Quando
la settima arte cominciò a muovere i primi passi letteratura e teatro erano
immediata fonte di ispirazione, ma ben presto ci si rese conto
dell'impossibilità di far coincidere due diverse forme di linguaggio: il
prodotto visivo non potrà mai sostituire il testo scritto
"Questo
era il mio scopo: realizzare l'equivalente di una lettura, lasciare allo
spettatore altrettanta libertà e immaginazione di quanta ne ha un lettore di
romanzi. Che intorno all'immagine, dietro l'immagine e perfino all'interno
dell'immagine egli possa lasciar andare la sua immaginazione, pur subendo la
fascinazione dello schermo". Così scriveva uno dei padri della
"Nouvelle Vague" Alain Resnais
a commento del suo ormai classico "Hiroshima mon amour". Ai tempi di Resnais, cioè tra gli anni
Cinquanta e i primi Sessanta, era preponderante una letteratura che prese il
nome di "Ecole du regard" e che era il frutto delle ricerche critiche
di Alain Robbe-Grillet. In termini
semplici: si cercava di far coincidere il cinema con la letteratura. Il cinema,
cioè, doveva essere pensato come una pagina visiva in perfetta consequenzialità
con la struttura narrativa della pagina scritta. E questa, la pagina scritta,
doveva avere la capacità di evocare l'immagine schermica. Non fu un esperimento
completamente riuscito, anche se Resnais, da fine autore com'era, compose le
sue scritture cinematografiche con estrema finezza anche se con un forte ed
esasperato estetismo. Già dai primi passi della settima arte, la letteratura ed
il teatro erano immediata fonte di ispirazione, anche perché la ricerca teorica
e la prassi estetica non avevano ancora pienamente intuito l'autonomia poetica
del film. Quando un grande regista come Ejzenstejn provò "sul campo"
l'efficacia del montaggio, il film si organizzò secondo forme narrative tipicamente cinematografiche.
Negli stessi anni, un altro grande come Pudovkin, in polemica con il confatello
russo, cercò di dimostrare che l'inquadratura, soprattutto nel primo e
primissimo piano, esprimeva ciò che nessuna pagina scritta poteva evidentemente
mostrare. Avevano ragione entrambi, anche se in quel contesto avevano
estremizzato le loro tesi. Eppure, tra cinema e letteratura gli steccati
divisori non potevano essere alzati. Esemplifico. Quando Luchino Visconti, che
era anche un bravissimo regista teatrale, tentò con "Ossessione" la
trasposizione filmica de "Il postino suona sempre due volte" dal
romanzo, a dire il vero dozzinale, di James Cain, riuscì, isolando la trama del
romanzo dal contesto americano, a costruire una sorta di neorealistica vicenda
padana tra gli argini del Po. Lo stesso Visconti con "La terra
trema", sconcertante e lucido appello ad un verismo di forte matrice
classica, rese l'atmosfera de "I Malavoglia" di Giovanni Verga"
in modo quasi speculare. Non fu, chiaramente, una riproduzione, ma
un'interpretazione del verismo verghiano come base per un rinnovato
realismo. Non fu, però, un'
illustrazione. Mi spiego: l'ilustrazione (come di prassi in film pacchiani
ispirati alla Bibbia che innonderanno
schermi e teleschermi) quando è intesa in pura funzione della pagina scritta,
perde ogni forza ed energia cinematografica. Visconti rifece a modo suo "I
Malavoglia" e, come nel caso dello splendido "Il gattopardo",
ispirato al romanzo di Giuseppe Tommasi di Lampedusa, ricostruì un mondo,
un'epoca e un'atmosfera che solo il linguaggio cinematografico poteva
efficacemente ricreare. Volle, intelligentemente, che si parlasse di
"liberamente ispirato a…" piuttosto che "tratto da…". Non è
solo formalismo terminologico. Certo, quando la collaborazione tra regista e
romanziere era ed è tuttora stretta, la sceneggiatura diventa letteraria.
Alcuni romanzi sembrano impenetrabili ad ogni "transcodificazione".
Il parolone va spiegato, anche se è di una semplicità estrema: si tratta di un
passaggio da un codice (romanzo o opera teatrale) ad un altro (il linguaggio
cinematografico). Credo che non sia mai possibile una vera transcodificazione;
se ciò non fosse, si potrebbe parlare, ed è il caso di alcuni film
intenzionalmente religiosi, di Bibbia "transcodificata"; che è,
appunto, un assurdo. Roberto Rossellini aveva avvertito tale impossibilità quando, nella sua ultima
esperienza televisiva, fu protagonista di una felice stagione di modalità interpretative che non sostituisse
il testo scritto. Il regista pensava ad un "rimando" costante al
testo scritto, come nel caso de "Il Messia" e de "Gli Atti degli
apostoli". Per ottenere l'effetto di uno stimolo alla lettura, schematizzò
l'interpretazione dei personaggi pur nell'estrema fedeltà storica ed
archeologica alle situazioni bibliche. Schematizzare, per Rossellini,
significava non far recitare in modo mimetico, cioè di perfetta identificazione
psicologica con i personaggi del testo scritto, diversamente dal modello della
scuola di recitazione dell' Actor Studio statunitense. Tale scuola prevedeva un
rivissuto esistenziale di ogni piega psicofisica del personaggio. Si pensi, ad
esempio, alla recitazione di Marlon Brando in "Fronte del Porto" o di
Robert De Niro in "Toro scatenato", tratto dal libro autobiografico
del pugile Jack la
Motta. Evidentemente , non si trattava di sottovalutare tale
eccezionale officina interpretativa, perfettamente funzionale in certo cinema a
forti connotati realistici, ma ipotizzare una "distanza" dall'evento
Rossellini che, nel caso di audiovisivi ispirati alla Bibbia, suscitasse
durante e dopo la visione la lettura del testo che aveva ispirato il film o lo
sceneggiato. In altri termini, la tesi
era questa: non si deve creare l'effetto del "dare tutto" sullo
schermo o sul video. Il prodotto visivo, dunque, non deve sostituire il testo
scritto Richiamare Rossellini non è accedere a nostalgie archeologizzanti.
Purtroppo, anche molti cattolici sistematicamente disattendono la serietà di
questa tradizone, spesso mossi da un'infelice presupposto: che, vista
l'efficacia dell'immagine, la funzione d'immediatezza basti a se stessa. Credo
che tale infelice disposizione d'animo, frutto di carenza teologica e di una
concezione meschina dello spettatore, abbia alla radice la convinzione che il
prodotto di facile consumo sia un dato ormai irreversibile. Purtroppo, una
delle ragioni portate è quella della competitività. Quasi a dire: se va quel
prodotto, perché fare gli estetizzanti? Un serio recupero dei più significativi
colloqui tra letteratura e cinema, mostrerebbe la povertà di tale angusta
prospettiva. Quando, ad esempio, si volessero rispolverare certe intelligenti
ispirazioni televisive ai grandi della letteratura russa, ci si accorgerebbe
che proprio nel periodo della loro realizzazione anche le famiglie meno
scolarizzate acquistarono i vecchi classici della BUR. Certo, se la nostalgia
porta alla malinconia dell'immobilità, l'euforia dell'effimero uccide
l'entusiasmo per la lettura.
4-11-2001 Franco Patruno
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