PINACOTECA
di BRERA
Secondo dialogo
Attorno a Mantegna
Il
rinnovamento di Brera voluto da James Brandburne procede a grande velocità.
A pochi mesi
dall’inaugurazione delle sale della pittura ferrarese e marchigiana, la
Pinacoteca milanese si presenta con un nuovo atrio d’accoglienza al pubblico e
con il riallestimento delle sale medievali, del Rinascimento e del Cinquecento
veneto.
In questa
circostanza si colloca anche uno dei “dialoghi” previsti per i capolavori di
Brera: dopo il primo dialogo tra lo <<Sposalizio
della Vergine>> di Raffaello e l’analogo soggetto di Perugino, parte
il “secondo dialogo”, che ha come
protagonista il <<Cristo
morto>>, di Andrea Mantegna esposto accanto al <<Cristo morto e strumenti della
passione>> di Annibale Carracci (prestato dalla Staatsgalerie di
Stoccarda) e il <<Compianto su
Cristo morto>> di Orazio Borgianni della Galleria Spada di Roma
(visibile fino al 25 settembre 2016). Il dialogo tra questi tre quadri,
accomunati dalla medesima e ardita composizione del Cristo morto <<in
scurto>> (cioè in scorcio) ovviamente nella Sala voluta da Carlo Bertelli
e disegnata da Vittorio Gregotti nel 1987. Il nuovo percorso d’accesso
progettato da James Bradburne e dall’architetto Alessandra Quarto parte dal
collegamento tra la Biblioteca Nazionale Braidense e la Pinacoteca, attraverso
un comune ingresso fornito dalla riapertura della porta principale, posta in
cima allo scalone monumentale. Varcata tale porta il visitatore entra a
sinistra nel lungo corridoio d’ingresso, che era diventato parte integrante
della pinacoteca ospitando prima la donazione Emilio e Maria Jesi e poi gli
affreschi di Bramante e Luini. Oggi il corridoio è destinato i servizi
d’accoglienza e gli apparati didattici, fino a una porta vetrata automatica che
rappresenta il nuovo varco alle sale espositive ed è posta a garanzia del
microclima interno.
Varcata la
porta vetrata, il visitatore può scegliere un doppio percorso o entrare nelle
salette di sinistra dove trova esposte le opere che vanno dalla fine del Duecento
al Quattrocento. In entrambe i casi si sfocia nella lunga sala di Gregotti dove
sono conservati in particolare i capolavori di Andrea Mantegna e Giovanni
Bellini. Il visitatore noterà che il riallestimento è caratterizzato da nuovi
colori per le sale, differenziati per scuole pittoriche e cronologia, a tinte
molto decise di rosso e di blu, che guidano i visitatori nel percorso che va
dal Duecento al Cinquecento. Un percorso segnato a un certo punto dal pannello
su cui è appeso il pezzo forte e celebre della sezione il <<Cristo morto>> di Mantegna.
L’opera che
in precedenza aveva vissuto l’allestimento scenografica di Ermanno Olmi nel
2013 su commissione di Sandrina Bandera, ora definitivamente smantellato. Per
esaltare al massimo la dimensione religiosa e drammatica del dipinto , Olmi
aveva fatto abbassare il quadro <<nella prospettiva giusta, all’altezza
in cui il corpo doveva essere guardato>>, e – privandolo della cornice
antica – lo ha fatto incastonare in un pannello scuro perché fosse
<<affogato nel nero, nello spazio infinito, nell’assoluto>>. La
lettura e la sistemazione dell’opera volute da Olmi – ispirate a una profonda
religiosità e all’idea che la tela fosse stata realizzata da Mantegna per
ricordare il dramma della morte ravvicinata di due figli, secondo notizie
rinvenute da Sandrina Bandera – aveva provocato una mezza insurrezione
nell’opinione pubblica, soprattutto in quelle persone che – sorrette da forti
valori laici – non accettavano l’idea che Cristo
morto di Mantegna, esposto in un museo napoleonico, assumesse il ruolo di
“reliquia” cattolica e dismettesse quello di un neutrale capolavoro della
pittura rinascimentale italiana.
E così, in
occasione dell’attuale “dialogo” tra il Cristo
morto e strumenti della passione di Annibale Caracci e il Compianto su Cristo morto di Orazio
Borgianni,
il
posizionamento voluto da Olmi con le luci basse e il quadro posto all’altezza
<<giusta>> (cioè quella di un fedele prostrato in ginocchio davanti
al corpo esamine del suo Dio) è stato messo da parte.
Adesso s’è
scelto di ricollocare il capolavoro a metà del corridoio, al centro del
cannocchiale – visivo, appeso a un semplice pannello alla convenzionale
“altezza d’occhi” recuperando la sua antica cornice dorata.
Con
quest’opera (1480) Andrea Mantegna sembra quasi aver posto una sfida a se
stesso: cercando l’illusione della profondità, di uno spazio dove il corpo
morto di Gesù “stia” con tutto il suo peso e il suo volume, senza nessun altro
ausilio che la “prospettiva” del corpo stesso. Quello spazio così sapientemente
costruito tante volte attraverso le regole geometriche della prospettiva
dell’architettura, o di quella dei paesaggi e delle figure digradanti in
profondità, è qui reso pienamente solo dalla presenza della figura; perfino il
colore è ridotto al minimo: un tono livido che disegna le pieghe del lenzuolo,
i muscoli del corpo e i lineamenti del volto, secondo una soluzione monocroma.
I volti
piangenti delle figure a sinistra sembrano quasi superflui, o sono soltanto un
ulteriore invito al coinvolgimento dell’osservatore.
Perché
l’effetto prospettico del corpo di Gesù che è sdraiato su una tavola, visto di
scorcio, è decisamente straordinario e coinvolgente. Il corpo del Cristo morto non sprofonda
nell’ombra, ma piuttosto “viene fuori” verso l’osservatore, simmetrico
nell’atteggiamento delle gambe e delle braccia, con il volto reclinato sulla
spalla sinistra, appena dolente nella pace della morte. Molto probabilmente
l’opera nasce dalla volontà di stupire e di dimostrare a se stesso e agli altri
la possibilità di un’arte, come la pittura, capace di rendere la profondità e
il volume, anche senza l’aiuto della prospettiva architettonica; di dimostrare
come si possa uscire vincente in quella gara, detta “paragone”, che vede di
fronte pittura e scultura per decidere quale
delle due arti abbia maggior “dignità”, ma soprattutto sia in grado di
rendere il volume, la profondità, il tutto tondo, anche senza “girarci
attorno”. E, nelle mani di Mantegna, quello che doveva essere un “pezzo di
bravura”, diventa l’espressione di un profondo sentimento di pietà e di amore.
La
permanenza romana del Cristo morto di
Mantegna parrebbe comprovata dal fatto che alcuni pittori presenti a Roma ne
trassero ispirazione. In quest’ottica va letta la presenza temporanea, accanto
al capolavoro, delle tele di Annibale Carracci – che dipinse probabilmente il Cristo morto e strumenti della passione prestato
dal museo di Stoccarda all’inizio della
sua carriera verso il 1582-1584 – e di quella del pittore caravaggesco Orazio
Borgianni, che realizzò addirittura numerose versioni dello stesso soggetto: il
Compianto su Cristo morto che ora
ammiriamo a Milano (databile tra il 1610 e il 1615) è quello della Galleria
Spada di Roma. Ma Carracci e Borgianni videro sul serio l’originale di
Mantegna? Forse. Ѐ un ipotisi.
Maria Paola
Forlani
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