IMAGINE.
Nuove immagini nell’arte italiana
1960-1969
Ѐ possibile ideare una mostra d’arte italiana che interessi “solo” una
decina d’anni,
nove per
l’esattezza, dal 1960 al 1969, senza per ciò stesso ricorrere a vetuste e
inflazionate etichette come Informel, New Dada, Pop Art, Arte programmata,
concettuale, povera, ecc.? Con convinzione è quanto suggerisce Luca Massimo
Barbero nella scelta della cinquantina di opere che accompagna la mostra Imagine. Nuove immagini nell’arte italiana
1960-1969
(Venezia, Peggy Guggenheim Collection, fino al
19 settembre 2016).
L’idea di
fondo è che convenga partire dalle immagini in se stesse e dalle
sperimentazioni che in quegli anni fatidici, specialmente a Roma, ma non solo,
gli artisti effettuarono, spesso in solitudine; e comunque solo con forzature
filologiche
e
contenutistiche riconducibili a definizioni non di rado provenienti da contesti
stranieri.
L’<<azzeramento
delle neoavanguardie>> avvenne attraverso un progressivo superamento,
osserva il curatore, di quella che era stata la cultura dell’Arte concreta ma
in particolare del monocromo. Mauri, Lo Savio, Angeli, Festa, Pistoletto,
Schifano e così via da tale superamento maturarono un linguaggio della “figura”
da intendersi come auroralità, quale germinazione di linguaggi altri: una
specie di supercodice, di “idioletto estetico”, avrebbe detto Umberto Eco. Ѐ questo non solo in pittura, ma anche
in filosofia e nel cinema – siamo ancora una quindicina d’anni in anticipo
sulla rivoluzione del personal computer e sulla possibilità grafica attraverso
i monitor analogici.
Si parte da
una prima sezione, che potrebbe definirsi della “cancellazione” ma anche dello
“schermo”, con opere di Fabio Mauri, Francesco Lo Savio, Mario Schifano, Franco
Angeli. L’opera iniziale di Fabio Mauri con cui apre la mostra, Cinema e figura (1960) rappresenta in un
certo senso una sorta di icona metaforica, meglio, di “sinopia”, visto che la
garza parzialmente cela l’immagine sottostante: laddove, per esempio, i coevi
manifesti del cinema strappati di Rotella rimandano a una nozione nostrana di
Pop Art.
Roma in
quegli anni rappresentava quasi una deuteragonista della più “industriale” e moderna Milano,
interpretata magistralmente dai monocromi di Fontana e dallo spazialismo in
generale, con i loro ammiccamenti alla scienza, alla tecnologia, alla
televisione: una sorta di voce sotterranea, non meno autentica, che lasciava
trapelare il passato come dato che tende ad aggettare dal quadro gridando la
propria esistenza. Ѐ il caso, per esempio, di Metallo
nero opaco uniforme di Francesco Lo Savio (1960), o ancor più di Monocromo di Schifano (1960), lavoro
assai raro ai confini fra la tela e la scultura.
Non meno
penetranti le immagini quasi “araldiche” di Francesco Angeli, pure loro velate,
quali Testa di lupa capitolina (1960)
e Stemma pontificio (1964).
Si passa
quindi a capolavori dove si potrebbe dire fiorisce un rapporto nuovo – quasi
“postmoderno” – con giacimenti culturali dell’immaginario artistico e urbano di
casa nostra.
Vi spiccano lavori giganteschi come La grande odalisca di Tano Festa (1964);
Particolare della nascita di venere di Giosetta Fioroni (1965), che
solo assai da lontano dialoga con le Marilyn Monrhol; Nostalgia dell’infinito (Obelisco) di Tano Festa (1963), con un
obelisco che ricorda – e credo fosse questa l’intenzione – il principio
duchampiano di mettere ironicamente in “scatola” cose di dimensioni ben
maggiori; Corpo in moto e in equilibrio di
Mario Schifano (1963), che sembra voler asserire la propria contiguità con l’Uomo vitruviano leonardesco delle
Gallerie dell’Accademia di Venezia, ma che rispetto a quello quasi pare
“inciampare”, trovarsi spaesato come in un tempo non proprio.
L’idea dell’
“inciampo”, della dissonanza che questi artisti rappresentano almeno secondo la
tradizionale loro collocazione, prima ancora come uomini del loro tempo che
come artisti, pare proprio essere il leitmotiv che accompagna tutta la mostra.
E restando a
Schifano, come non scorgere la sensazione di trovarsi in un posto “altro”,
alieno quasi, in un quadro come Central
Park East (1964), frutto del suo contatto con New York? Le immagini quasi
si solidificano nelle ultime sezioni della mostra, sia perché si assiste
all’ingresso della tecnica fotografica, sia nel senso che esse tendono alla
tridimensionalità. Penso a opere come l’enorme Mappamondo,
in
cartapesta e tondini di ferro di Michelangelo Pistoletto (1965), dove la figura
fitomorfa si trasforma in presenza inquietante. Da ricordare da ultimo,
l’impressionante White Bed di
Domenico Gnoli (1968), specie di letto di contenzione degli Achromes manzoniani purificati
attraversi il Cristo morto di
Mantegna.
Maria Paola
Forlani
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