La
riproposta di RAI 3 di uno dei film più poetici di Pupi Avati “Il cuore
altrove” (2003) ci fa riscoprire uno dei registi italiani più fantasiosi ed
attento, non solo ai ricordi, ma, soprattutto, ai sentimenti più intimi del
cuore umano.
La
recensione di Franco Patruno su l’Osservatore Romano ne cogli tutti questi
aspetti
UNA FAVOLA
BEN RIUSCITA DOVE TUTTO E' SEMPLICE, ANCHE LA SORPRESA
Il film
"Il cuore altrove" di Pupi Avati
Se è vero,
come afferma Paul Ricoeur con antico riferimento agostiniano, che
all'impossibilità di definire il tempo corrisponde la capacità di imprimerlo
nel racconto, i veri narratori lo sperimentano strutturandolo in uno spazio.
Anzi, lo spazio stesso rivela il tempo cadenzandolo in una storia. Non appaia
estranea a Il cuore altrove di Pupi
Avati questa premessa. Dopo la visione del film ho avuto netta l'impressione di
una connaturalità tra la costruzione
della vicenda di Nello, il trentacinquenne professore romano di latino e greco,
ed il montaggio che ritma scene e sequenze senza soluzione di continuità. O,
per dir meglio, in modo tale che ad un sintetico proemio di presentazione delle
situazioni, faccia seguito tutta la storia verso un compimento che s'avverte
come giunto a maturazione. Ci sono fabule che appartengono alla memoria degli
autori da sempre, quelle che caratterizzano un mondo ed una riconoscibile
poetica. Questa non è una delimitazione
della fantasia creativa, ma un fecondo terreno nel quale e sul quale la novità
di un nuovo percorso si inserisce, ripeto, con connaturalità. La figura del
personaggio trasognato e tutt'altro che simmetrico alla concretezza della vita
di tutti i giorni è una costante della letteratura e del cinema, perché desta
tenerezza ed umorismo già dalla prima apparizione. A meglio definirlo stanno le
contrapposizioni: un padre di realismo raro, ma orgoglioso di una sartoria che
lavora per i Papi, un compagno di stanza barbiere di fino alquanto goliardico
di usi e costumi ed una ragazza d'alta borghesia che sprizza vitalità ad alto
rischio di provocazione. Tra Roma e Bologna si instaura un colloquio di
ambienti appena tratteggiato, ma presente come atmosfere, situazioni a
confronto ed altrettante contrapposizioni a sfondo sociale. Il tema che appare
centrale, ma che tale non è, è quello della cecità non permanente di Angela,
soprattutto se inizialmente descritta in una delle pagine più belle ed avatiane
del film: il ballo tra i possibili futuri sposi e le non vedenti, in un
ricreatorio di forte richiamo felliniano. Tutto è semplice, anche la sorpresa,
cioè "l'apparizione" di Angela fuori dalla sala, quasi in trasparenza
con il verde oltre il corridoio. La storia dei sentimenti è storia di
definizione di personaggi, come è maestria di Pupi e, accorta regia, storia di
conduzione d'attori. Un pregio del regista bolognese è il lasciare che questi
siano quello che hanno capito, senza forzarli con schemi d'inutile teatralità.
Cioè senza che si perdano nei meandri dell'evocativo. Così Avati lascia che si
autopresentino Neri Marcoré, Vanessa Incontrada, Nino D'Angelo, Giancarlo
Giannini e Giulio Bosetti. E', con tutta probabilità, un fatto non solo legato
all'immediatezza e alla simpatia tra regista e interpreti nell'atto della messa
in scena, ma una consumata tecnica nata dalla vocazione a costruire lo spazio
vivo delle azioni, in modo tale che, calandosi in una parte, gli attori
scoprano una dimensione di se stessi. Certo, Giannini occupa quello spazio come l'abitasse da
sempre; e così pure Bosetti. La sorpresa è l'intreccio tra Marcoré e
l'Incontrada che sono un Giano bifronte: l'indecisione ontologica della figura
del primo fa risaltare l'euforia sincera, ed anche malinconica, della
polivalente espressività di Angela, cioè il personaggio rivissuto dalla giovane
attrice spagnola. Il film si snoda con velocità, perché Pupi non lascia mai
sola un'ipotesi di vita senza condurla a termine, anche, e soprattutto, con la
caratteristica ormai nota della subitaneità degli accenni. La sceneggiatura,
come si suol dire, "tiene", perché è l'intelligenza della storia che la
sostiene, senza bisogno di indebite forzature o lungaggini fuori luogo. Quando
s'avverte che un racconto è parte del proprio mondo, anche il montaggio non è
solo indubbia abilità, ma vera costruzione del rapporto di causa ed effetto nel
succedersi di scene e sequenze.
I due
momenti finali, che non descrivo per non mortificare una possibile visione del
film, sono indovinati e, negli ambienti nei quali si svolgono, facilitano la
comprensione dell'antica storia dei personaggi "imbarazzati" e che si
configurano come inadeguati a situazioni socialmente codificate. Sembran tali
di natura, ma invece, come da Charlot a Gelsomina, han capito gli accenti
sapienziali della vita. Così finisce una favola ben riuscita, nel miglior stile
del regista bolognese e fortunatamente assai prossima alle feriali aspirazioni
degli spettatori, con alcuni tratti d'omaggio a Fellini che fanno perdonare
anche una fotografia un po’ statica e teatrale.
14-2-2003
Franco
Patruno
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