Michelangelo e Vasari.
Preziose lettere all’<<amico
caro>>
Il restauro
di un significativo nucleo di lettere di Michelangelo Buonarotti a Giorgio
Vasari e la digitalizzazione dell’intero archivio, interventi promossi e
diretti dalla Soprintendenza Archivistica e Bibliografica della Toscana, sono
state l’occasione per esporre per la prima volta a Firenze i documenti più
rilevanti di questo fondo, conservato ad Arezzo presso il Museo Casa Vasari.
L’esposizione, Michelangelo e Vasari.
Preziose lettere all’<<amico caro>> dall’archivio Vasari. A
cura di Elena Capretti e Sergio Risaliti, con il patrocinio della Città
Metropolitana. Comune di Firenze e Comune di Arezzo si tiene a Firenze, in
Palazzo Medici Riccardi fino al 24 luglio 2016.
La mostra si
apre con una prima sezione dedicata alla storia dell’eredità di Giorgio Vasari,
del suo archivio e, più in generale, della sua memoria come si esprime nella
complessa relazione tra il corpus documentario,
la biografia vasariana e le vicende ereditarie. Oltre a costruire fonti
preziose per la storia dell’arte e della cultura del Rinascimento, queste carte
rappresentano un apparato memoriale e autocelebrativo a cui Vasari
consapevolmente affida la propria effige d’artista destinato ad una fama
imperitura. Svolgono la stessa funzione le disposizioni testamentarie con le
quali Vasari cerca di assicurare la trasmissione ai posteri del suo patrimonio
e delle carte. La successiva, complessa, storia della memoria vasariana viene
ripercorsa nelle sue tappe fondamentali, fino agli sviluppi recenti.
La sezione
seguente espone le lettere che documentano il rapporto privilegiato che Giorgio
Vasari intrattiene con il suo principale committente Cosimo I de’ Medici, ma
anche i
sodalizi instaurati con letterati ed eruditi del tempo come Paolo Giovio,
Annibale Caro, Vincenzo Borghini, iconologo ufficiale del duca Medici,
accompagnano la sua produzione artistica suggerendogli “invenzioni”, allegorie,
genealogie illustri, rievocazioni mitologiche con effetti profondi, evidenti
anche nelle pitture che l’artista realizza in Palazzo Vecchio.
Il percorso
espositivo prosegue raccontando come nasce l’idea e la storia de Le vite de’ più eccellenti pittori,
scultori e architetti, che Vasari pubblica a Firenze in due edizioni,
entrambe con una dedica al duca Cosimo I de’ Medici: la prima uscita nel 1550
nei tipi di Lorenzo Torrentino e la seconda ampliata e corredata dei ritratti
incisi degli artisti, edita dai Giunti. Le
Vite sono di fatto la prima storia dell’arte moderna, il cui culmine –
formale, morale e spirituale – è rappresentato da Michelangelo Buonarotti (1475
– 1564) di cui Vasari, in forza del rapporto speciale con l’artista, si ritiene
erede e discepolo privilegiato.
L’ultima
sezione della mostra focalizza, attraverso una narrazione intima e
coinvolgente, proprio questo rapporto personale e ravvicinato tra i due
artisti, una relazione amicale che intorno al 1550, anno della pubblicazione
dell’edizione Torrentiniana delle Vite, si
intensifica fino a diventare familiare.
A
documentare questa amicizia ci sono le lettere autografe inviate tra il 1550 e
il 1557 da Michelangelo all’amico caro
messer Giorgio. Sono anni di gloria e di sconforto, quando l’anziano
Buonarotti riceve la notizia della nascita del nipote, deve affrontare la morte
del fedele assistente Urbino, si vergogna degli errori commessi nel cantiere di
San Pietro, immagina ancora soluzioni architettoniche audaci, si rammarica di
non poter tornare a Firenze, come vorrebbe l’amico Vasari e
lo stesso
Cosimo I
. Le lettere contengono anche tre sonetti, considerati il testamento spirituale dell’artista, tra i quali “Giunto è già il corso della vita mia”,
. Le lettere contengono anche tre sonetti, considerati il testamento spirituale dell’artista, tra i quali “Giunto è già il corso della vita mia”,
del 19
settembre del 1554, in cui Michelangelo si fa interprete dei suoi amati
maestri, Dante e Petrarca, e traduce in versi una sorta di confessione come
artista e come uomo avverte di essere giunto quale “fragil barca” al “comune
porto” scampando al mare tempestoso della vita. Si aggrappa al legno della
Croce, su cui il figlio di Dio è stato sacrificato per redimere l’umanità.
