Bernini
Fino al 4
febbraio 2018 la Galleria Borghese di Roma offre al pubblico la mostra <<Bernini>>, curata da Andrea Bacchi
, direttore della Fondazione Federico Zeri di Bologna e grande esperto di
scultura barocca, e da Anna Colliva, direttrice della Galleria Borghese e
anch’essa esperta e custode dei massimi capolavori berniani.
La mostra
intende percorrere due linee d’indagine. Da un lato vuole spiegare come Bernini
lavorò all’edificazione del proprio mito; dall’altro ripercorrere l’intera
carriera del maestro – svoltasi sotto il regno di otto papi – partendo dagli
strepitosi gruppi di Gian Lorenzo che la Villa da sempre possiede e riunendo
attorno ad essi un insieme di 30 marmi, terrecotte, bronzi e, per la prima
volta, tutti i dipinti che trovano il più vasto consenso critico
sull’autografia berniniana.
La mostra
vuole sottoporre, tanto al pubblico quanto agli studiosi, una serie di temi su
cui la mostra aiuta a riflettere. Primo fra tutti il rapporto di alunnato prima
e collaboratore poi, di Gian Lorenzo con il padre Pietro, da molti anni assai
discusso, viene qui riesaminato alla luce di un confronto inedito come quello
fra lo spettacolare gruppo del Metropolitan, già in casa a Roma, opera
congiunta di padre e figlio e il Satiro a
Cavallo di una pantera di Berlino a loro volta affiancati per la prima
volta insieme alle Quattro Stagioni Aldobrandini,
che accolgono il visitatore nel salone d’ingresso della Galleria. La Capre Amaltea, per quasi un secolo
universalmente ritenuta il primo numero del catalogo di Gian Lorenzo, è qui
accostata ai due putti di Berlino e Los Angeles, in un confronto ancora una
volta inedito nel suo insieme, che permette di ragionare nuovamente su
autografia e datazione della Capra stessa.
Riuniti nella Sala Egizia, questi tre marmi dialogano con il Satiro sul delfino antico, un ideale
precedente ai putti seicenteschi.
In merito al
rapporto di Bernini con il restauro dell’antico, si ha qui l’occasione per la
prima volta di riflettere anche in relazione a quanto realizzato nello stesso
campo dal padre, ammirando per la prima volta insieme tanto il Marco Curzio su cui intervenne Pietro,
quanto l’Ares Ludovisi e l’Ermafrodito Borghese (che ritorna,
eccezionalmente, prestato dal Louvre, nella sala in cui si trovava prima della
vendita a Napoleone), integrati dal figlio.
L’immagine corrente di Gian Lorenzo
per il grande pubblico non è oggi, forse, legata alla sua attività di
ritrattista, ma proprio in questa veste il grande scultore iniziò ad imporsi a
Roma nella sua giovinezza, ed in questa mostra sono riuniti sette suoi busti
ritratto scalati in appena cinque anni, tra il 1620 e il 1625 circa. Al centro
del percorso espositivo sono, naturalmente, i celeberrimi quattro gruppi
borghesiani, che accompagnano il visitatore lungo tutto il pianterreno della
Galleria, nelle loro rispettive sale: per l’occasione il capolavoro di Federico
Barrocci Enea, Anchise e Ascanio fuggono
da Troia è esposto dietro al marmo di Gian Lorenzo raffigurante il medesimo
episodio, secondo quello che era il loro allestimento al tempo di Scipione
Borghese.
L’annoso
problema del Bernini pittore, su cui la critica oscilla tra cataloghi molto
restrittivi ed altri più espasionisti, è in questa mostra riaffrontato dai
curatori organicamente ripartendo dai punti assolutamente fermi, ma anche con
alcune proposte da riesaminare, ed altre del tutto inedite. Sempre nella
Galleria al primo piano, accanto ai dipinti, e in dialogo diretto con quelli
giovanili, si ammirano i tre busti ai quali è fondamentalmente legata la
formula ritrattistica del “ritratto parlante”, geniale invenzione del Gian
Lorenzo maturo.
Come quella
dei gruppi borghesiani al pianterreno, anche la sezione che indaga il mestiere
dello scultore si dispiega lungo più sale del primo piano, anticipata dalla Verità che per l’occasione è stata
ricollocata nel salone d’ingresso, sotto l’affresco settecentesco di Mariano
Rossi nel quale il pittore aveva citato proprio quella statua quando ancora si
trovava a Casa Bernini in via della Mercede.
La sequenza
cronologica delle opere in mostra si chiude con la sezione dedicata ai busti
della piena maturità e della vecchiaia del maestro, con altri sette capolavori,
divisi tra la Galleria e la sala dedicata alla pittura veneta.
Molte sono
le novità che questa mostra presenta al pubblico. Da quando nel 2002 il Busto del Salvatore di San Sebastiano
fuori le mura è entrato nella bibliografia berniniana, l’autografia
dell’esemplare del Chrysler Museum di Norfolk è stata messa in discussione da
gran parte della critica (con autorevoli eccezioni, a partire da quella di
Tommaso Montanari), ma mai fino ad oggi i due pezzi erano stati esposti
insieme. D’altra parte questa è l’occasione per ammirare uno accanto all’altro
i due soli Crocifissi monumentali di
Gian Lorenzo, entrambi in bronzo, ed entrambi fuori dall’Italia (Escorial e
Toronto).
Così la Santa Bibiana, appena restaurata,
accoglie i visitatori nel salone d’ingresso, collocata nel vano che dà accesso
alla Galleria del pianterreno, in modo tale da poterla ammirare a
trecentosessanta gradi.
Si apre così la meraviglia di Apollo e Dafne dove la fuga disperata
della ninfa e l’inseguimento di Apollo che quasi la sta afferrando si stempera
in un elegante atteggiamento ballettistico. Dafne si dibatte, grida, Apollo chiude
la bocca nell’ansito della corsa; ma il dramma, la violenza, scompaiono
nell’armonico disporsi delle due figure secondo una linea obliqua che, partendo
dalla gamba sinistra del dio, ancora sollevata, culmina nella mano destra della
ninfa già trasformata in fronda.
Atteggiamento, appunto, ballettistico, grazie all’equilibrato e calcolato rapporto fra l’uno e l’altra, come seguendo un ritmo musicale preordinato al quale ogni movimento coreografico è sottoposto.
Coerentemente
con questa eleganza, il trattamento del marmo è raffinato fino quasi alla
trasparenza, la luce e l’ombra lo accarezzano dolcemente, modulandolo senza
scarti bruschi, senza contrasti.
Per dare un
significato morale (consono alla sua carica) a un gruppo marmoreo di tema
pagano ed erotico, il committente, cardinale Scipione Borghese, dettò il
seguente distico latino: Quisquis amans
sequitur gaudia formae / fronde manus implet, baccas seu carpit amaras (<<
ogni amante che insegua i piaceri della bellezza fuggente / afferra con le mani
la fronda, o meglio gusta bacche amare>>).
Maria Paola
Forlani
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