nella
chiesa di Santa Maria Antiqua a Roma è mostrato il Christus triunphans. Superando il simbolismo paleocristiano, il
Crocifisso, un corpo, entra nella storia. Una calma solenne abita tutta la
composizione. La figura di Cristo, di maggiori proporzioni rispetto a quella
degli altri personaggi, domina la composizione. La croce puntellata da tre
cunei, è saldamente ancorata alla roccia.
Il Crocifisso, posto alla
confluenza di due montagne, è perfettamente verticale.
È l’ axis mundi, l’asse
del cosmo, origine di senso dello spazio che si organizza attorno a lui.
L’albero della vita. Con la sua morte è avvenuta la riconciliazione tra cielo e
terra. Cristo non è appeso alla croce, ma in piedi, si erge come un re
vittorioso, pieno di dignità. La croce è il luogo della vittoria. Cristo è vivo
e trionfante, ha già vinto il dolore e le tenebre della morte. Il suo corpo è
già glorioso, risorto. Cristo è il vivente. È il Principe della
vita. Il suo sguardo è rivolto al fedele, per infondergli fiducia. Cristo
indossa la veste sacerdotale, un colobium
color porpora, di origine siriana, senza maniche: egli è il sacerdote
eterno, mediatore tra Dio e gli uomini, colui che permette l’accesso al Padre.
La dialettica tra Cristo
trionfante e Cristo sofferente sarà sempre presente nelle rappresentazioni
rinascimentali. La tradizione italiana interpreta l’iconografia del
Christus patiens alla luce di una bellezza armonica, collocando l’evento della croce in
un contesto di armonia e di pace, che esorcizza l’elemento fortemente
drammatico.
L’interpretazione del
Crocifisso come Deus absconditus sarà
elaborata soprattutto in ambiente nordico.
Un caso esemplare è il celebre pannello della Crocifissione del pittore tedesco Matthias Grünewald, inserito al centro del polittico dell’altare dei monaci Antoniti di Isenheim, una delle immagini più potenti della fede cristiana.
Un caso esemplare è il celebre pannello della Crocifissione del pittore tedesco Matthias Grünewald, inserito al centro del polittico dell’altare dei monaci Antoniti di Isenheim, una delle immagini più potenti della fede cristiana.
La morte si presenta qui in
tutto il suo orrore. Il Crocifisso campeggia gigantesco nella scena, morente,
immenso e terrificante. Il suo corpo è deforme, ripugnante. Il suo volto,
coronato di spine, sembra ancora lottare con la morte. Le palpebre degli occhi
sono chiuse. Con realismo spietato, Grünewald presenta un
uomo moribondo. Il suo petto è dilatato, come per l’ultimo sforzo di un
respiro, prima della morte, le labbra livide e tumefatte, il suo ventre è
inarcato, Cristo è sfinito, di fronte all’abisso.
Anche nel Novecento il corpo,
diventando soggetto dell’opera, si fa luogo della testimonianza dell’artista,
del suo messaggio, della sua missione nella società.
Non è più semplicemente rappresentato, ma si fa attore,
protagonista, è messo in scena, come nella performance.
Per Francio Bacon, la
tragedia non lascia nessun spiraglio alla leggerezza.
Se nella Crocifissione di Grünewald il corpo di Cristo era
deforme, tutto in Bacon parla di lacerazione, di crudeltà, di incomunicabilità,
di solitudine e, al tempo stesso, di rivolta sofferta. Bacon riesce a dare
forza all’esistenza dei suoi personaggi sia pure in situazione di immobile e
corrosiva contorsione.
Il Novecento non cessa di
studiare, analizzare e interpretare la figura di Cristo. Con l’incarnazione, la
storia di Dio diventa storia dell’uomo. Cristo entra nelle vicende umane,
perché l’uomo possa riconoscerlo nel suo cammino, nell’incontro con gli altri,
si rende così presente nella concretezza del quotidiano, anche attraverso
figure che, senza immediatamente identificarsi con lui, sono assimilabili alla
sua persona,
Un esempio sono i lavori del
pittore francese Georges Rouault (1871 – 1958), e in modo particolare la
celebre sequenza di acquetinte del Miserere
(1917 – 1927).
L’opera è una protesta contro
l’ingiustizia, la violenza dell’uomo, la corruzione, il degrado morale,
denuncia lucida e disincantata della condizione umana.
Nell’ultima parte del libro
Andrea Dall’Asta fa un interessante excursus su “Cristo e l’evento della croce
nel cinema”.
Molta storia e molti gli esempi
narrati in questa sezione del volume.
La dolce vita (1960),
grande affresco sul vuoto della contemporaneità. Fellini stesso spiega come la
realtà della Grazia sia presente nella vita dell’uomo, in riferimento
all’ultimo episodio. All’alba, una fanciulla, Paolina, trasmette segni al
protagonista, Marcello, che non capisce, e gli dice parole che egli non può
comprendere per il rombo del mare. Con il sorriso in primo piano della giovane
ragazza si chiude il film. Secondo le parole dello stesso regista riportate dal
gesuita Nazzareno Taddei che gli chiede che cosa sia la Grazia , Fellini
risponde:<< Che cos’è la
Grazia se non quella realtà come Paolina, che tu non capisci
e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice: “Vai pure! Mi troverai sempre ad
aspettarti”?>>. La Grazia
si offre nella dolcezza di un sorriso. Come se Cristo potesse farsi presente
attraverso il volto innocente di una fanciulla…Si chiude in questo modo la
sequenza iniziale del film, la discesa della statua in gesso di Cristo
benedicente portato dall’elicottero. È il Cristo che scende
nel mondo degli uomini, ma resta inascoltato nelle pieghe dell’oscurità umana.
Percorsi tra arte, cinema e
teologia
Di Andrea Dall’Asta
Editrice Ancora
Euro 30,000
236 pag.
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