Queste tarde carte michelangiolesche, nelle quali troviamo anche alcuni disegni
originali, sono un documento di eccezionale valore morale e di altissimo
significato spirituale.
Una prima definizione critica delle poesie di
Michelangelo si deve a Francesco Berni, che nel 1538 assegnava a quei versi una
concretezza di matrice dantesca, fatta di cose e non di vuote parole, e che
quindi opponeva la gravitas della Divina Commedia alla pacevolezza dei seguaci di Francesco
Petrarca. Dopo il Cinquecento, una delle interpretazioni critiche più
significanti si deve al grande scrittore tedesco Thomas Mann che ebbe a
definire i testi michelangioleschi <<poesia allo stato selvaggio>>,
evidenziando la forza espressiva di quei versi e l’insofferenza alle
restrizioni lessicali e metriche dei fautori, come Pietro Bembo, di un
petrarchismo rigido, insuperabile.
Michelangelo
fu sperimentatore anche in questo caso, e ricercò una sua formulazione poetica,
legata tanto a Petrarca quanto a Dante, con citazioni e riferimenti a Lorenzo
il Magnifico e Poliziano, a Cavalcanti e al Pulci, così come alla filosofia
neo-platonica, che l’artista aveva potuto conoscere dalla viva voce di Marsilio
Ficino. Ricchi di metafore e di contrapposti, anche arditi, i versi ripetono in
modi “concettosi” le forme scultoree, caratterizzate fin dalla giovinezza di
Michelangelo da una articolazione serpentina, quale indice di una tensione psicologica
fortissima, di una aspirazione metafisica veemente e tormentata.
I documenti
autografi, e le diverse redazioni, testimoniano la faticosa ricerca di una
forma perfetta in cui trasporre e incastonare biografia e vita interiore: la
lotta continua contro il richiamo dei sensi, riflessioni artistiche e morali,
sentimenti d’amicizia e amorosi, e soprattutto il dipanarsi di una spiritualità
cristiana che alla fine dell’esistenza si concentra interamente sul destino
umano e sulla vanità del mondo, sul rapporto tra arte e fede, alla ricerca di
una comunione mistica con Dio, giudice misericordioso. I tre sonetti
indirizzati per lettera al Vasari testimoniano questa fase; sono gli anni in
cui Michelangelo ormai anziano lavora alla Pietà
Bandini
Nel sonetto
<<Giunto è già ‘l corso della vita mia>>, che accompagna la lettera
inviata a Giorgio Vasari il 19 settembre 1554, Michelangelo parla
dell’approssimarsi della morte, <<il comune porto>>, e della caducità
della vita umana, utilizzando l’immagine della <<fragile barca>>,
passata attraverso un mare tempestoso.
Dopo tanti
affanni anche l’artista dovrà rendere conto a Dio di quanto fatto
(<<ogni
opra triste e pia>>) Riconosce di aver peccato, vittima dei sensi.
Addirittura
ammette di come la fantasia appassionata (<<affettuosa>>) che ha
reso l’arte <<idol e monarca>> fosse carica di errori. Nulla di
tutto questo, ormai, vale all’avvicinarsi della doppia morte: una corporale (di
cui è certo) e l’altra spirituale (di cui avverte la minaccia). Pittura e
scultura non appagano l’artefice, perché la sua anima è tutta rivolta a
contemplare Gesù, il Figlio di Dio che sulla croce aprì le braccia per redimere
gli uomini.
Nella
lettera datata 11 maggio 1555 compaiono ben due sonetti dello stesso tenore,
assieme a un’esortazione rivolta da Michelangelo all’<<amico
caro>>, Vasari, perché tenga presente quali siano i suoi pensieri in
quell’estrema fase della sua esistenza. Definisce poi le sue poesie <<cosa
sciocca>>, ma con ciò vuole rinforzare il valore di queste liriche, che
valgono anche come ultima confessione dell’artista cristiano.
Maria Paola
Forlani
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